Il carcere e la pena nel sistema del Welfareservizi, opportunità, professioniRoma, 25 giugno 2004Polizia penitenziaria: una professione aperta per una Sicurezza evoluta.
Relazione di Francesco Quinti Responsabile Nazionale Fp Cgil Polizia Penitenziaria
Sulle funzioni della Sicurezza nel carcere e sulle prospettive professionali della Polizia penitenziaria, aleggia un paradosso: in Italia disporremmo del rapporto agente-detenuto più alto d’Europa. Eppure le condizioni operative sono spesso precarie, i diritti del lavoro e del personale non sono sufficientemente tutelati, gli standard di sicurezza non sempre sono garantiti, le piante organiche sovente sono riconosciute inadeguate per il corretto svolgimento dei compiti d’istituto. Lo stesso paradosso, qualche volta, si trasforma nel fantasma di un sistema penitenziario incerto ed opaco. La preponderanza numerica della Polizia penitenziaria ed il presunto privilegio riconosciuto alle funzioni della cosiddetta custodia, rispetto a quelle delle diverse professionalità amministrative e socio educative, sarebbe la causa dell’inutile durezza dei regimi detentivi e dell’eccessiva rigidità delle regole. Insomma, mantenendo a proprio vantaggio questo rapporto squilibrato, la Polizia penitenziaria marca la prevalenza di una cultura della Sicurezza che si afferma solo con l’esasperazione del principio dell’ordine, con i controlli pervasivi di polizia, con una disciplina insensibile ai diritti e ai bisogni delle persone detenute, ponendo ostacoli alla gestione dei servizi destinati alla persona, contrastando l’offerta educativa o la previsione d’opportunità per valorizzare il tempo della pena.
Questo presunto paradosso giustifica in modo acritico e fuorviante la permanenza di contraddizioni irrisolte, l’arretratezza dell’organizzazione del carcere, l’incapacità di comunicare fra orientamenti professionali diversi, l’incapacità di assumere responsabilmente metodi innovativi ed una cultura nuova della Sicurezza in ambito penitenziario. Poiché quel rapporto agente–detenuto non consente di affrontare nelle sedi di contrattazione, una ricognizione dei carichi di lavoro reali e delle conseguenti condizioni di sicurezza negli istituti e nei servizi operativi, forse è giunto il momento di fare una comparazione più puntuale fra i servizi resi e i compiti assicurati nei diversi sistemi penitenziari d’Europa. Dal momento che quel rapporto squilibrato fra personale di Polizia penitenziaria e le professioni trattamentali e socio-assistenziali, inibisce un rapporto dialettico e una più impegnativa revisione dei metodi, delle prassi operative e delle relazioni istituzionali, dovremmo deciderci a condividere i criteri per misurare i contenuti e la qualità dei servizi penitenziari, insieme alle condizioni perché si realizzi una sicurezza non oppressiva, che dia affidamento e che risponda a standard d’efficienza e d’accertata efficacia, senza dilatare ulteriormente i carichi di lavoro o dequalificando gli apporti di ogni componente professionale. Quella Sicurezza che si concentra sul controllo dei bisogni dei detenuti, di quella piccola, asfissiante burocrazia carceraria che gestisce quotidianamente l’esercizio di un diritto, che negozia l’accesso ad un servizio, che contratta le condizioni per essere ammessi alle minime opportunità di sostegno e di assistenza è, in realtà, una Sicurezza che non dà né ordine, né disciplina e che non protegge gli stessi operatori. Un ordine ed una disciplina che forse garantiscono un metodo di governo centralizzato e una vecchia gerarchia dei ruoli e delle funzioni, che assicurano la sopravvivenza di prassi consolidate e di qualche comoda nicchia di gestione, ma che pongono la stessa Polizia penitenziaria in una conflittualità corrosiva, quando il sistema non riesce a garantire un diritto o a produrre il servizio dovuto, ad offrire risposte ai bisogni, generando nelle persone detenute alienazione e frustrazione.
