CONVEGNO CGIL – ROMA – 25/06/04

 

 

ASSISTENTI SOCIALI: PER UNA NUOVA POLITICA DEI SERVIZI

Anna Muschitiello - Assistente Sociale

 

Parlare oggi di politiche penitenziarie e in particolare delle politiche dei servizi penitenziari è quanto di più arduo possa esserci perché ci troviamo nel bel mezzo di processi di cambiamento che rispondono a logiche diverse e tra di loro molto contraddittorie.

Prima contraddizione: le scelte legislative che a parole vorrebbero produrre più controllo e sicurezza, nei fatti perpetuano condizioni di impunibilità, (vedi la legge Bossi Fini sull’immigrazione che sta rivelando in questi giorni la sua inapplicabilità e il suo valore tutto ideologico) o di inefficacia come nel caso del così detto “indultino” che non ha ridotto affatto il sovraffollamento carcerario ( il numero irrisorio di coloro che ne hanno usufruito sta ad indicare tutta la sua inutilità) e si è limitato ad introdurre una sorta di nuova misura alternativa “un mostro” che come frankstein è un derivato dall’assemblaggio di tutte le misure alternative esistenti, contribuendo in sé ad aumentare ambiguità e confusione.

Questo è tutto ciò che in questi ultimi anni l' azione politica è stata capace di produrre in questo settore a fronte della situazione drammatica in cui versa il sistema penitenziario italiano ed è una fortuna se ancora oggi questo regga, senza che l'esasperazione della popolazione detenuta, esploda, nonostante si stiano lasciando “incancrenire” le situazioni.

Tale drammaticità emerge comunque attraverso altri fenomeni, meno eclatanti, quali gli atti di autolesionismo e i suicidi, sempre più in aumento all'interno delle carceri. Leggevo su “Ristretti Orizzonti” il sito più informato su questi argomenti: il tasso di suicidi (ma anche di auto-lesionismo), nelle carceri italiane è venti volte superiore rispetto alla popolazione non detenuta: un anno fa già, quando si discuteva del cosiddetto “indultino”, il Corriere della sera ricordava che sono poco meno di mille all’anno i suicidi e circa 6500 gli atti di auto-lesionismo. Nel 1999, secondo lo stesso ministero di Giustizia, vi erano stati 53 suicidi, uno ogni mille carcerati. Nel 2000 secondo l’Associazione del buon diritto, citata sempre dal Corsera erano saliti a 61, nel 2001 a 70. Nella popolazione libera il tasso oscilla attorno allo 0,65 ogni diecimila persone, contro il 10 - 12 che si riscontra dietro le sbarre. Questo è il sintomo più evidente di una popolazione detenuta che vive senza più alcuna speranza di veder migliorare le proprie condizioni di vita e alla quale, non resta da fare altro che, rivolgere verso se stessi un ultimo gesto significativo della propria disperazione per far sapere che esiste.     

Come assistenti sociali iscritti al sindacato partecipiamo e viviamo dall’interno questa situazione e partecipiamo al dibattito che ogni volta si accende intorno a questi temi e dopo tanti anni dobbiamo constatare che anche quando si cerca di fare qualcosa, non ci si avvicina neanche lontanamente ad una possibile soluzione, perché si continuano ad usare “pannicelli caldi” per guarire piaghe profondissime.

Seconda contraddizione: per anni le misure alternative alla detenzione sono state invocate e lo sono ancora come strumento per svuotare le carceri, in realtà assistiamo ad un aumento costante di soggetti detenuti e contemporaneamente all’aumento dei soggetti in misura alternativa, c’è, quindi, una tendenza inesorabile che vede un allargamento sempre maggiore dell’area del penalmente rilevante, con la criminalizzazione di comportamenti e fenomeni che riguardano fasce sempre più ampie di popolazione, la contrazione  di interventi di tipo sociale rivolti alle fasce più deboli,  alla riduzione di fatto degl’investimenti di welfare con conseguente accrescimento di fasce di povertà e la riduzione di spazi di democrazia e quel che appare ancora più grave è che questa realtà non riguarda solo l’Italia, ma è una tendenza generalizzata delle società così dette più evolute.

La tipologia di popolazione detenuta è, infatti, per lo più costituita da persone non ritenute idonee per un trattamento esterno o impossibilitate ad accedervi, sia da fattori giudiziari (lunghezza della pena) sia da fattori sociali (assenza di riferimenti esterni ed opportunità lavorative e/o abitative).

Questa situazione richiederebbe una forte politica d’investimento sull’area trattamentale all’interno del carcere, da parte dell’amministrazione penitenziaria nel suo complesso, in realtà, solo recentemente c’è stato un minimo intervento, dopo anni di totale disinteresse, con l’ emanazione di una circolare su quest’area e con il bando di alcuni concorsi per rafforzare gli operatori dell’area pedagogica. Se questo sarà sufficiente lo vedremo, meglio di me ne ha parlato l’altra relatrice….

