COORDINAMENTO
NAZIONALE
FP CGIL
POLIZIA
PENITENZIARIA – Roma 15.06.2001 -
Intervento
di Fabrizio ROSSETTI
Care/i
Compagne/i
Avverto
un rischio fortissimo nella discussione di oggi, quello di avvitarci in una
riflessione più e meno consapevole, sulle motivazioni , le colpe ed i perché
della sconfitta elettorale.
Vi
chiedo di evitare questo rischio, almeno nella parte che meno ci appartiene come
gruppo dirigente nazionale.
Evitiamo
questo rischio anche perché più importante è, a mio giudizio, tentare di
delineare oggi un progetto che concretamente tenti di rilanciare la nostra O.S.
nel settore della Polizia Penitenziaria.
Questo
significa che abbiamo il dovere di attivare, a partire da oggi, un ragionamento
serio e approfondito sulle prospettive che si aprono.
Ragionamento
che però deve considerare anche il percorso che ci lasciamo alle spalle, perché
per capire dove si và bisogna sapere da dove si viene.
E
noi veniamo da 5 anni di risultati che, malgrado tutto, io personalmente giudico
positivi; una stagione che ha prodotto di fatto un avanzamento della Polizia
Penitenziaria sia dal punto di vista istituzionale che sindacale.
Negli
anni 1995/96, registravamo un’ afasia generale del sistema. Un Corpo di
polizia penitenziaria ancora affannosamente in cerca di una sua identità, molto
chiuso nelle sue logiche corporative e autoreferenziali, un Corpo ancora alla
ricerca di primordiali assetti organizzativi e la cui visibilità esterna era
pressoché nulla.
A
ciò corrispondeva, in parallelo, un sistema contrattuale che era
retaggio pieno di una arcaica cultura
pubblicistica ed un sistema di retribuzioni calibrato attorno al vecchio
concetto dello status militare.
Relazioni
sindacali molto rigide, chiuse ed assolutamente incapaci di liberare risorse ed
attività qualificanti sul territorio.
Possiamo
affermare e lo abbiamo già
ripetutamente fatto in piena autonomia, che
gli interventi che si sono susseguiti e che abbiamo concorso a realizzare
non sempre, poi, nella sostanza si
sono dimostrati pienamente corrispondenti alle nostre rivendicazioni e
aspettative.
Spesso,
anzi, abbiamo dovuto registrare un evidente scarto tra ciò che era nei nostri
programmi e ciò che gradualmente si realizzava.
Ma
quello sul quale abbiamo, invece, sempre e fino in fondo convenuto è stata la
necessità che gli interventi “istituzionali” e “sindacali” che via via
si realizzavano fossero ricomposti in un più generale quadro di riforma ed
avanzamenti degli assetti.
-
Il regolamento del servizio traduzione e il relativo modello
organizzativo
-
Il regolamento di servizio per il personale
-
L’istituzione dei ruoli direttivi, ordinario e speciale.
Solo
per citare alcuni esempi, stanno lì a dimostrare, a prescindere dalle
condivisioni di alcune scelte in essi contenute, che negli ultimi anni c’è
comunque stata una evidente caratterizzazione dell’attività istituzionale
rispetto alle esigenze della Polizia penitenziaria.
E
la riforma del Dlgs 195/95 con l’introduzione del II^ livello di
contrattazione
-
I Contratti collettivi di lavoro che hanno avvicinato sempre di più le
retribuzioni e il sistema delle relazioni sindacali ai luoghi dove
l’operatività concreta si realizza.
-la
riduzione dell’orario dell’orario settimanale da 38 a 36 ore in un
quadriennio normativo.
-la
sottoscrizione di un accordo integrativo che ha, di fatto, rimesso in moto
un’attività decentrata di contrattazione che fino al giorno prima era
relegata in un mero ruolo notarile e di registrazione di decisioni assunte
altrove.