Il regime della domandina, che regola l’organizzazione penitenziaria e che determina le condizioni materiali della vita carceraria, è il cattivo Welfare penitenziario. Una visione minimalista o, peggio, compassionevole della cura dei diritti e dei bisogni delle persone detenute, funzionale al loro dominio assoluto ed al controllo totalizzante del sistema. Un regime che ha costi elevati, sia in termini di risorse umane che economiche, che è divenuto talmente gravoso, con le dimensioni attuali degli istituti, da diventare una delle cause dello scadimento delle condizioni di vita e della scarsa qualità professionale dello stesso lavoro. Qualche esempio?
· per consentire ad un detenuto una telefonata ai familiari, occorrono una mezza dozzina di operazioni: per le autorizzazioni ed i controlli preventivi, le verifiche disciplinari, le registrazioni e le operazioni contabili preliminari e successive. Operazioni che possono essere contenute su una carta telefonica, sia pure programmata all’uso personalizzato in carcere, come già si è iniziato a fare da anni nelle carceri del Regno Unito;
· nell’era dello sportello virtuale delle Poste italiane e del governo elettronico dei servizi, si impiega personale che deve assicurare il tramite giornaliero per i telegrammi, le raccomandate ed i vaglia, per i versamenti periodici dei fondi dei detenuti o delle ritenute sulle mercedi;
· nonostante siano ormai diffusi i metodi della moderna distribuzione, dei general store e delle carte prepagate, si impiega ancora troppo personale per il sopravvitto (in realtà per l’acquisto di generi e dei beni di prima necessità), perché gli appalti dell’Amministrazione penitenziaria non sono remunerativi per le imprese.
Eppure un agente di Polizia penitenziaria costa oltre 30.000 euro l’anno, e sono migliaia le unità di personale impegnate in quelle attività di burocrazia domestica, mentre la qualità della Sicurezza è penalizzata professionalmente e l’efficienza dei servizi istituzionali si misura solo per garantire la massima presenza del personale in servizio.
Crediamo sia tempo di superare gestioni di servizi così anacronistiche, di cominciare ad eliminare le incrostazioni dei controlli formali e burocratici, di semplificare la vita penitenziaria e l’organizzazione del lavoro, favorendo l’innovazione e l’acquisizione delle necessarie tecnologie di supporto. Forse già questo, può servire ad avviare il cambiamento di una Polizia penitenziaria non più orientata al dominio di quel sistema dei controlli sulle persone e sui servizi, a slegarla dall’acritica difesa del rigore dei regolamenti, percepiti come unico strumento della propria legittimazione professionale, liberando energie, valorizzando competenze e qualificando le responsabilità assegnate nei processi di ammodernamento dei servizi istituzionali. Nella ricerca dell’innovazione nei metodi, della gestione della vita penitenziaria e delle tecniche operative che possono qualificare una più aperta e moderna professionalità, siamo convinti che buoni accordi sindacali possano favorire soluzioni appropriate e funzionali, incentivando le professionalità emergenti della stessa Polizia penitenziaria, che possono contribuire alla realizzazione di servizi più efficienti, in condizioni di sicurezza garantite e con apporti tecnicamente e professionalmente qualificati. Crediamo, infatti, che si debba prendere atto, pur fra le tante contraddizioni e spinte corporative contrapposte, che nella Polizia penitenziaria sia maturata una cultura professionale ed una consapevolezza diversa del valore della Sicurezza, che si possa investire sulla voglia e sulle capacità ad impegnarsi in una logica complessiva ed avanzata della missione istituzionale. Già dal 1975, l’ordinamento penitenziario definiva la Sicurezza come la condizione perché possa realizzarsi il trattamento penitenziario aperto. La riforma del Corpo del 1990 ha riconosciuto alla Polizia penitenziaria una partecipazione attiva, nell’ambito di una dimensione multiprofessionale, alle attività di osservazione e del trattamento rieducativo dei detenuti e degli internati. E’ possibile oggi rielaborare positivamente quei principi e qualificare quella dimensione multiprofessionale, concependo una cultura evoluta della Sicurezza e assumendo responsabilità professionali condivise e consapevoli delle condizioni necessarie alla realizzazione delle attività, dei servizi destinati alle persone private della libertà personale e alla promozione di opportunità di reinserimento sociale. Non è più sufficiente una Sicurezza configurata