Il carcere e la pena nel sistema del Welfare servizi, opportunità, professioni
Relazione di Fabrizio Rossetti Responsabile Nazionale Fp Cgil Comparto Sicurezza
Un dibattito attorno alle politiche sociali per il sistema penale e penitenziario, in una fase politica in cui le architetture del Welfare rischiano di essere ridimensionate e destrutturate, può sembrare inattuale e perfino velleitario. Eppure siamo convinti che il valore democratico, i fattori costitutivi e la natura reale del sistema dell’esecuzione penale sono pregiudicati se non pongono a fondamento del proprio mandato istituzionale le persone: i loro diritti inalienabili, la protezione della loro salute, la solidarietà civile nei confronti delle persone svantaggiate, il sostegno e lo sviluppo della loro partecipazione sociale, l’elevazione dell’istruzione e della formazione professionale, i diritti, le opportunità e le tutele del lavoro. Negli scorsi decenni a questi principi hanno anche corrisposto iniziative politiche, interventi legislativi, azioni e proposte delle diverse parti istituzionali e sociali che operano nel sistema penitenziario. Tuttavia quelle politiche e quegli interventi non sembrano aver cambiato la realtà di esclusione e di separatezza del sistema penitenziario e oggi stiamo assistendo ad una fase involutiva di quei valori in cui l’intolleranza strumentale verso l’emarginazione sociale e la devianza in genere sta assumendo i caratteri della normalizzazione. E’ perciò necessario riprendere a nostro parere il filo di un ragionamento critico sulle condizioni per la realizzazione di un progetto di integrazione nel sistema del welfare delle persone sottoposte ad esecuzione penale, avviare una verifica sugli eventuali limiti e sulle insufficienze di quelle politiche ed analizzare le oggettive condizioni che hanno ostacolato il dispiegamento di servizi, di risorse, di opportunità e di professionalità consapevoli del mandato istituzionale. Come parte rappresentativa del mondo del lavoro coinvolto nel carcere e nella pena, dagli operatori della giustizia e del penitenziario a quelli degli Enti locali e della Sanità pubblica, fino a quelli del terzo settore e del volontariato siamo convinti, infatti, della straordinaria ricchezza delle professioni che possono essere attivate ed agire in un sistema integrato di servizi e per l’offerta di concrete opportunità di inclusione, di emancipazione, di effettività dei diritti di cittadinanza. Non possiamo però esimerci da un giudizio fortemente negativo per alcune politiche del Governo che segnano una netta regressione su questi temi e su questi valori fondativi: come quelle messe in campo con la tentata controriforma della Giustizia Minorile che proponeva l’abolizione dei tribunali per i minorenni, un sistema penale minorile repressivo e la progressiva commistione penitenziaria fra adulti e minorenni e dalla quale traspariva chiaramente il senso di un disprezzo per una giustizia riparativa che indeboliva fortemente, se non addirittura tentava di abrogare, la tutela reale dei diritti dei minori; oppure in tema di legislazione sull’uso di droghe, dei percorsi di riduzione del danno e della riabilitazione, che rischiano concretamente di confinare un problema sociale e di protezione della salute nello spazio della repressione, umane e sociali di chi sceglie per una libera e condivisa adesione a percorsi di recupero, tracciati sui bisogni e sulle condizioni reali di vita delle persone tossicodipendenti. Dobbiamo inoltre confermare la denuncia dell’irresponsabile taglio delle risorse al sistema penitenziario e a quello della Giustizia Minorile, a partire dai 300 miliardi di vecchie lire stanziate dall’ultimo Governo della precedente legislatura – Ministro della Giustizia Fassino – a quelli per oltre 100 milioni di euro delle successive leggi finanziarie e decreti tagli spese del Ministro Tremonti. Ri-capitalizzare il sistema penitenziario è perciò oggi condizione preliminare per evitarne