Sono
anch’essi alcuni esempi indicativi di un più generale piano di interventi che
abbiamo voluto e sostenuto, a volte in perfetta solitudine, e che sempre ci ha
visto protagonisti.
E’
stato, però, altrettanto evidente lo scarto che abbiamo dovuto registrare fra
la qualità e d il valore di questo progetto generale di intervento, di riforma
ed avanzamento degli impianti e i concreti effetti sulla quotidiana attività
istituzionale e sindacale.
Troppo
spesso ad enunciazioni di principio contenute nei contratti e negli accordi
sono corrisposte reazioni uguali e contrarie che, soprattutto in questi
ultimi tempi, stanno provocando ciò che io reputo il vero punto di sofferenza
sul quale dobbiamo oggi misurarci: dobbiamo registrare che esiste un concreto
tentativo di comprimere i diritti individuali e collettivi dei lavoratori della
Polizia penitenziaria.
Ed
è questa la colpa più grave che io attribuisco a questa Amministrazione;
quella cioè di non aver speso sufficiente impegno e risorse per accompagnare
questo progetto generale di interventi con attività di sostegno che fossero in
grado di garantire il risultato sperato.
Ciò
è sempre necessario, ma lo era ancor di più in un’Amministrazione come
questa dove lo scollamento fra le articolazioni periferiche e i livelli centrali
di responsabilità è stato ed è tuttora fortissimo.
Il
sindacato ed i lavoratori stanno subendo di fatto gli effetti di tale
scollamento; uno scollamento che, degenerando a volte in un vero e proprio
scontro interno, sta provocando un arretramento del diritto e della sua
esigibilità.
A
mio giudizio, quindi, la prossima dovrà essere la stagione nella quale dobbiamo
rilanciare il diritto, tutelarlo,
ma soprattutto riconquistare la certezza della sua esigibilità.
Due
sono, per me, le grandi aree tematiche dentro le quali costruire un nostro
progetto, una nuova piattaforma:
Quella
contrattuale e quella degli interventi normativi.
Iniziando
dalla prima.
Abbiamo
di fronte una importantissima stagione contrattuale: un rinnovo normativo e due
economici.
Il
rinnovo della parte normativa deve porre inevitabilmente in discussione
l’attuale sistema di negoziazione , ormai troppo confuso e con limiti sempre
più evidenti.
Non
è più sostenibile l’ibrida funzione di rappresentanza affidata ai COCER, né
sindacato né ormai amministrazione, come da superare velocemente
è la stessa composizione del Comparto.
Dividere
nettamente gli impianti contrattuali tra Comparto Sicurezza e Comparto Difesa è
ormai irrinunciabile. I trattamenti economici e normativi devono tener conto
della profonda diversità di impiego del personale dei due settori per i quali
non è più proponibile una analoga struttura salariale.
L’occasione
è insita sia nel rinnovo della parte normativa che nella legge delega approvata
ultimamente in Parlamento per una nuova riparametrazione dei salari per il
personale delle forze di Polizia.
Dalle
scelte che dovranno compiersi a riguardo si determineranno le qualità ed i
valori professionali degli operatori della sicurezza.
L’accordo
quadriennale dovrà, quindi, contenere una radicale revisione della normativa
sulla rappresentatività sindacale, concausa di una ingovernabilità del sistema
ed anomalia rispetto ad altri settori del pubblico impiego.
La
nostra piattaforma deve contenere e conterrà una rivendicazione chiara per un
nuovo modo di rappresentare gli interessi dei lavoratori.
Un
nuovo sistema che confermi il ruolo del sindacato ma che lo metta in equilibrio
ed in sintonia con una rappresentanza più generale di interessi di tutti i
lavoratori, iscritti e non iscritti al sindacato.
Noi
chiediamo elezioni libere e democratiche delle rappresentanze sindacali unitarie
nella Polizia penitenziaria.