solo al presidio dell’ordinato svolgimento degli interventi, delle prestazioni o a protezione degli operatori chiamati a realizzarli. Non si può pensare di programmare il sistema d’accesso ai servizi, le attività del trattamento penitenziario, senza assumere il valore della Sicurezza come riferimento comune, che renda riconoscibili i diritti protetti, affidabili le scelte organizzative operate, credibile la professionalità dell’offerta educativa, garantita e affidabile la selezione dei percorsi individuali e collettivi al reinserimento sociale. Una Sicurezza evoluta si deve far carico di generare fra gli operatori e le persone detenute le condizioni del dialogo, la possibilità di assumere reciproche responsabilità, di far valere l’impegno e la lealtà nei comportamenti, che si fondino sul rispetto della dignità della persona e sulla riconoscibilità dei ruoli e delle professionalità. Una Sicurezza evoluta assume il principio della prevenzione, adotta lo strumento della programmazione degli interventi, si avvale dell’analisi degli interessi e delle condotte criminali, dell’osservazione individuale, non solo per la protezione delle proprie condizioni operative o per garantire l’istituzione e gli operatori, ma anche per dare affidamento alla società civile sulla serietà e sulla responsabilità rispetto all’esecuzione penale e alla sicurezza dei cittadini. Una Sicurezza evoluta può garantire gli stessi condannati, che intraprendono un percorso di riabilitazione personale e d’emancipazione sociale, dalle possibili strumentalizzazioni da parte di coloro che, invece, mantengono con la loro condotta un’obiettiva pericolosità criminale ed un collegamento con le organizzazioni esterne. Una Sicurezza evoluta, partecipata e professionale, è stata l’obiettivo della Riforma del Corpo di Polizia penitenziaria, e questo si propone di realizzare la democrazia della rappresentanza, a partire dalla tutela delle condizioni di lavoro, per il rispetto della legalità democratica e per la crescita della dignità e del ruolo sociale dei suoi appartenenti. Quando la declinazione della Sicurezza in ambito penitenziario è attratta, invece, dalle categorie dell’ordine pubblico; quando privilegia un’incerta identità di polizia, senza spessore professionale e con scarsa responsabilità civile e democratica; quando lo Stato ritiene di ricorrere alla potenza dei suoi apparati per sovrastare le situazioni di conflitto e di contrapposizione; quando si rinuncia a gestire i problemi, sforzandosi di garantire le forme di partecipazione dialettica fra le diverse culture sociali; quando il controllo delle strutture e del territorio diviene rappresentazione e affermazione di una funzione di controllo dominante, e non spirito di servizio alla comunità, e non senso delle Istituzioni, la Sicurezza scade di valore e rischia di produrre lacerazioni nel tessuto che unisce gli operatori alla società civile e alla cultura democratica. E’ successo in passato, in diverse circostanze già venute alla luce dell’opinione pubblica e della Magistratura. Perciò, le richieste di nuovi assetti del Corpo di Polizia penitenziaria, come fanno in diversa misura i disegni di legge ASCIERTO e PECORELLA, separando la formazione e la crescita di una specifica cultura della Sicurezza penitenziaria, dalla più articolata dimensione istituzionale o nella dialettica dei luoghi di lavoro, sono spinte verso una china pericolosa, che non premia certamente il lavoro degli operatori sul campo, ma solo le mal celate ambizioni di potere dei soliti noti e l’intento di sfruttare alcune rendite di posizione sull’ apparato. La bestia della violenza del sistema, tuttavia, non si annida nella cattiva coscienza del ruolo e dell’identità della Polizia penitenziaria, né nella sua indisponibilità a confrontarsi coi problemi del penitenziario, né nel suo imprinting culturale e professionale. La bestia si manifesta e aggredisce quando vengono meno la catena delle responsabilità istituzionali e professionali, quando si produce una gerarchizzazione delle funzioni e degli interessi corporativi, che si sottraggono al controllo di legalità e alla verifica del mandato assegnato. La bestia è liberata quando il sistema è incapace di interpretare con intelligenza le situazioni di conflitto, quando non prende la responsabilità di promuovere una Sicurezza efficace e quando non ha professionalità e consapevolezza democratica di dover proteggere, nei valori più alti della collettività civile, il valore di ogni singola persona.
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