CONVEGNO
TRATTAMENTO e SICUREZZA CARCERE e TERRITORIO
La Relazione
di Giovanni Vigilante
Con questo convegno, la nostra organizzazione sindacale intende innanzitutto confermare un impegno di riflessione sui temi del carcere, delle misure privative e limitative delle libertà personali, dell'organizzazione dell'Amministrazione penitenziaria e, ovviamente, sulle questioni riguardanti gli operatori penitenziari. Peraltro si tratta di un impegno costantemente mantenuto in questi ultimi anni. Basta ricordare le iniziative di discussione effettuate sull'istituzione del comparto sicurezza, il convegno sulla riforma dell'amministrazione penitenziaria e sul ruolo degli operatori penitenziari e, ancora più recentemente, un convegno sulla formazione professionale come attività fondamentale per un rinnovamento profondo delle culture professionali presenti nell'amministrazione e una riflessione seminariale sui servizi sociali.
Nella cartellina che è in distribuzione troverete alcuni dei documenti frutto delle iniziative che ho citato.
Ho voluto fare questa premessa per sottolineare, anche con una punta di orgoglio, la nostra costante attenzione su questi temi.
Un'attenzione sicuramente non sufficiente, forse non sempre all'altezza dei problemi, ma che non ha incontrato in questi anni analoghi livelli di attenzione costante da parte di altre significative organizzazioni culturali e/o politiche e delle stesse istituzioni nazionali e locali.
Questa constatazione segnala a mio avviso il più grande dei problemi che abbiamo: se il livello generale di attenzione non aumenta sarà difficile far decollare sia nell'attività amministrativa che nella produzione legislativa una nuova politica della pena, dell'esecuzione penale e delle misure privative e limitative della libertà personali.
Infatti oggi troppo spesso ci si muove, anche in termini di proposte, dentro una logica emergenziale che cerca di stare in equilibrio tra una esigenza di diminuzione della popolazione detenuta da un lato e l'allarme sociale che qualunque iniziativa che va in questo senso puntualmente produce.
Noi vorremmo contribuire con questo convegno a far superare questa logica emergenziale, affrontando i temi di fondo e contribuendo ad una politica di riforme in grado di tradurre, più di quanto oggi avvenga, il dettato costituzionale sulla finalità della pena nella attività legislativa ordinaria e nella operatività dell'amministrazione penitenziaria.
Voglio approfittare subito di questa occasione per ribadire che le "idealità" con cui la nostra organizzazione guarda a questi problemi sono immutate.
Noi non vogliamo un carcere senza speranza e una pena solo afflittiva e manteniamo un'attenzione solidaristica anche nei confronti dei cittadini detenuti.
La stessa domanda di sicurezza sociale non può essere un alibi per indistinte risposte repressive che come l'esperienza, non solo nel nostro paese, insegna non danno risultati nemmeno rispetto alle esigenze che le hanno promosse.
Ho voluto fare queste sottolineature, forse inutili considerata la storia e la tradizione culturale della CGIL, perchè nei commenti che hanno accompagnato le dimissioni del Dott. Margara da direttore generale dell'amministrazione penitenziaria vi sono stati accenti che mi hanno colpito non favorevolmente.
Ho avvertito un clima di intolleranza in alcuni interventi, anche nei confronti della nostra organizzazione. Infatti bastava avere un approccio critico alla legislazione premiale esistente, in particolare alla Gozzini, o semplicemente essere insoddisfatti della azione amministrativa dell'allora direttore generale per essere etichettati come subalterni ad una cultura di "destra" e accusati di avere una visione esclusivamente custodialistica e poliziesca del carcere.
Personalmente devo dire che ho trovato un po' umiliante per il livello della discussione in cui ero coinvolto, umiliante per me e per i miei interlocutori, dover fare sommessamente osservare che in nessun modo si poteva interpretare l'incarico al Dottor Caselli come volontà di attuare una politica penitenziaria attenta esclusivamente alla sicurezza.