Il
poliziotto penitenziario deve poter liberamente esercitare questo importante
inalienabile ed insostituibile strumento democratico.
E
su questo dobbiamo essere in grado di convogliare consensi fra i lavoratori;
anzi, dobbiamo fare in modo che a rivendicare con forza l’esercizio di questo
diritto siano proprio i lavoratori della polizia penitenziaria.
38,000
iscritti al sindacato e più di 22 organizzazioni presenti ( 6 delle quali nate
in questi ultimi quattro mesi) la dicono lunga sulle storture e le degenerazioni
di questo sistema.
Libere
elezioni, quindi, anche per i poliziotti penitenziari; questa dovrà essere una
delle nostre battaglie.
Ma
vero punto nodale di questa prima fase di contrattazione collettiva, il primo
vero banco di prova saranno gli stanziamenti economici a disposizione di questa
tornata contrattuale che già dall’imminente DPEF caratterizzeranno
l’attenzione del nuovo Governo sul settore della sicurezza, Ciò in condizioni
“normali” e non in una interminabile campagna elettorale che ha evidenziato,
da parte del centro destra, l’uso strumentale delle problematiche degli
operatori della sicurezza.
Non
potranno esserci stanziamenti minori per il Comparto sicurezza di quelli messi
in campo dal Governo uscente.
Su
questo aspetto si parte dai 2.300 mld dell’ultimo contratto.
Sulle
scelte di fondo rispetto alla partita economica credo saremo costretti a
difendere con i denti le scelte che hanno caratterizzato gli ultimi contratti:
quelle di privilegiare e potenziare l’operatività
ed il disagio. Reputo però anche
giusto rilanciare l’esigenza di rivalutare quanti, nell’ambito delle attività
istituzionali, compiono lavori ad alto contenuto professionale.
Tutto
ciò essendo consapevoli che proprio rispetto alla partita dei rinnovi economici
il Sindacato dovrà verificare con attenzione la strategia di attacco
all’accordo sulla politica dei redditi più volte esplicitata in campagna
elettorale da Berlusconi.
Comunque
sia, però, la CGIL non potrà accettare e sono convinto non accetterà
meccanismi di recupero salariali difformi e minori da quelli individuati
nell’accordo del 93.
Ma
appare evidente che, oltre a conquistare migliori condizioni stipendiali, di
vita e di lavoro, noi dobbiamo rilanciare sul tema della formazione
professionale, sulla questione della mobilità degli operatori e degli alloggi (
argomento questo delicatissimo per un Corpo fortemente caratterizzato per
estrazione geografica), ma anche sull’esigenza di mezzi e strumenti più
efficienti indispensabili affinché anche la Polizia penitenziaria sia capace di
rispondere con funzionalità ed
equilibrio alla domanda di
sicurezza e professionalità che promana sempre più dai cittadini.
Rispetto,
invece, al 2° livello di contrattazione, quello di Amministrazione,
permettetemi una veloce riflessione.
Io
riconosco principalmente un merito e un limite all’accordo sottoscritto a
luglio del 2000.
Il
merito è quello di aver rimesso in moto l’attività sindacale sul territorio
attraverso l’apertura di una nuova fase di contrattazione decentrata.
Il
limite è quello di non aver previsto un quadro certo di regole che fosse in
grado di risolvere i conflitti che da questa rinnovata attività conseguono.; ed
è su questo secondo aspetto che bisognerà principalmente intervenire, ben
sapendo che per costringere la controparte a ragionare su tale esigenza sarà
necessario proprio acuire quel conflitto.
Dal
conflitto, quindi, si deve ripartire per individuare nuove regole di
comportamento dei soggetti.
Per
ultimo, ma non da ultimo, credo debba essere riproposta con forza la questione
legata al nuovo sistema pensionistico e della necessità che
previdenza integrativa e TFR siano temi la cui soluzione è prioritaria;
già troppi anni sono passati invano senza che quegli importantissimi tasselli
della riforma trovassero soluzione.