Terza contraddizione: è evidente che come servizio sociale della giustizia ci troviamo ad operare in questo contesto, proprio quando, per la prima volta nella nostra storia, siamo in espansione e abbiamo assunto una posizione rilevante dal punto di vista numerico, in totale  controtendenza rispetto ai rimanenti servizi sociali, i quali, in gran parte del paese, soprattutto nella forma pubblica, sono in via di  smantellamento. Sembra esserci quindi, una precisa scelta politica volta a destinare risorse al potenziamento del sistema carcerario, visto prevalentemente sotto l’aspetto dell’edilizia penitenziaria e del controllo dei soggetti in esecuzione pena, che prima erano invece orientate allo sviluppo dei servizi sociali, sanitari ed educativi, nonché all’ammodernamento delle strutture della macchina giudiziaria.

 Ci chiediamo cosa possa voler dire questo e temiamo di correre un grosso rischio che è quello di essere forzati ad assumere una natura sempre più diversa da quella originaria, dataci dal nostro mandato istituzionale e professionale.

A questo proposito, infatti ci preoccupano molto alcune proposte di legge in discussione al Parlamento che prevedono l’inglobamento degli operatori penitenziari civili (assistenti sociali, educatori, psicologi ecc.) all’interno del corpo della polizia penitenziaria, ma anche proposte come la legge Meduri finalizzate ad equiparare i dirigenti dell’A.P. alla polizia di stato, dando per acquisito che tutto il sistema penitenziario intra ed extramurario debba rispondere esclusivamente ad un mandato di controllo e di ordine pubblico, in netto contrasto con il dettato dell’art. 27 della Costituzione.

Quarta contraddizione: a fronte della progressiva e ormai indiscutibile rilevanza politico-istituzionale che il settore dell’esecuzione penale esterna ha assunto negli ultimi anni, desta preoccupazione la pressoché totale assenza di un progetto complessivo di rinnovamento e di rilancio, a livello culturale, organizzativo, operativo. Anzi: i segnali che con sempre maggior frequenza si manifestano lasciano intravedere, al di là della loro disomogeneità e incoerenza, il prevalere di visioni, tendenze, logiche che, anziché traghettare il sistema verso il “nuovo”, sembrano delineare scenari regressivi, involutivi e autoritari.

Per quanto concerne più specificatamente l’Esecuzione Penale Esterna (E.P.E.), l’istituzione nel 2000 di una distinta Direzione Generale era stata salutata dagli operatori sociali come un fatto innovativo e positivo, che avrebbe potuto incoraggiare una nuova cultura del penale e delle misure alternative, emancipata dalla logica carceraria e libera da sbarre materiali, mentali, operative. Non sembra tuttavia che tali auspici si siano finora realizzati.

Gli atti amministrativi emanati dal Direttore Generale dell’EPE, stanno di fatto portando ad una riorganizzazione del settore in termini centralizzati e direttivi, attraverso alcuni provvedimenti apparentemente “innocui” su questioni tecniche, amministrative, organizzative, gestionali, che tuttavia incidono pesantemente sulla vita interna dei CSSA:

a) l’enfatizzazione del ruolo e del potere autoreferenziale del livello dirigenziale;

b) la negazione dell’autonomia tecnica e professionale degli assistenti sociali;

c) lo svuotamento dei momenti di consultazione e contrattazione con le OO.SS. nazionali e

    con le RSU locali, previsti dalle leggi e dal CCNL.

A tale proposito va ribadito con estrema chiarezza che la cultura e la metodologia del Servizio sociale, elemento essenziale della Riforma penitenziaria, non possono essere considerate dall’Amministrazione come mero elemento di facciata, da utilizzare strumentalmente soltanto nei limiti in cui si ritiene funzionale e “appropriata” all’esecuzione penale.

Gli assistenti sociali sono da tempo consapevoli che c’è bisogno di orientamenti di politica penitenziaria che apportino cambiamenti e innovazioni organizzative nell’area penale esterna e nei CSSA; ma sono anche consapevoli che un processo di reale cambiamento debba rispettare profondamente la storia del servizio, le sue ragioni istituenti e le culture che lo hanno caratterizzato, che non possono e non devono essere “rase al suolo”. Un processo di autentico cambiamento deve inoltre saper guardare davvero al futuro, evitando di attestarsi su una ripetizione monotona e monocorde di logiche e modelli carcerari, sulla duplicazione di apparati e di funzioni rigide, disciplinari, spacciati per rinnovamento e per modernizzazione.