Confermiamo quindi le nostre idealità e confermiamo la nostra convinta adesione ai principi costituzionali sulle finalità della pena. Ma confermiamo anche l'esigenza di affrontare un dibattito aperto, critico quanto serve, sulla situazione attuale e sulle cause anche strutturali che ce la fanno giudicare non soddisfacenti.
Un dibattito aperto per una riflessione vera ma senza scomuniche ideologiche. Questo è il modo con cui vorremmo che si discutesse intorno a questi temi.
Per entrare in merito, scusandomi in anticipo per l'eccessiva schematizzazione e semplificazione, credo che tutti possiamo convenire sul fatto che le misure alternative alla detenzione hanno come obiettivo principale il reinserimento positivo del cittadino condannato nella vita sociale.
A mio avviso quindi per giudicare della loro efficacia bisognerebbe essere in grado di valutare i risultati concretamente ottenuti. Occorrerebbe quindi, sapere quanti dei cittadini sottoposti a misure alternative hanno affettivamente approfittato positivamente delle opportunità a loro concesse o per lo meno quanti non sono ricaduti nella reiterazione di reati penalmente rilevanti. Questa è la domanda centrale alla quale purtroppo non è possibile dare una risposta che sia frutto di ricerche approfondite condotte nel tempo.
Neanche la stessa amministrazione penitenziaria è in grado di soddisfare questa curiosità perché conosce solo quanti sono quelli che si sottraggono agli obblighi connessi alle misure di cui beneficiano.
Ovviamente si può sostenere, ed io sono tra quelli che lo sostengono, che già offrire le opportunità apre delle prospettive di speranza e può creare un atteggiamento costruttivo in chi gode dei suddetti benefici.
Non solo, ma queste misure concorrono indubbiamente alla riduzione del danno di chi è sottoposto ad una pena altrimenti esclusivamente detentiva e a ridurre la conflittualità nel carcere. Personalmente sono quindi convinto che si tratta di misure utili, da incentivare ed articolare di più e meglio, ma di cui rispetto all'obiettivo principale di effettiva riuscita del reinserimento sociale, non conosciamo gli esiti.
D'altra parte occorre anche considerare che complessivamente il numero delle misure alternative concesse riguarda una minoranza significativa di cittadini sottoposti a misure detentive e nelle stesse tabelle statistiche predisposte dall'amministrazione penitenziaria si legge che, se rapportato al flusso della popolazione detenuta verificatosi nel 1998, soltanto il 18%-19% ha beneficiato di misure alternative (permessi premio, semilibertà, ammissione al lavoro all'esterno, affidamento al servizio sociale).
In generale peraltro si tratta di misure che non si sono quasi mai avvalse di una effettiva politica di reinserimento promossa anche dagli Enti locali. Anche questo rende di fatto difficoltosa la valutazione della reale efficacia.
Inoltre, credo di non poter essere smentito se affermo che raramente la fascia debole della popolazione detenuta (stranieri - tossicodipendenti) abbiamo potuto godere di misure alternative.
In sintesi penso di poter ragionevolmente sostenere che se da un lato la legge Gozzini ha avuto un impatto culturale importantissimo ed ha rappresentato un punto di riferimento essenziale per gli operatori del diritto, per gli operatori penitenziari e per i magistrati che non si rassegnavano alla pena eseguita nella separazione e nell'esclusione, se ha rappresentato per decine di migliaia di cittadini condannati la speranza e spesso anche di più della speranza, bisogna però riconoscere che la sola Gozzini non è stata in grado, non è in grado, di garantire l'effettiva applicazione del dettato costituzionale. Perchè riguarda una parte dei cittadini detenuti, perchè non si applica sostanzialmente alle fasce più deboli.