Su
tale questione non c’è più tempo da perdere.
C’è
un aspetto che, invece, risulta trasversale alle due aree di intervento
all’inizio da me individuate: l’una contrattuale l’altra normativa.
L’ordinamento
professionale .
So
che sarà molto difficile già solo porre questa esigenza, ma dobbiamo
rilanciare la necessità di un ulteriore passo in avanti del nostro sistema
negoziale da pubblicistico a privatistico.
Ciò
significa ottenere la piena contrattualizzazione degli ordinamenti
professionali; e la definizione, per contratto dei regolamenti interni al Corpo.
Ma,
a prescindere dalla riuscita o meno di tale operazione, che troverebbe
fortemente reattivo un governo affascinato dalle gerarchie e dai modelli para
militari, la Cgil deve comunque mostrare forza e capacità nel mettere in campo
iniziative tese a modificare, seppur normativamente, gli ordinamenti.
A
partire dall’individuazione di nuovi assetti organizzativi, di nuove e più
funzionali figure professionali e confermando l’esigenza di una forte
semplificazione delle qualifiche e delle procedure di avanzamento all’interno
dei ruoli.
Un
nuovo ordinamento che superi la filosofia conservatrice dell’amministrazione e
che si caratterizzi per innovazione e coraggio.
Una
riduzione delle qualifiche e la possibilità di ridefinire compiti e funzioni
dei singoli operatori è di fatto l’unica strada per affrontare anche il
problema della destinazione dei poliziotti ad alcune tipologie di servizio che
risultano evidentemente connesse al
mandato istituzionale.
Ma,
a mio giudizio, vi sono due questioni che riguardano gli ordinamenti che devono
avere priorità assoluta rispetto alle altre poiché per loro natura e
caratteristica hanno evidenziato tutti i loro limiti.
Mi
riferisco al regolamento disciplinare ed al sistema di classificazione e
giudizio del personale ( i c.d. giudizi di fine anno)
E’
oggettivamente difficile pensare ad una revisione parziale di questi due
regolamenti per i quali reputo invece necessario una totale rielaborazione della
materia.
Questi
regolamenti sono l’indicatore di un sistema accusatorio e vessatorio sul quale
la classe dirigente degli istituti è fortemente arroccata.
Eccessiva
discrezionalità di giudizio ed operato che il sistema concede trasformano la
norma in eccezionale strumento di governo del personale.
Sul
sistema disciplinare noi registriamo deprimenti punti di sofferenza che vanno
affrontati intervenendo su alcuni concetti generali:
·
Va superata l’indeterminatezza di alcune fattispecie di infrazioni che
lasciano libero arbitrio interpretativo; la mancanza di correttezza nei
comportamenti, ad esempio, è una di quelle fattispecie che vanno eliminate
·
Vanno indicati chiaramente i termini perentori dentro i quali
necessariamente si devono sviluppare le diverse fasi dei procedimenti
·
Va affermato un nuovo ruolo del difensore, spesso rappresentante
sindacale, come parte uguale nel procedimento; a lui deve essere garantita la
possibilità d’intervento nell’inchiesta disciplinare che oggi risulta
essere appannaggio del solo funzionario istruttore
·
Prevedere un attento rispetto della legge 241 anche su questo tema
·
Per assicurare la massima imparzialità dell’Amministrazione bisogna
che venga affermato il concetto della terzietà nel giudizio. I presidenti delle
commissioni devono essere soggetti realmente terzi all’Amministrazione.
In
buona sostanza in un’ipotesi di revisione del regolamento riuscire ad
affermare alcuni fondamentali principi giuridici quali quelli della gradualità
della sanzione, della certezza delle procedure, dell’imparzialità, della
facoltatività e non obbligatorietà dell’azione disciplinare.