l’ulteriore degrado e consentire di sostenere, almeno, i livelli essenziali e vitali dei servizi, messi in crisi da quelli tagli draconiani, che rischiano di far scivolare ulteriormente la gestione delle carceri e dei servizi in una dimensione di drastico contenimento dei bisogni. Siamo certamente consapevoli delle esigenze di rigore ed austerità dei bilanci pubblici; tuttavia reclamiamo politiche di investimento nel settore, che di seguito proveremo a proporre, attraverso specifici Fondi per lo sviluppo delle attività e dei servizi penitenziari. E’ possibile rivedere gli indirizzi di fondo, i meccanismi di finanziamento e la gestione dei progetti e dei piani di azione dell’amministrazione, degli accordi di programma con gli enti locali e con le altre amministrazioni pubbliche, prevedendo il concorso di risorse per finanziare piani comuni a partire dalle dotazioni della Cassa delle Ammende (che ammontano ad oltre 100 milioni di euro) già destinato dal regolamento del 2000 a favorire le attività per il reinserimento sociale dei detenuti e degli internati. L’esperienza del recente passato c’induce a pensare che per un effettivo rilancio di politiche sociali e di solidarietà occorrono linee ed indirizzi in capo ad una responsabilità politica condivisa ad ogni livello istituzionale e territoriale e corrispondenti risorse professionali, economiche ed organizzative. Occorrono strumenti, metodi e sistemi organizzativi finalizzati ad una programmazione comune per lo sviluppo dei servizi volti alla tutela della persona in esecuzione penale, alla protezione della salute, alla riabilitazione psichiatrica o dalla tossicodipendenza, alla formazione professionale e al lavoro, al reinserimento sociale cui possano seguire verifiche ed adeguati controlli di gestione da parte dei soggetti istituzionali coinvolti. Le spontanee quanto preziose iniziative ed i progetti realizzati in talune realtà testimoniano della volontà degli operatori penitenziari, di alcune amministrazione locali e di diversi soggetti privati di tener viva un’idea di solidarietà attiva per creare qualche apertura alla comunità esterna, per attivare qualche opportunità di lavoro, di tutelare i diritti di cittadinanza, per consentire di esprimere le energie e la vitalità delle comunità penitenziarie. Ma queste particolari realizzazioni, peraltro in costante fase sperimentale e di precarietà gestionale, non possono essere utilizzate come richiamo per il pezzo di colore della pubblicistica di turno. Occorre un disegno politico, dicevamo, che sappia contaminare la realtà penitenziaria, modificarne le logiche anguste ed autoreferenziali, produrre buone prassi operative, servizi appropriati ai bisogni, per riaffermare i valori di dignità umana ed i diritti di cittadinanza della persona detenuta. Un segnale importantissimo in tale direzione può essere dato in questa legislatura onorando l’impegno assunto dalle diverse parti politiche, sulla proposta degli amici di Antigone, per l’istituzione del difensore civico delle persone private della libertà personale. Una figura ed una funzione non solo di natura ispettiva e di garanzia dei diritti delle persone detenute, ma anche un interlocutore con un ruolo di mediazione, ai fini di promuovere nelle istituzioni azioni positive volte a rimuovere ostacoli rigidità e pregiudizi che limitano, nella realtà dei fatti, la difesa dei diritti fondamentali, l’accesso ai servizi ed alle opportunità di tutela dell’integrità fisica e psichica delle persone. Una nuova istituzione indipendente ed articolata sul territorio, sull’esempio già proposto in varie forme da alcune regioni e città metropolitane non già come contraltare alle istituzioni della giustizia e della sicurezza, ma come una sfida culturale e civile per riequilibrare i presupposti formali, le prassi operative ed i contenuti concreti della limitazione alla libertà, quando quei regimi e quelle prassi operative scivolino, comunque, verso trattamenti inumani e degradanti.
