Educatori: progetto pedagogico e sinergia di interventiRelazione di Anna Greco
Ritengo sia doveroso ringraziare la CGIL F FP per l’opportunità che oggi ci offre di un confronto sulle tematiche penitenziarie e in particolare sul ruolo dell’Educatore. Questa figura, rispetto alle altre che operano nel corso dell’esecuzione penale, e che comunque soffrono complessivamente di quel processo di rimozione culturale che riguarda tutto l’universo carcerario, viene ancor più raramente menzionata dai mass-media, da politici e istituzioni, dalle riviste scientifiche. Rispetto all’organico di Polizia Penitenziaria, integrato periodicamente da concorsi pubblici e interni, rispetto a quello degli Assistenti Sociali, giustamente potenziato nell’ambito degli mutamenti legislativi degli altri anni che hanno trasferito parte dell’esecuzione penale all’esterno, quello degli educatori è perso per molto tempo destinato inesorabilmente a “prosciugarsi”. A riprova di una limitata e residuale attenzione per l’area Trattamentale degli Istituti, che ha colpito significativamente la figura dell’educatore, determinando soprattutto in alcune regioni del nord condizioni lavorative drammatiche, basti ricordare che solo dopo 15 anni sono stati banditi nuovi concorsi e nelle prossime settimane avranno inizio le prove per l’assunzione a tempo determinato (12 mesi) di 50 educatori. In tanto i percorsi di riqualificazione interni, determinando il passaggio di quasi tutti gli educatori nella posizione economica C-2 o C-3, o nel ruolo professionale di psicologo, hanno creato figure direttive per lo più impossibilitate a svolgere compiutamente le funzioni previste dall’accordo contrattuale, in assenza di educatori C1. E’ naturale che, in una situazione di tale criticità accentuata dalla necessità di conciliare nuovi ruoli e figure con le precedenti mansioni e prassi operative spesso obsolete, da parte dei lavoratori e delle organizzazioni sindacali sia stato richiesto con insistenza l’espletamento delle procedure riguardanti il passaggio nella figura professionale di educatore C-1 del personale proveniente da altri rami tecnici della stessa Amministrazione (la cosiddetta Area B). Ciò non toglie che, di fatto, l’Amministrazione Penitenziaria si trovi al dì fuori del circuito culturale sia europeo che di altri settori pubblici del Paese (si pensi ai Comuni e alle ASL) dove per l’accesso al ruolo dell’educatore è ritenuta indispensabile la laurea specifica, sovente integrata da una mirata attività di “tirocinio” e da percorsi di orientamento psicoterapeutico. Vale la pena poi di ricordare che a tutt’oggi non esistono un ordine e un albo che regolamentino l’esercizio della professione. Eppure la figura dell’educatore, introdotta dalla legge di riforma penitenziaria, assume nell’ambito di questa un rilievo di grande centralità, con le funzioni prioritariamente rivolte (come osservano Di Gennaro, Breda, La Greca, “ad obiettivi di consolidamento motivazionale, di sostegno e di rilascio delle energie personali positive, di incoraggiamento dei sentimenti di responsabilità ed impegno”. L’educatore è, nelle intenzioni del legislatore, il principale attore del progetto di comunicazione con il detenuto, il primo veicolo dell’offerta trattamentale, nonché uno dei maggiori protagonisti di quella che da più parti è stata definita “ideologia penitenziaria”. Eppure gli educatori sono stati finora numericamente dimensionati ad attestare la semplice ottemperanza al dettato normativo che prevede l’esistenza di un’attività trattamentale nel carcere. Impossibilitati, per enorme disparità tra risorse e obiettivi istituzionali, nonché per mancanza di una progettualità organica e definita, ad una valutazione dei reali bisogni dei detenuti, hanno lavorato per anni nell’emergenza, subendo l’appiattimento del modello rieducativo su una logica premiale, divisi tra la consapevolezza di un mandato istituzionale che li pone in un “rapporto diaologico” con ogni ristretto e la necessità di rivolgersi prioritariamente ai detenuti in possesso dei requisiti necessari per accedere alle misure alternative. Eppure, nonostante l’eterogeneità delle formazioni scolastiche e culturali di base, nonostante il conflitto tra la percezione delle carenze strutturali e organizzative e la consapevolezza delle proprie funzioni, gli educatori hanno sviluppato negli anni una reale professionalità sul campo, “assimilando responsabilmente nel proprio ruolo l’assunto dell’umanizzazione delle pene” (come osserva Giampiero Sartarelli nel libro “Pedagogia penitenziaria della devianza”), riducendo l’inevitabile impatto della detenzione sulla riduzione dei diritti, concorrendo a