Non
molto diverso è il ragionamento che dobbiamo affrontare sui giudizi di fine
anno.
Tale
norma si è apertamente caratterizzata, proprio per la sua natura intrinseca,
come eccezionale strumento di governo del personale, di soffocamento di singole
aspirazioni democratiche e di progresso e di vendetta contro il sindacato.
E’
stato il punto di sofferenza maggiore ed è su questo che dobbiamo convogliare
la nostra attenzione.
Si
decidono, attribuendo giudizi, percorsi di carriera, miglioramenti
professionali, ma si modificano anche orientamenti culturali.
Attorno
al giudizio di fine anno sono calibrati i rapporti interni al personale, quelli
funzionali e gerarchici, ma anche sindacali.
Ad
una trattativa difficile, ad una manifesta incapacità di relazionarsi con le
rappresentanze dei lavoratori i direttori, spesso, reagiscono con la ritorsione
nei giudizi.
Ciò
non è più possibile, il sistema di classificazione e giudizio va eliminato.
E’ arcaico, ottocentesco ed antidemocratico.
Soffoca
e non valorizza le capacità professionali degli operatori, soffoca e non
valorizza la qualità delle relazioni sindacali.
La
nostra piattaforma questo dovrà evidenziare: i lavoratori devono sapere che la
Cgil, e non altri, vuole togliere dalle mani del direttore questo strumento di
governo.
Le
capacità professionali vanno misurate con altri indicatori: l’assenza di
procedimenti disciplinari, gli incarichi e le mansioni attribuite, i percorsi
professionali vissuti, la formazione professionale.
Uno
specifico ragionamento merita invece la questione della 626
Prendiamo
atto, come gruppo dirigente di aver forse sottovalutato l’aspetto della
prevenzione e della sicurezza del lavoro negli istituti penitenziari.
E'un’autocritica
che faccio soprattutto a me stesso.
Poca
attenzione politica, poca attenzione organizzativa, difficoltà evidenti nell’apporocciarsi
incisivamente ad un problema che proprio per la caratteristica del nostro lavoro
è grosso come un macigno.
Ma
è da questa autocritica che dobbiamo trovare la forza di reagire e rilanciare.
Dobbiamo
inserire nel calendario dei nostri lavori momenti specifici di approfondimento
ed intervento sull’inalienabile diritto ad un lavoro sicuro.
La
Cgil ha lanciato proprio quest’anno la sua campagna di diritti sulla
sicurezza.
Dobbiamo
rispondere a questa campagna rilanciando una nostra presenza più determinata a
partire da una verifica delle situazioni dove è in scadenza il mandato
elettorale degli RLS e chiedendo uno scatto di attenzione alle nostre strutture
territoriali affinché si facciano carico dei limiti formativi che hanno
caratterizzato la nostra attività sul tema.
Non
possiamo permetterci un disimpegno su questa materia nel momento in cui attorno
alle politiche della sicurezza del lavoro il dibattito politico sarà a mio
giudizio, intenso.
Una
riflessione ulteriore sul tema delle pari opportunità.
Il
percorso organizzativo e politico che ci ha permesso di costruire con successo
l’iniziativa del 9 Aprile a Rebibbia sulla Dispari opportunità nel Corpo
della Polizia penitenziaria va potenziato.
Va
innalzata l’attenzione su come l’istituzione carceraria affronta le
questioni drammaticamente emerse dai questionari che abbiamo proposto alle
lavoratrici della polizia e va resa
più incisiva la nostra capacità di intervenire sulle discriminazioni insite
negli ordinamenti professionali, a partire dalla separazione delle dotazioni
organiche soprattutto nei ruoli
intermedi ed apicali del personale.
Vanno
costantemente monitorate quelle situazioni locali nelle quali le poliziotte
vengono marginalizzate in mansioni meramente esecutive e prive di accettabili
ambiti di responsabilità
Ma
soprattutto dobbiamo ricalibrare al nostro interno, alcune scelte di tipo
organizzativo.