LA TUTELA DELLA SALUTE IN CARCERE
Questa legislatura, invece, porta già una pesante responsabilità per la mancata risposta al problema vivo e bruciante della tutela della salute in carcere e della riforma della sanità penitenziaria. La responsabilità di non aver dato attuazione alla legge che prevede il trasferimento delle competenze della medicina penitenziaria al servizio sanitario nazionale: la responsabilità di aver eluso i problemi sollevati rinunciando all’ultimo passaggio delle delega legislativa e rinviando ad indeterminati decreti interministeriali le possibili misure correttive, che pure si dichiarano necessarie, ovvero ad improbabili e mai formalizzate proposte legislative per un nuovo modello organizzativo della sanità in carcere. Dopo tre anni di slalom fra comitati e tavoli tecnici, che non hanno prodotto né una proposta né un documento ufficiale, e dopo l’ostinato ostruzionismo al confronto delle commissioni parlamentari, alle quali dovrebbe dar conto il Governo per la mancata applicazione di una legge dello Stato, rimane solo la politica del Ministro Tremonti e del Ministro Castelli. Nessuna lotta agli sprechi ed alle diseconomie, né razionalizzazione dei meccanismi di spesa, come pure è stato affermato nelle diverse sessioni di bilancio, ma solo la strategia dell’”affama la bestia”, così la domanda di salute ed il modello di servizio sanitario si sarà determinato, nei fatti, solo attraverso la contrazione delle risorse, mitigate magari da qualche intervento di solidarismo compassionevole. Quello, ad esempio, delle regioni che invece di rivendicare con forza non solo l’immediata e corretta applicazione della legge di riforma della sanità penitenziaria, ma anche l’attuazione della riforma costituzionale del famoso titolo 5°, preferiscono azioni di governo assolutamente collaterali e di fuga dalle responsabilità, magari stanziando centinaia di milioni di euro per l’assistenza sanitaria in carcere, ma non rivendicando assolutamente il doveroso ambito di responsabilità e controllo sull’utilizzo di queste destinazioni. Noi riteniamo necessario riproporre i termini del problema della sanità in carcere e ridefinire il percorso per la costruzione di un sistema dei servizi, di competenze e di responsabilità che corrispondano alla domanda di assistenza, a requisiti di accessibilità e di appropriatezza dei trattamenti di diagnosi, cura e riabilitazione garantiti alla persona, soprattutto in un contesto particolarmente carico di fattori di aggressione alla salute fisica e psichica, come quello del carcere. La medicina penitenziaria deve essere professionalmente indipendente dalla direzione penitenziaria; garantire l’accesso ai servizi sanitari di prevenzione, diagnosi e terapia equivalenti a quelli erogati nella comunità libera; deve tutelare la confidenzialità del rapporto fra la persone ed il sistema sanitaro, deve garantire competenze professionali di qualità Troppo spesso i problemi indotti dalla crescente domanda di assistenza, dalle difficoltà di un’organizzazione derivata da modelli e da prassi operative improntate all’emergenza sono trattati come problemi del carcere e non come problemi di cura delle persone e così altrettanto spesso vengono rimossi ed elusi. Non a caso, ad esempio, le strutture, le risorse e le dotazioni tecnico-sanitarie sono allocate ed indirizzate verso le situazioni detentive più delicate sotto il profilo della sicurezza, emblematico a riguardo è stato il caso del cittadino Tanzi per le cure del quale sono stati stanziati circa 50 milioni di vecchie lire in una sola settimana a fronte dei circa tre milioni che l’amministrazione penitenziaria spende mediamente per gli altri detenuti nell’arco di un anno solare. Occorre perciò ridefinire nuovi modelli organizzativi, che non possono limitarsi ad una mera rivisitazione dell’esistente, sia pur esso trasferito sotto l’egida del servizio sanitario nazionale, deve tener conto delle diffidenze e delle preoccupazioni di un sistema penitenziario al quale viene sottratto un controllo condizionante del proprio regime o della propria legittimazione a governare i bisogni delle persone detenute. Pur tuttavia se la riforma della sanità penitenziaria ha avuto punti deboli questi vanno individuati nella mancanza di quel coraggio che ogni processo di trasformazione deve saper mettere in campo. Ci sarà pure un motivo se in Francia lo stesso tipo di riforma ha avuto bisogno di soli due anni per entrare a pieno regime e in Italia stiamo, dopo quasi sei anni, esattamente allo stesso punto di partenza? Va, quindi, rintracciato un percorso ed una verifica operativa del sistema della medicina penitenziaria, delle nuove soluzioni organizzative che dovrebbero derivare dalle carte dei servizi che le aziende sanitarie dovrebbero redigere, con l’apporto dell’amministrazione penitenziaria, e va riformulato un piano di governo delle risorse finanziarie, tecniche e professionali con l’obiettivo ineludibile di trasferire finalmente le competenze.