Riteniamo che un sistema complesso riesca ad essere tanto più efficace quanto più si struttura come un’unità organizzativa flessibile, agile, aperta e permeabile, capace di motivare i propri operatori attraverso scelte condivise e una attenzione costante ai livelli di motivazione e partecipazione delle persone coinvolte, considerate come “risorsa viva e vitale” dell’organizzazione..

Quinta contraddizione: Questa tendenza, ad una riorganizzazione centralistica e direttiva è profondamente in contrasto con la legislazione sociale e sanitaria che richiede uno stretto collegamento tra il CSSA e il territorio di competenza, che consenta quell’integrazione tra servizi locali, comunità e i servizi decentrati dello Stato; integrazione auspicata anche dal nuovo regolamento d’esecuzione l. 230/00 e che ha trovato una sua collocazione teorica e formalizzata nella legge quadro sui servizi sociali integrati, la legge  328/00.

I CSSA, ma anche gl’istituti penitenziari, attraverso la suddetta legge si collocano a pieno titolo nel più generale sistema del “welfare comunity”, pertanto, devono orientare la loro azione, inserendosi in pieno nella programmazione locale dove si decidono le politiche sociali, attraverso lo strumento dei piani di zona. I Comuni, infatti  nella costruzione del Piano di Zona “debbono individuare le modalità per realizzare il coordinamento con gli organi periferici delle amministrazioni statali, con particolare riferimento all’Amministrazione Penitenziaria e della Giustizia” (art 19, comma 1, lettera e).

Un’azione centralizzata, quindi, sui servizi sociali della giustizia, finalizzata all’inclusione sociale dei sottoposti ad esecuzione penale, sia interna che esterna, non ha più ragione di esistere, anche perché vengono a cessare i flussi di finanziamento centralizzati e suddivisi per categorie d’intervento, quindi, anche l’assistenza dei soggetti utenti dei CSSA passa attraverso la programmazione locale, dove vengono allocate le relative risorse finanziarie.

Là dove i servizi periferici dell’A.P. si stanno organizzando secondo questa logica e si stanno dando strumenti adeguati per affrontare un’attività di progettualità concertata e integrata con il territorio si vedono già i primi risultati (es. Monza e apertura del CSSA su finanziamento della conferenza dei sindaci) e i contributi che questi servizi possono dare a livello territoriale sono significativi perché consentirebbero, attraverso il passaggio dal singolo caso al problema e dal problema al fenomeno, una lettura adeguata della devianza nel territorio, quindi l’individuazione delle politiche sociali necessarie per prevenirla. Mi chiedo anche quanto i nostri servizi siano preparati a fare questo salto di qualità.

A mio parere solo così i CSSA e tutto il sistema penitenziario, possono, in concreto,  entrare a far parte del sistema integrato dei servizi ed avere un ruolo nella comunità locale, dando in questo modo sì un contributo alla sicurezza del territorio, attraverso la realizzazione dei programmi d’inclusione dei soggetti in esecuzione penale, operata mediante il positivo esito delle misure alternative, ovvero attraverso la potenziale riduzione della recidiva e realizzando una forma di prevenzione dei reati.

Nel lavoro sin qui svolto per la costruzione e gestione dei processi di aiuto anche alle persone sottoposte ad esecuzione penale, sono stati sempre  evidenti i limiti legati alla mancanza di un sistema unitario di competenze e alla scarsa cultura della concertazione, ai livelli istituzionali, organizzativi, professionali, comunitari.

Per concludere mi sembra opportuno evidenziare alcuni punti fermi necessari al fine d’impedire forme d’involuzione per il sistema dell’esecuzione penale esterna  in particolare e per il sistema penitenziario nella sua globalità:

 

Sulle proposte e disegni di legge Meduri, Pecorella e Ascierto

Si esprime la più ferma contrarietà degli operatori sociali dei CSSA ad ogni processo controriformatore di stampo autoritario, e si invitano i responsabili politici ad adoperarsi per creare le condizioni affinché emerga un dibattito ricco, articolato e partecipato che sappia rispettare la pluralità degli attori professionali e che abbia a cuore la coerenza con i principi costituzionali e con alcune irrinunciabili opzioni culturali.

 

Sulla politica della DGEPE:

Appare assolutamente indispensabile che la DGEPE rinunci risolutamente a contenuti, metodi, messaggi espressione di una visione oligarchica del cambiamento organizzativo e avvii un confronto  democratico con tutti gli interlocutori che faccia emergere idee, critiche e proposte per costruire e rendere patrimonio condiviso un progetto per il rilancio culturale, organizzativo e professionale dei CSSA e dell’esecuzione penale esterna.

 

Sull’autonomia professionale:

Si ritiene che la difesa dell’autonomia professionale sia una questione prioritaria, non tanto come elemento di contrapposizione alle direttive del sistema amministrativo, ma al contrario come contributo positivo alla costruzione di un sistema organizzativo che sappia ospitare e far convivere un pluralismo di idee, culture, metodi e prassi, traendo giovamento dalle intelligenze, dalle capacità e dalle disposizioni delle singole persone e dei singoli professionisti.