Anche
oggi la presenza, o meglio l’assenza delle donne è emblematica di una nostra
scarsa attenzione.
Io
leggo un rischio, quello cioè che si determini uno scarto fra le nostre
posizioni sul tema delle discriminazioni di genere e la nostra capacità od
incapacità a coinvolgere forze e risorse all’interno del nostro quadro di
riferimento sindacale di settore.
Nei
prossimi anni dobbiamo dare concretezza a tali scelte.
Le
donne devono essere punto di riferimento prima di tutto per noi e fra noi.
Dobbiamo
essere capaci a tutti i costi di esprimere un gruppo dirigente nazionale formato
da compagne che vivono sulla loro pelle la quotidiana sofferenza dell’essere
donna nel corpo della polizia penitenziaria.
Un
ultimo aspetto mi preme evidenziare in questa mia lunga ed inedita relazione e
colgo l’occasione della presenza di Laimer Armuzzi.
Partecipazione,
informazione, formazione, servizi e tutele sono i cardini fondamentali attorno
ai quali si costruisce una organizzazione capace di caratterizzarsi nella sfida
che ci attende.
Ritengo
giusto oggi affrontare anche quegli aspetti organizzativi che ruotano intorno a
tali concetti un po’ astratti.
Primo
fra tutti il rapporto che lega le strutture di Funzione Pubblica ai posti di
lavoro, che nel nostro caso è bene ricordarlo sono istituti penitenziari.
Io
da anni registro una difficoltà a rendere organico questo tipo di rapporto, da
anni mi scontro con realtà territoriali, neanche tanto marginali, che
evidenziano una sostanziale incapacità a comprendere l’importanza politica
del rappresentare questo settore.
A
fronte di una esigenza di rappresentare i poliziotti, forte irrinunciabile e che
deve essere anche di tipo politico culturale, le scelte operate in questo senso
risultano quantomeno contraddittorie.
Io
non credo che qui, oggi, possa essere messo in discussione l’approccio
politico sul tema del carcere. Non alla presenza di Laimer che, invece, in
questo senso ha sempre convenuto.
Qui
oggi vorrei discutere i meccanismi con i quali questa organizzazione, nelle sua
articolazioni, dà gambe a queste scelte politiche.
Non
c’è, o è almeno residuale, ad esempio un organico incardinamento dei
dirigenti sindacali della polizia penitenziaria negli organismi direttivi delle
strutture e ciò da un lato induce di fatto a considerare marginale la
partecipazione dei poliziotti alle dinamiche più complessive che si sviluppano
all’interno dell’organizzazione e dall’altro accresce fra i poliziotti
quella già endemica predisposizione alla separatezza che provoca, in alcune
degenerazioni, una sorta di parallelismo organizzativo.
L’occasione
per reincardinare correttamente il rapporto fra strutture e posti di lavoro in
un più generale progetto politico ci sono, a partire dal prossimo congresso, ma
và rafforzata la capacità d’intervento su quelle situazioni
specifiche nelle quali è evidente l’assenza di rapporti politici
organizzativi.
Il
secondo aspetto che discende direttamente dal primo è quello relativo alle
risorse, umane ed economiche, da destinare a questo settore.
Io
devo registrare con estrema soddisfazione come sia cambiata l’attenzione della
segreteria generale e del Palazzo di via serra sui temi che riguardano la nostra
attività .
Oggi,
a livello nazionale, la situazione è profondamente migliorata grazie ad una
sensibilità politica che ha già caratterizzato l’attività di Armuzzi sulle
questioni relative alla Sicurezza.
Ma
è evidente che ciò deve riguardare tutto il territorio nazionale non solo il
Centro di Roma.
Quello
che a mio giudizio manca principalmente oggi è la condivisione generale di un
concetto di fondo: Il corpo della polizia penitenziaria non può essere
considerato con gli stessi meccanismi e parametri attraverso i quali,
all’interno della Cgil, si individuano le priorità.