IL LAVORO, L’ISTRUZIONE E LA FORMAZIONE PROFESSIONALE
Lavoro, istruzione e formazione professionale sono alcuni gli elementi attorno al quale il riformismo penitenziario ha tentato di costruire il sistema degli interventi trattamentali e le conseguenti attività di reinserimento sociale. Sono, altresì i parametri di affidabilità attraverso i quali si determina la meritevolezza per accedere ai circuiti di alternatività per l’universo sociale più segnato da deficit e quindi più meritevole di aiuto. Hanno rappresentato, altresì il discrimine vero, la concreta differenziazione dei circuiti perché determinano fortemente gli esiti di decarcerizzazione di un percorso solo in apparenza giusto perché rispetto agli originali intenti che mossero il periodo riformista penitenziario, dal 75 fino all’ultimo regolamento del duemila, l’effetto paradossale è che si è accentuata la selettività di classe dell’intero sistema della giustizia penale. Lavoro, istruzione e formazione professionale, oggi, nel carcere, si parametrano sulle risorse sociali di cui gode il condannato nel senso che chi ne ha di più, di fatto, risulta più affidabile e, in conseguenza, ha anche maggiori possibilità di fruire di alternative al carcere. Nessuno potrebbe smentirci se oggi affermassimo che il carcere è diventato ancora di più una pena inesorabile per le fasce più povere e marginali. Dobbiamo prendere, allora atto che la realtà che si è via via costruita attraverso un processo di differenziazione e di alternatività è ormai qualcosa di profondamente diverso, anzi di opposto al progetto politico che l’ispirò. Bisogna aprire una profonda riflessione a tutti i livelli sulla necessità di riaggiornare quel sistema non fosse altro che sulla semplice e fin troppo ovvia considerazione che dal 1975, quando cioè per la prima volta s’introdussero questi parametri, ad oggi, i concetti di lavoro, istruzione e famiglia sono radicalmente mutati. Negli ultimi anni l’impegno per l’ampliamento delle opportunità di lavoro, di istruzione e di formazione professionale è stato riconosciuto come strategia qualificante per le prospettive di miglioramento delle condizioni della pena e del reinserimento sociale. Il nuovo regolamento penitenziario, appunto, ed il sistema di incentivi alle imprese ed alla cooperazione sociale hanno tuttavia favorito una sia pur modesta crescita dell’offerta occupazionale. Le intese con le regioni, con gli enti locali, con alcuni soggetti ed istituzioni che governano il mercato del lavoro e con alcune grandi aziende, hanno rappresentato segnali di attenzione e favorito canali di comunicazione e di relazione per un vasto arcipelago di operatori professionali e di associazioni di imprese. Tutto ciò, però, stenta ancora a divenire sistema e collettore di attività formative, di risorse organizzative, di investimento e di iniziative imprenditoriali. Nella realtà attuale, infatti, la domanda e l’offerta di formazione e di lavoro faticano ad incontrarsi quando i diversi aspetti e fattori della produzione non sono collegati ed orientati da chiari piani d’azione, quando vengono meno le condizioni di agibilità e di operatività di impresa, quando le strutture e gli impianti non rispondono ai requisiti di un’efficienza di qualità e di sicurezza. Invece di inseguire faraonici quanto irrealizzabili programmi di edilizia penitenziaria per realizzare super carceri spesso lasciate vuote per anni per mancanza di personale o perché realizzate in contesti territoriali che di quelle strutture non avrebbero bisogno, l’amministrazione penitenziaria dovrebbe essere messa in condizione di riqualificare ed innovare strutture ed impianti. Dichiari il Ministro Castelli una diversa destinazione delle risorse affidate all’aedifika SPA e spenda con coraggio su questo versante. Così anche sul tema dell’istruzione: ha ragione di esistere un sistema che nel 1975 ancora rispondeva ad una crescente domanda di alfabetizzazione nel paese e che attorno al bisogno di elevare il livello culturale dei cittadini costruì anche le architetture del sistema penitenziario? Oggi quei presupposti appartengono solo ed esclusivamente alla fetta di popolazione detenuta straniera che, però, anche per quel che dirò in seguito, vede questo bisogno ricacciato al livello più basso delle sue priorità, dei suoi bisogni. Su questo specifico argomento interessante sarebbe poter accedere ai dati che riguardano i disinvestimenti culturali ed economici che sulla scuola in carcere si sono succeduti in questi anni e capire come, ad esempio, l’amministrazione penitenziaria si sta preparando alla riforma del sistema formativo della Ministra Moratti.