 

All’interno del DAP, occorre considerare la possibilità concreta di un inserimento contrattuale della qualifica professionale degli assistenti sociali nell’area dei “professionisti dipendenti”, che offrirebbe maggiori garanzie per coloro che svolgono qualificate funzioni tecnico-professionali previo conseguimento del titolo di studio della laurea e dell’iscrizione ad un ordine professionale.

 

Sull’organizzazione dei CSSA: 

si ritiene necessario lavorare per approntare, a livello di DGEPE e di APE presso i PRAP, un processo di rilevazione di lettura degli elementi di criticità, delle loro cause e dei possibili rimedi, che permettano almeno di intervenire per attenuare il gravissimo disagio professionale e personale dei lavoratori, più volte manifestato ai vertici istituzionali.

Lo strumento principe di un processo di cambiamento che superi la situazione attuale è da molti anni stato individuato dagli operatori dei CSSA in una supervisione professionale e organizzativa condotta da esperti esterni e qualificati al compito, che inseriscano all’interno dei contesti organizzativi elementi di consapevolezza dei processi, dei problemi, delle dinamiche, dei possibili cambiamenti organizzativi. Occorre a tale proposito creare le condizioni perché maturi, come progetto del DAP e dell’ISSP, la sperimentazione di una supervisione professionale e organizzativa nei CSSA, similmente a quanto sta avvenendo nelle èquipe penitenziarie con il progetto Pandora.

Accanto alla supervisione, non va certo sottovalutata la necessità di approfonditi percorsi formativi di reale riqualificazione dei direttori, che offrano consapevolezza dei problemi, strumenti e metodi per affrontarli, tenendo conto che i CSSA sono strutture organizzative “complesse” che necessitano di respiro, immaginazione, progettualità.

Per quanto concerne il restante personale di servizio sociale e amministrativo, va sottolineata la necessità di continuare a sperimentare percorsi di formazione permanente che mettano in connessione teorie e prassi operative, che supportino la possibilità di elevare il livello qualitativo degli interventi, inserendoli in una più ampia cornice progettuale e organizzativa.

Vanno trovate soluzioni per far fronte  ai cronici problemi di carenza di personale amministrativo e di servizio sociale nei CSSA, aggiornando piante organiche che non tengono conto della reale entità dei carichi di lavoro.

Allo stesso modo, è urgente affrontare la cronica e sempre più accentuata carenza di risorse economiche e materiali che riguarda vari aspetti:

per il sistema informativo per l’automazione dei CSSA (SI-CSSA), occorre evitare che esso incida negativamente sull’organizzazione del lavoro, appesantendo le mansioni e i compiti di registrazione da parte degli operatori e incrementando forme ulteriori di controllo, oltre ai problemi relativi alla violazione della privacy che esso presenta, e che devono essere tempestivamente risolti.

Va considerata con attenzione e con apertura la possibilità di inserimento nei CSSA di altre professionalità che supportino e integrino la qualità degli interventi professionali (criminologi, psicologi), senza alterarne la natura e senza ricalcare modelli e logiche carcerarie o custodialistiche

Resta sempre sullo sfondo di tutti i problemi delineati e delle possibili soluzioni la necessità non più rinviabile che i CSSA godano di una piena autonomia amministrativo-contabile, al fine di potersi costituire come strutture del tutto sganciate dalla cronica dipendenza dall’istituzione carceraria, secondo un modello organizzativo che è da tempo auspicato e oggi ormai indispensabile.

 

Sulla gestione delle risorse umane e professionali nei CSSA e nei PRAP

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In coerenza con i processi di riqualificazione, è necessario che si creino le condizioni per una effettiva valorizzazione delle funzioni gestionali, organizzative, di coordinamento, di programmazione degli operatori inseriti ai diversi livelli, evitando l’appiattimento verso il basso di compiti e mansioni e favorendo il maggior coinvolgimento possibile del personale tutto nei progetti  e nelle scelte organizzative.

 

L’articolazione e la distribuzione degli incarichi funzionali e dei compiti operativi tra gli operatori dei vari livelli C1-C2-C3 deve essere frutto di scelte razionali, oculate, trasparenti, formalizzate, e non deve lasciare spazio a favoritismi, arbitrarietà, discriminazioni.

 

E’ opportuna la creazione e la strutturazione efficiente di “pool di servizio sociale” all’interno dell’APE nei PRAP e all’interno della stessa DGEPE, coinvolgendo in maniera più estesa e fattiva gli assistenti sociali disponibili ai vari livelli funzionali, trovando anche forme e tipologie flessibili di incarico a part-time o a progetto, per la costruzione partecipata delle politiche dell’area penale esterna.