Bisogna
condividere e far maturare negli altri l’idea che questo settore è per sua
natura un settore debole, un settore nel quale gli investimenti organizzativi
devono avere sempre a riferimento la misura politica della problematicità
dell’Amministrazione penitenziaria e del suo servizio.
E’
già di per se difficile rappresentare per la Cgil un settore ostile per
cultura, per organizzazione e per storia, diventa impossibile se nel tentare di
rappresentarlo non si mettono in campo strumenti eccezionali.
Una
ultima veloce riflessione vorrei farla sul tesseramento. Ho maturato, nel corso
di questi ultimi anni, la consapevolezza di operare in un settore in cui le
dinamiche attraverso le quali si sviluppano il consenso ed il dissenso sono e
resteranno estremamente differenti da quelle comunemente riscontrabili in altri
settori.
Qui
si fanno tessere e quindi si acquisisce consenso utilizzando un sistema di
relazioni interpersonali fatto da entrature, interessi specifici e clientele.
Il
patrimonio sindacale confederale nella Polizia penitenziaria ha sempre mostrato
i suoi limiti.
E
ciò è oltremodo vero se guardiamo a come CISL e UIL si sono caratterizzati inn
questi anni: ne più ne meno che sindacalismo autonomo.
Io
credo nell’esigenza di differenziare ulteriormente le nostre caratteristiche.
In
una stagione in cui le tensioni ed i rapporti sindacali subiranno repentine
mutazioni, rivendicare con orgoglio quel patrimonio fatto di iniziative di lotta
politica e sociale deve rappresentare il nostro elemento di rottura rispetto ad
altri soggetti di rappresentanza.
Oggi
più che mai l’adesione alla CGIL deve poter coincidere con la condivisione di
un progetto, di una idea di progresso e cambiamento.
Caratterizzarci
per quel che siamo, un sindacato solidale e democratico, un sindacato che
coniuga interessi soggettivi con quelli più generali, ma soprattutto un
sindacato che combatte con forza quella cultura militare, chiusa e corporativa,
sulla base della quale gli altri, invece, fondano la loro esistenza.
Un
ultimissima considerazione sulle iniziative di lotta che dobbiamo essere capaci
di realizzare.
Uno
dei limiti evidenti del sindacalismo di polizia è l’assenza di incisive forme
di lotta come lo sciopero.
E’
evidente, quindi, che per affrontare in maniera idonea la prossima stagione
abbiamo bisogno di affinare gli strumenti che la legge ci affida e garantisce.
Io
reputo due le alternative sulle quali costruire iniziative:
La
prima riguarda la mobilitazione.
Non
dobbiamo avere paura di manifestare il nostro dissenso in pubblico, anzi, ho già
detto in precedenza che abbiamo l’esigenza di utillizzare questo strumento di
lotta quale necessario punto di rilancio della nostra attività e per
costringere la controparte a ricalibrare, attorno al conflitto il sistema delle
relazioni sindacali.
L’altra
è il possibile ricorso alla giurisdizione ordinaria e anche penale su atti
assolutamente illegittimi assunti sui temi della garanzia dei diritti di
cittadinanza che verranno, e ne sono sicuro, ripetutamente messi in discussione.
E’
evidente che questo strumento deve essere adottato solo quando diventi
indispensabile.
Chiedo
su questi due possibili strumenti di lotta una condivisione della segreteria
generale e del coordinamento tutto poiché è a partire da tale condivisione a
che dovremo giocoforza attrezzarci anche organizzativamente sul
territorio.
Il
progetto chiaro che pongo oggi in discussione ha come obiettivo quello di
metterci nella condizione di arrivare con la giusta tensione e preparazione alla
stagione che si aprirà formalmente già dal prossimo autunno.
Grazie