IL SISTEMA DELLE MISURE ALTERNATIVE E SOTISTUTIVE DELLA DETENZIONE
Siamo consapevoli che una prospettiva di deflazione e sovraffollamento carcerario va costruita e perseguita, dando credibilità alle misure alternative e sostitutive della detenzione, garantendo alla comunità accettabili condizione per la sua sicurezza e rispettando il sentire comune della società civile e delle vittime dei reati. Per questo l’esecuzione delle misure alternative e sostitutive della pena carceraria deve essere supportata da programmi che orientino il giudice di merito o la magistratura di sorveglianza verso percorsi strutturati ed affidabili di reinserimento sociale e di riduzione della recidiva di reato. Se la situazione del sistema penitenziario permane quella di una grande prevalenza di persone in condizioni di disagio, di povertà, di perdita di protezione socio familiare, di crisi o di conflitto con l’ambiente sociale, occorre promuovere forme di cooperazione fra il sistema penale e penitenziario e il sistema integrato dei servizi sociali del territorio, strutturando una rete di collegamenti, di orientamento al lavoro e servizi di sostegno alla persona in esecuzione penale. Va potenziata la collaborazione ed il coordinamento permanente e vanno predisposti e gestiti precisi Piani di zona dentro i quali definire chiaramente sedi e metodi di una partecipazione attiva, volta ad ottimizzare l’efficacia delle risorse, impedire sovrapposizioni di competenze e la settorializzazione delle risposte. Come abbiamo accennato l’amministrazione della Giustizia dispone di un polmone finanziario, la Cassa delle Ammende, in grado di integrare servizi e prestazioni sociali del territorio. Ma occorre che progetti e programmi di intervento da finanziare con quelle risorse siano più celermente ed efficacemente avviati., possibilmente sulle linee di una concertazione con le Regioni, con gli Enti locali, con l’associazionismo ed il terzo settore e che stiano dentro un più grande e generale patto di solidarietà e di cooperazione che impegni le rispettive politiche attive, gli strumenti e le professionalità corrispondenti. E oltremodo necessario che sia il sistema dell’esecuzione penale esterna il soggetto al quale rivolgere, in questo quadro, la maggiore attenzione; sono i Centri di servizio sociale, così come li definiscono le leggi e non come li vorrebbe la Direzione generale del DAP che devono poter disporre di strumenti di collegamento alla rete dei servizi sul territorio e di canali di attivazione degli interventi a sostegno e delle prestazioni sociali per facilitare la predisposizione di programmi di trattamento e l’ammissione alle misure alternative e sostitutive della carcerazione Crediamo opportune e coerenti con una più attenta politica di contrasto criminale, quelle iniziative legislative che evitino, quanto più possibile la carcerazione come forma principale e misura imprescindibile della sanzione penale. La scarsa attenzione e l’assoluta assenza di incisività su questo tema, che ha caratterizzato l’attenzione che la politica ha dedicato a questo tema è da considerarsi totalmente negativa anche perché l’universo della pena è non solo il terminale del processo penale e l’empirica verifica sul suo funzionamento, e già qui il giudizio è oggettivamente negativo, ma è anche quello che maggiormente scandisce le disuguaglianze sociali. Quasi tutti i programmi politici, da quelli di governo fino a quello dei singoli partiti hanno proposto e tuttora propongono il rilancio della finalità rieducativa della pena voluta dalla costituzione anche attraverso il potenziamento delle pene non detentive già esistenti o la creazione di nuove. Sul perché pochissimi di quegli obiettivi sono stati realizzati nelle scorse legislature e nello scorcio di questa si potrebbe aprire un dibattito nel dibattito. Io credo che sarà sempre difficile affrontare questo tema se le discussioni che avanzano, le riflessioni che si formano rischiano il vizio di lettura strumentale del tema della sicurezza, mai schizofrenico come in questi ultimi dieci anni. E credo, parimenti che sia artificiosa tutta la falsa diatriba fra quelli che sostengono che la discrezionalità degli strumenti attenuativi rende incerta la pena e quelli che sostengono altrettanto nobilmente che per seguire l’evoluzione del percorso esistenziale di ciascun condannato è indispensabile una flessibilità nell’esecuzione della pena. Quello che ormai è ineludibile è che si riavvii un processo di rivisitazione dei meccanismi di sostituzione delle pene detentive brevi, da parte del giudice di merito, quando la difesa della comunità possa essere garantita con strumenti diversi dalla reclusione e quando nel reato non si evidenziano caratteri di scelte strutturate di condotta criminale . Quando può essere ragionevolmente pronosticato un percorso consapevole di recupero e di reinserimento allora si deve poter prevedere il ricorso a nuove sanzioni quali le prestazioni di pubblica utilità, gli arresti di fine settimana ovvero a misure interdittive o incapacitative. C’è bisogno di abbandonare posizioni concettuali antagoniste sulla strutturazione ed organizzazione del sistema penal-penitenziario e si deve con chiarezza scegliere opzioni anche più avanzate sul terreno della mediazione penale e della giustizia riparativa nei confronti delle vittime del reato. Alcuni paesi europei hanno già consolidato un’importante esperienza sul campo, strutturando servizi di supporto ai tribunali ed al pubblico ministero, dotati di professionalità specializzate nel campo della mediazione penale, esperienze, queste , tratte anche dal mondo dell’associazionismo e delle reti dei servizi sul territorio. Sciogliere, insomma, il nodo politico a culturale che ci fa da un lato ritenere che la formula della privazione della libertà personale (affidataci dalla rivoluzione francese in nome dei principi egualitari e umani) sia ad un punto morto e quella che ci fa leggere i fenomeni di criminalità diffusa ed organizzata non più come fenomeni derivanti da processi di esclusione e di marginalizzazione ma come forme strutturate di anti stato per le quali l’unica risposta è il carcere. In mezzo c’è questo carcere che ha bisogno strutturale di risposte extra carcerarie. E’ importante ricercare soluzioni diverse per le persone svantaggiate nelle garanzie processuali e nelle opportunità di accesso alle misura alternative alla detenzione perché meno protette nella situazione di conflittualità nei rapporti sociali o esposte al rischio di essere spinTi ai margini dell’illegalità, come gli extra comunitari e le donne ed i bambini sfruttati dal mercato del lavoro nero o della prostituzione. Per molti di loro e per le loro famiglie, qualsiasi violazione della norma penale significa, grazie alla legge Bossi Fini, la revoca del permesso di soggiorno, la mancata regolarizzazione di un’occupazione, un loro progetto di vita e di integrazione totalmente bruciato.
LE PROFESSIONI PENITENZIARIE E DI SERVIZIO
Un'idea di fondo ha ispirato, negli anni le politiche sindacali e contrattuali della Cgil. Abbiamo sempre voluto e sostenuto processi riformatori che consentissero alle amministrazioni di organizzarsi tenendo conto delle proprie specificità e dell’esigenza di migliorare la qualità e l’efficacia delle proprie attività. Nel Ministero della Giustizia uno degli obiettivi che abbiamo sempre declinato negli appuntamenti più importanti era quello del riconoscimento, a quell’articolato sistema delle professioni, del ruolo da protagonista che gli si addice e che è premessa decisiva per l’affermazione di un sistema penale e penitenziario democratico e solidale. Perché potesse essere sempre capace di innovazione e fattore di crescita della qualità dei servizi, affinché potesse partecipare all’emancipazione culturale e sociale del carcere e della pena era necessario valorizzare quel lavoro svolto da sempre con straordinaria passione e con quella continua ricerca di identità professionali. Quell’idea, a nostro giudizio, si realizzava con un organizzazione per linee orizzontali del lavoro, delle funzioni e dei centri di responsabilità. Un’organizzazione cioè che consentisse la partecipazione attiva dei lavoratori agli obiettivi comuni, una migliore qualità complessiva dei servizi e una maggiore consapevolezza della missione perseguita attraverso l’assolvimento dei compiti di ciascuno e con reciproco rispetto e riconoscimento fra le diverse professionalità, sia istituzionali che esterne. Con maggiore o minore successo abbiamo perseguito un’organizzazione del lavoro per aree dotate di autonomia tecnico-professionale e per unità operative nei servizi della polizia penitenziaria; abbiamo messo a disposizione, per questi obiettivi gli strumenti propri della contrattazione ; abbiamo supportato i processi di riorganizzazione dell’amministrazione per il decentramento territoriale e funzionale e per l’ampliamento dei centri di responsabilità dirigenziale e direttiva; abbiamo cercato di dare impulso ad una formazione ed ad un aggiornamento professionale aperto alle molteplicità delle culture, delle competenze e delle innovazioni dei metodi gestionali. In questo quadro, il sistema aveva bisogno di un’amministrazione che sapesse inserirsi in un processo riformatore fatto di regole comuni che evitasse quella tendenza isolazionistica e di autoreferenzialità che purtroppo l’ha sempre caratterizzata. Una deriva verso la diversità e l’isolamento, quella proveniente dal DAP macroscopicamente contraddittoria proprio perché da sempre associata