Si tratta a mio avviso di avere il coraggio di aprire finalmente la strada a risposte penali extra-carcerarie. Si discute da anni di come superare il carcere. Personalmente credo che l'unica via possibile e utile consiste nella individuazione di misure penali non detentive ma che abbiano in sè un valore anche afflittivo ed una visibilità sociale. Una sorta di libertà assistita con prescrizioni di varia natura per soggetti responsabili di reati non particolarmente gravi, affidati ad operatori professionalizzati per il sostegno, distinti da chi deve effettuare il controllo. Pene esterne al carcere possono determinare una più marcata assunzione di responsabilità della società e degli enti locali verso politiche attive di integrazione sociale che fino ad oggi si sono scaricate sostanzialmente sul penitenziario. Combinare insieme un controllo effettivo, un sostegno al soggetto e un'attività di pubblica utilità intesa anche come "risarcitoria" potrebbe rispondere sia al dettato costituzionale della pena sia alla domanda di sicurezza. In questo quadro l'evoluzione del sistema penale minorile e della sua esecuzione potrebbero costituire un effettivo terreno di utile sperimentazione. Per riassumere, penso che la politica penale e dell'esecuzione penale debba svilupparsi lungo due grandi direttrici:
a) il rafforzamento delle misure di flessibilità della pena detentiva incentivando gli istituti già esistenti (affidamento al servizio sociale, semilibertà, ammissioni al lavoro esterno). Cioè di una pena che ancora di più di quanto avvenga oggi segna il percorso esistenziale di ciascun condannato;
b) l'introduzione di pene alternative al carcere.
Ma anche sviluppando al massimo queste politiche, rimane il problema dei soggetti condannati a pene detentive che non usufruiscono di misure alternative.
Occorre avere il coraggio in questi casi di preoccuparsi innanzitutto di migliorare le condizioni di vita nel carcere, in particolare per quanto riguarda per esempio gli extracomunitari. Di per sé ciò non favorisce un reinserimento sociale, ma almeno contribuisce alla riduzione del "danno" che la vita istituzionalizzata da recluso produce.
L'attivazione di circuiti penitenziari differenziati diventa poi una risposta non solo in termini di sicurezza per detenuti cosiddetti pericolosi attivamente appartenenti ad organizzazioni criminali e terroristiche, ma anche la condizione per una diversa e migliore qualità della vita carceraria per tutti gli altri reclusi.
In questo contesto vanno ancora collocati i problemi della "affettività", del lavoro e della formazione professionale dei detenuti.
In conclusione di questa prima parte del mio intervento voglio rilanciare una proposta che abbiamo avanzato già in altre precedenti occasioni.
Vi è un problema delicato, oggi non completamente risolto, che attiene al rispetto di alcuni diritti fondamentali dei detenuti e al rispetto di livelli accettabili di vivibilità all'interno del carcere.
Ovviamente si tratta di sviluppare politiche attive e di riforme in relazione alle diverse esigenze.
In questo senso noi giudichiamo molto positivamente il passaggio della sanità penitenziaria al servizio sanitario nazionale e alle ASL con le previsioni di garanzie che la legge stabilisce.
Ci auguriamo che il relativo decreto legislativo attuativo si faccia presto e bene, coinvolgendo le organizzazioni sindacali specialmente per quegli aspetti che possono interessare il personale.
Ma al dunque rimane la difficoltà insormontabile per il cittadino detenuto di usare gli strumenti che gli altri cittadini hanno per far valere i propri diritti o per protestare rispetto a condizioni di vita inaccettabili in un paese civile.
Lo credo che si potrebbe pensare alla istituzione di un'autorità indipendente ed autorevole che abbia poteri di controllo e di ispezione sulla situazione degli istituti penitenziari rispetto alle condizioni di vita dei detenuti. Un'autorità alla quale i detenuti si possono anche rivolgere e che sia formata da parlamentari indicati dai presidenti di Camera e Senato, che possa ampliare i compiti che già oggi svolge il comitato sulle carceri della commissione giustizia della Camera.