ad una costante critica alla politica, alla società, al governo ed agli enti locali, per il loro sostanziale disinteresse per il carcere e i suoi problemi. In questi ultimi anni abbiamo visto, invece, delinearsi scenari regressivi, involutivi e neo autoritari nelle politiche del personale, nella riorganizzazione dell’amministrazione e nelle relazioni sindacali. E’ stata invocata e perseguita una restaurazione che si afferma attraverso l’enfatizzazione di un dirigismo strutturato, disciplinare, burocratico e gerarchizzato, nel quale le ricorrenti suggestioni autoritarie di alcuni apparati forti hanno prodotto una torsione del sistema penitenziario sino a farlo concepire esclusivamente come agenzia terminale delle politiche dell’ordine pubblico e del controllo sociale. Alle emergenti professionalità di direzione, di polizia penitenziaria o delle aree amministrative, socio educative e tecniche sono stati assegnati profili di responsabilità limitati, un agibilità tecnica e operativa angusta e controllata, volta a promuovere il rapporto fiduciario ed il governo disciplinare, negando ogni affidamento di autonomia nell’organizzazione del lavoro e dei servizi, che non sia stato preventivamente legittimato dall’amministrazione centrale. La qualità e la valenza progettuale degli accordi sindacali e della contrattazione nell’organizzazione del lavoro è scemata sensibilmente ed ha prodotto non solo fratture con le rappresentanze sindacali e con i lavoratori da esse rappresentati, ma un’evidente crisi della missione istituzionale, nella motivazione professionale e nell’efficienza dei servizi. Diamo atto al presidente Tenebra, in quest’ultima fase , di aver colto questo allarme e di aver mostrato alcuni segnali di attenzione che speriamo possano tradursi in nuove prospettive di intesa e di accordi qualitativamente decisivi per i lavoratori e per la stessa amministrazione, come riteniamo sia stato l’accordo quadro per i servizi della polizia penitenziaria. Verificheremo con spirito costruttivo e presseremo per accordi con contenuti ambiziosi anche per il restante personale, diversamente da quanto ci viene permesso normalmente dal Ministro Castelli nelle sedi di contrattazione nazionale e negli accordi integrativi di amministrazione. Verificheremo la volontà e la capacità di colmare le vacanze di organico del personale amministrativo come prima risposta anche al problema della carenza nelle dotazioni della polizia penitenziaria; verificheremo perché non è sufficiente aver bandito i concorsi se non si avverte chiaramente l’impegno politico di assumere in tempi accettabili e rispondenti alle difficoltà degli istituti e servizi e con la qualità professionale richiesta in questo lavoro, che non può, anzi non deve essere surrogata con figure a rapporto precario o a tempo determinato. Tuttavia il paradigma di un’amministrazione incerta della propria identità e della propria cultura istituzionale e di servizio lo da, oggi, la vicenda del mancato riconoscimento delle funzioni dirigenziali presso gli istituti penitenziari e dei centri di servizio sociale. Una dirigenza che rimanga limitata ai vertici centrali e regionali rischia di perdere l’occasione di innervare nelle strutture gli indirizzi di una politica penitenziaria aperta al territorio, di produrre qualità e innovazione nei servizi, di valorizzare le esperienze e di far crescere una generazione professionale portatrice di metodi e di culture organizzative originali e capaci di offrire soluzioni avanzate ai bisogni delle persone detenute, in una prospettiva sociale e professionale di presa in carico dei problemi. A distanza di quattro anni dal decreto legislativo 146 del 2000, negli istituti penitenziari, nei centri di servizio sociale, negli uffici e servizi di supporto non si sono ancora realizzate le condizioni per l’affidamento di responsabilità pregnanti e di autonomia organizzativa; non ha avuto legittimazione un nuovo ruolo del direttore lasciando prevalere quelle logiche regressive che gli assegnano un profilo basso ed esecutivo di direttive, di orientamenti e di politiche di servizio valutate e decise altrove. Sappiamo tutti come sono state declinate le difficoltà per la realizzazione di quel processo di affidamento delle funzioni e si può anche prendere atto che alcune procedure di concorso e di selezione rischiavano di mortificare ruoli e responsabilità già di fatto esercitate ed in condizioni difficilissime; su questo abbiamo già mostrato ampia disponibilità a riaprire un confronto; ciò che invece non ci convince affatto è la soluzione legislativa del disegno di legge del Senatore Meduri che anzi riteniamo dannosa e fuorviante per una dirigenza che vuole essere credibile, forte ed all’altezza delle sfide che si pongono ai profili di responsabilità istituzionale. Due sono i punti di forte critica al ddl meduri: il primo attiene all’illusione che la legificazione del rapporto di lavoro possa dare legittimazione, riconoscimento professionale e condizioni economiche più vantaggiose rispetto alla piena agibilità contrattuale, il secondo riguarda l’inaccettabile sovradimensionamento di una dirigenza completamente sganciata dalla struttura organizzativa e funzionale dell’amministrazione penitenziaria. Naturalmente non è questa la sede per una discussione su aspetti strettamente sindacali abbiamo modi e tempi per farlo con i lavoratori del settore e con le RSU ma io credo sia giusto sottolineare come la nostra organizzazione, pur in questa fase di profonda crisi di un sistema di relazioni istituzionali e sindacali, si sia sempre assunta la responsabilità di proposte coerente con le spinte riformatrici che da tempo perseguiamo: nel riconfermare la giustezza di questa linea avvertiamo, però, l’esigenza che ad un’assenza di visione di prospettiva dell’amministrazione penitenziaria sui temi del lavoro e delle professionalità il sindacato, la Cgil, deve saper rispondere contrastando l’incapacità di confrontarsi coi problemi del sistema ed il rigetto di una dialettica che mette in discussione ruoli consolidati e prassi codificate. Non è questa le sede nemmeno per lanciare l’offensiva del sindacato sul tema delle professionalità e del rispetto dei diritti soggettivi e contrattuali, su come vengono disattese anche leggi dello stato che ne garantiscono l’esigibilità, penso ad esempio alla legge 104/92, ovvero su come vengono in maniera pessima interpretate le funzioni di direzione dell’ufficio del personale, non solo nei rapporti con il sindacato e con i contratti, ma anche con i diversi livelli di responsabilità istituzionale decentrata. Avremo possibilità, speriamo, di interloquire con l’amministrazione penitenziaria e di cercare una risposta condivisa ai problemi che affliggono le professionalità penitenziarie e l’organizzazione dei servizi. C’è, però una cosa sulla quale sento il dovere di una valutazione, non di circostanza, ma di sostanza. Noi abbiamo sempre pensato che la formazione ha un ruolo fondamentale nelle politiche che riguardano il personale. Senza una seria e costante attività formativa credo si impossibile realizzare non solo quegli obiettivi politico-istituzionali che da tempo sono scomparsi dall’agenda dei lavori, ma nemmeno la residuale e pur necessaria valorizzazione professionale degli operatori di polizia e dei profili tecnico-amministrativi. La formazione è fatta dei contenuti dei corsi e della qualità dei formatori ed è fatta, prima di tutto, di un messaggio formativo che l’amministrazione assume a priori, magari con una condivisione più allargata e partecipata. Ma il messaggio formativo viene anche condizionato in maniera determinante dal clima culturale che si respira nelle scuole di formazione. Lo dico apertamente, sulla valutazione di questi elementi la nostra organizzazione criticò duramente la passata gestione della formazione del DAP. Ma altrettanto chiaramente mi sento di poter affermare, oggi, che quei giudizi critici di allora non sono nulla rispetto alla valutazione che la Cgil fa oggi su come il DAP interpreta il suo ruolo di agente formatore. Non ci convinceva affatto la scelta di accorpare la formazione nelle politiche di gestione del personale perché il rischio che avvertimmo allora, da soli, era quello di una fagocitazione delle politiche formative nell’emergenza gestionale nella quale da anni sono ricacciate le attività della direzione generale del personale. Ma il bassissimo livello di attenzione e la scarsa progettualità delle attuali politiche formative non sono solo da ricondurre a quel rischio da noi allora evidenziato, ma più semplicemente, crediamo, alla totale assenza di una visione complessiva e di un disegno strategico del DAP su questo tema ai quali anche le abissali distanze culturali che caratterizzano la direzione generale del personale hanno irrimediabilmente concorso. Una logica, quella attuale, che nega di fatto proprio quel carcere come crocevia di idee, di energie, di sensibilità istituzionali e sociali capaci di guardare con coscienza civile ai problemi, alle sofferenze e alle lacerazioni umane e sociali che rimangono dopo il delitto, dopo la condanna e dopo la pena. Delle carceri Pietro Calamandrei diceva: “bisogna vederle, bisogna esserci stato, per rendersene conto”. Per renderci conto del carcere oggi, dei valori di giustizia di sicurezza sociale e di solidarietà civile che realmente perseguiamo, dobbiamo dargli più occhi, più mani e più intelligenze, perché nell’itinerario d3ella pena ci sia sempre il rispetto e la cura per il valore della persona.
|