L'Amministrazione penitenziaria
In coerenza con le prospettive che ho sommariamente indicato, occorre impostare e realizzare una profonda riforma dell'amministrazione penitenziaria, utilizzando al meglio le opportunità offerte dall'esercizio delle deleghe della legge Bassanini sulla riforma dei Ministeri e della delega per il riordino del personale e l'istituzione del ruolo direttivo della Polizia penitenziaria contenuta in un disegno di legge in seconda lettura al Senato, voluta con forza dall'attuale ministro di Grazia e Giustizia On.le Diliberto.
Peraltro ambedue le iniziative legislative che ho citato sono state sostenute fortemente dalla nostra organizzazione sindacale, nel quadro del più complessivo processo di riforma delle pubbliche amministrazioni. Mi preme sottolineare l'idea di fondo che abbiamo seguito, cioè quella di costruire un sistema di pubbliche amministrazioni in grado di organizzarsi con diverse modalità, comprese quelle di costituire vere e proprie "agenzie" di servizi.
Insomma noi abbiamo voluto una riforma che consentisse ad ogni amministrazione di organizzarsi tenendo conto delle proprie specificità e dell'esigenza di migliorare la qualità e la produttività delle proprie attività.
Crediamo che questa impostazione possa aiutare a risolvere una necessità sempre avvertita nell'amministrazione penitenziaria, quella cioè di trovare formule organizzative specifiche in relazione al proprio compito istituzionale, non comparabile se non per i problemi di gestione amministrativa, con altre pubbliche amministrazioni.
Nello stesso tempo l'amministrazione penitenziaria può inserirsi in un processo riformatore fatto di regole comuni, che impedisca, anzi inverta una sorta di deriva isolazionistica e di autoreferenzialità che purtroppo la caratterizza. Specificità quindi, ma nello stesso tempo, in rete con le altre pubbliche amministrazioni.
D'altra parte ho sempre trovato contraddittoria la spinta alla diversità e all'isolamento proveniente dall'interno del DAP, associata ad una costante critica alla politica, alla società, al governo ed agli enti locali, per il loro sostanziale disinteresse per il carcere ed i suoi problemi, proveniente sempre dagli stessi ambienti.
A quale riforma bisogna quindi guardare.
Personalmente sono dell'opinione che sia la riorganizzazione dell'amministrazione centrale che quella dei provveditorati regionali e finanche quella degli istituti, per garantire produttività ed efficienza debbano orientarsi verso l'accorpamento secondo logiche di funzionalità e di complementarità di competenze oggi divise, definendo meglio gli ambiti di responsabilità.
Ma occorre anche attrezzare l'amministrazione, le sue diverse articolazioni, per gestire meglio i rapporti con l'esterno sia quando questo entra negli istituti (penso per esempio al mondo del volontariato), sia quando deve interagire con le attività del trattamento per il reinserimento sociale. Una amministrazione più efficiente al suo interno e più dialogante con l'esterno.
In concreto ovviamente ci aspettiamo che, prima di emanare il regolamento per la individuazione degli uffici attraverso i quali si deve articolare l'attività della amministrazione centrale e per la assegnazione delle relative competenze, ci sia un preventivo confronto con le organizzazioni sindacali.
Noi siamo molto attenti a questo passaggio, perchè siamo convinti che un'amministrazione come quella penitenziaria che deve mantenere una propria unitarietà d'azione su tutto il territorio nazionale, soltanto se dotata di un centro amministrativo adeguato potrà assolvere al meglio alle sue delicate funzioni.
Occorrerà operare delle scelte di fondo importanti, ma ci sarà l'occasione per tornare a rifletterci con maggiore puntualità. Per ora mi limito a dire che bisognerà procedere alla unificazione funzionale delle attività che riguardano tutto il personale, di quelle che riguardano il trattamento ed i detenuti, di quelle che si occupano delle attività del bilancio e della programmazione, di quelle che coadiuvano l'azione della direzione generale.
Inoltre si deve tendere allo snellimento delle procedure interne e alla qualificazione dell'attività complessiva di coordinamento, di indirizzo e di verifica, liberando l'amministrazione centrale di tutte le incombenze di gestione che possono essere assunte, con risultati migliori, dalle strutture periferiche. Un'Amministrazione più snella e più attenta al raggiungimento complessivo degli obiettivi e meno prigioniera di defatiganti prassi burocratiche. Analogamente per i provveditori regionali, con la conseguenza di porre effettivamente al "centro dell'attività" amministrativa i centri di servizio sociale e gli istituti penitenziari.
In questo contesto di articolazione di funzioni e competenze può acquistare un significato maggiore l'organizzazione del lavoro per area di competenza, in grado di avere sufficiente autonomia operativa all'interno di una forte direzione capace di indirizzare e di coordinare.
Tutto ciò è possibile, secondo me, realizzare nei prossimi mesi, purchè vi sia una sufficiente volontà politica per battere le inevitabili resistenze conservativi e per eliminare nicchie di potere personale.
La dirigenza della amministrazione penitenziaria
La questione della dirigenza ha in questa amministrazione una rilevanza maggiore che in altre. Ciò per tante ragioni.
Perchè si tratta di un'amministrazione delicata e complessa, perchè ha un corpo di polizia al suo interno, perchè viene da una storia normativa contraddittoria, perchè non ha mai avuto la possibilità di sperimentarsi concretamente in base al principio di responsabilità.
Noi siamo convinti che occorre cambiare questa situazione sfruttando gli spazi che la normativa in via di approvazione ci consentirà di avere.
Si tratta di individuare, partendo dagli istituti, i livelli di responsabilità ai quali deve corrispondere un dirigente. Un dirigente nuovo nella cultura e nella formazione professionale in grado di rispondere del risultato che deve realizzare e non un dirigente esperto in prassi burocratiche ed abile nel porre "quesiti" ai livelli più alti dell'amministrazione o addirittura ad altre amministrazioni per mascherare la propria incapacità a decidere responsabilmente.
Occorre che il Governo, il Ministro di Grazia e Giustizia, il Direttore Generale prestino molta attenzione a questo aspetto. Si tratta di una questione decisiva.
Se verrà promossa una nuova ed ampia classe dirigente, con una cultura manageriale aiutata da significativi momenti formativi, allora il cambiamento dell'amministrazione penitenziaria sarà possibile. Altrimenti corriamo il rischio, purtroppo non nuovo, di riforme fatte sulla carta, sostanzialmente virtuali.
Il personale penitenziario
Sul personale penitenziario dirò poche cose. Innanzitutto vorrei fare una considerazione generale.
La riforma penitenziaria del 75, la legge Gozzini, la riforma dell'ex corpo degli agenti di custodia costituiscono uno sforzo considerevole fatto dal legislatore per rendere l'esecuzione penale e le misure alternative e limitative delle libertà personali coerenti con il dettato costituzionale sulla finalità della pena.
La struttura organizzativa dell'amministrazione penitenziario, l'istituzione del nuovo corpo di polizia penitenziario e dei ruoli di educatori ed assistenti sociali nascono con queste normativa e costituiscono la strumentazione operativa fondamentale per l'effettiva applicazione del dettato costituzionale.
In altre parole educatori, assistenti sociali, poliziotti penitenziari assolvono con compiti diversi alla medesima complessa finalità istituzionale.
Sono inscindibilmente legati alla stessa concezione del carcere e della pena, quella concezione che fa del nostro paese quello che ha la legislazione più avanzata su questi temi.
E' questa concezione che giustifica la loro presenza ed è questa concezione che motiva la scelta di mantenere la collocazione dell'amministrazione penitenziaria nel Ministero di Grazia e Giustizia. Ed è sempre in coerenza con questa concezione che si può lavorare per la valorizzazione professionale di queste figure di operatori.
La dialettica sicurezza - trattamento non è affrontata dalla normativa vigente e, nella nostra impostazione, non è risolvibile attraverso forme organizzative verticali separate e parallele delle strutture deputate alla sicurezza e di quelle deputate al trattamento. Secondo noi invece questa dialettica si deve sviluppare con una consistente reciproca contaminazione.
La stessa scelta di collocazione autonoma dei centri di servizio sociale, scelta che va ulteriormente rinforzata, non contraddice questa impostazione poichè si tratta di una conseguenza funzionale alla gestione delle misure alternative al carcere (affidamento al servizio sociale).
Per sintetizzare, sono profondamente convinto che solo sviluppando una politica che non dimentichi nessuno dei termini della dialettica sicurezza trattamento è possibile far svolgere all'amministrazione penitenziaria il suo ruolo istituzionale al meglio. Ciò comporta una valorizzazione di tutti gli operatori penitenziari. Inoltre credo che sia sbagliato considerare la sicurezza come condizione necessaria per garantire anche politiche di risocializzazione.
La sicurezza è semplicemente una parte della finalità istituzionale del penitenziario.
L'azione amministrativa e le condizioni operative devono garantire che, con la flessibilità necessaria e con articolazioni organizzativi diversificate, il binomio sicurezza - trattamento non sia mai scisso.
Con questa idea di fondo, noi intendiamo impostare le piattaforme rivendicative per il contratto integrativo sia della Polizia penitenziaria che del personale del comparto stato.
Non solo, ma sempre con questa concezione intendiamo sviluppare la nostra politica complessiva nei riguardi del personale, di tutto il personale.
Da questo punto di vista, per esempio, l'istituzione del ruolo direttivo per la Polizia penitenziaria ed il nuovo ordinamento professionale, che sarà definito con il contratto integrativo del restante personale consentiranno finalmente di creare le condizioni per una diversa organizzazione del lavoro basata su aree di attività separate nella gestione dei loro momenti strettamente operativi, coordinate ed integrate invece nei momenti di indirizzo e di verifica.
Naturalmente non è questa la sede per una discussione su aspetti strettamente sindacali. Avremo presto tempo e modo per farlo con i lavoratori del settore e con le RSU. Ho voluto solo far comprendere che per la nostra organizzazione in questa fase di riforma delle pubbliche amministrazioni le politiche rivendicative devono essere coerenti con la spinta riformatrice e determinare nuovi e più avanzati modelli di organizzazione del lavoro.
Per concludere voglio fare solo alcune considerazioni sulle attività di formazione e di aggiornamento del personale penitenziario.
Anche perchè a questa questione abbiamo dedicato una riflessione seminariale qualche mese fa di cui avete nella cartellina la relativa documentazione.
Oggi mi preme solo fare un'affermazione ed alcune valutazioni.
Voglio con forza ribadire che noi pensiamo che la formazione ha un ruolo fondamentale nelle politiche che riguardano il personale. Senza una seria e costante attività formativa credo che sia impossibile realizzare quella valorizzazione professionale degli operatori, di polizia e non, indispensabile per il corretto ed efficace perseguimento delle finalità istituzionali dell'amministrazione penitenziaria.
La formazione è fatta dei contenuti dei corsi e della qualità dei formatori. Ma il messaggio formativo viene anche condizionato in maniera determinante dal clima culturale che si respira nelle scuole di formazione.
Devo purtroppo registrare che su questo tema non ci siamo proprio. Nelle scuole della amministrazione, con qualche rara eccezione, si respira un'aria da caserma, si alimenta una cultura militarista, si consente il prevalere di una logica di ordine e di disciplina e di esaltazione del proprio status di corpo di polizia.
Non so se questa realtà dipenda da una precisa scelta di politica formativa effettuata dall'Amministrazione oppure se sia una conseguenza della totale autogestione delle attività di formazione.
Penso che non sia più tollerabile il permanere di questa situazione. Bisogna cambiare radicalmente impostazione e servirsi, se necessario, anche di agenzie formative esterne. Si tratta, questa è la mia valutazione, di un nodo cruciale che se non risolto positivamente contribuirà notevolmente ad aumentare la distanza tra gli indirizzi di politica penitenziario definiti dal Ministro e la politica effettiva negli istituti.