garantire il principio di legalità. Va dato merito alla Circolare sulle Aree Educativa 3593 del 9/10/03 della presa d’atto di una mancanza di un’ottica progettuale, (già peraltro evidenziata dalla precedente circolare 3554/6004 del maggio 2001), di un organico inadeguato (si rilevavano 474 educatori effettivamente presenti in Istituto, a fronte di 55.682 detenuti, il 10 sett. 2003), di una frammentazione di interventi lasciati alla iniziativa e alla professionalità dei singoli operatori, di una burocratizzazione delle prassi operative che svuota di significato l’idea di osservazione e programma di intervento individualizzato, riducendoli a semplici adempimenti. Non si può non concordare con la necessità di “rivitalizzazione delle Aree Educative”, in linea con le direttive sull’ordinamento penitenziario, confermato dal nuovo regolamento di esecuzione, con la valorizzazione della peculiarità delle figure dell’educatore e del Responsabile d’Area, dei rispetti ambiti di autonomia. Sappiamo che questo in particolare è un problema spinoso, ancora lasciato alla discrezionalità delle singole Direzioni, e veramente appare difficile concretizzare quanto previsto dal Contratto Integrativo riguardo a queste figure professionali, in mancanza di direttive chiare, di risorse tecniche ed umane, di una reale volontà di cambiamento del contesto organizzativo. Soprattutto non si può, tornando alla circolare, non condividere la consapevolezza che la complessa realtà dell’esecuzione penale può essere affrontata solo nell’ottica di una sinergia di risorse e di interventi sia nell’ambito dell’Amministrazione che nei rapporti di questa con la società libera, per dare risposte concrete e articolate ai bisogni, evitando dispersioni e sovrapposizioni di interventi, parallelismi di iniziative, confusioni di ruoli e modalità operative. Perché tuttavia questi obiettivi, apprezzabili e condivisi, non si rivelino un mero proposito cui rispondere con l’elaborazione di un progetto pedagogico che rischia di divenire un altro adempimento formale, occorre dare spessore e concretezza a questa dichiarata volontà di cambiamento assumendosi la responsabilità di una coerenza di scelte e di indirizzi. Ancor prima, bisogna procedere ad una riflessone su quello che può essere oggi il trattamento penitenziario, e a quale tipologia di utenza è destinato.Il Trattamento previsto dalla Riforma, collegandosi all’idea di una pena che, privando della libertà deve avere una funzione di riabilitazione, è connotato fin dall’inizio di una strutturale problematicità, coniugando l’idea della segregazione con quella del reinserimento. Si ispira nella concezione del legislatore ad un modello di tipo psichiatrico, ad un’idea della criminalità o devianza come patologia psico sociale che nel carcere va compresa nelle sue cause e “curata”. Pur con i suoi limiti, e le sue ingenue speranze di riabilitazione, è un modello di tipo inclusivo perché cerca di ridurre, colmare le mancanze che hanno determinato l’azione deviante. Il passo successivo è stato di ritenere che la devianza fosse un problema sociale da gestire come la malattia, la follia, altri tipi di disagio. Quest’idea presuppone uno stato sociale forte che si faccia carico di chi ha scelto o dovuto scegliere l’illegalità, e quindi il trattamento più che alla rieducazione tende alla valutazione prognostica del percorso di alternatività, in un’ottica di premialità che apre alla speranza e intento permette un miglior governo degli Istituti. E’ la rivoluzione della legge Gozzini, che in linea con la finalità di recupero prevista dalla Costituzione, ha offerto nelle intenzioni uguali opportunità a tutti, ma ha finito per favorire le categorie di soggetti più forti, psichicamente meglio strutturati, più dotati di capacità personali, strumenti culturali, riferimenti socioaffettivi. A questo si aggiunge che oggi, in più parti del mondo, i processi di trasformazione sociale e la crisi delle politiche del Welfare fanno venir meno le condizioni per un modello inclusivo, concorrono a far sì che il carcere divenga il mezzo privilegiato di controllo sull’area di esclusione sociale. Così, la nostra popolazione carceraria è composta perlopiù da tossicodipendenti, immigrati, portatori di disagio psichico, persone senza fissa dimora, ai margini della società, destinati a cronicizzarsi nel percorso della devianza, con evidenti ripercussioni negative sul problema della sicurezza tanto demagogicamente sbandierato. Si impone allora la necessità di un confronto, non solo interno all’Amministrazione, ma il più possibile allargato, nel rispetto di ruoli e competenze, ad operatori del sociale, enti e istituzioni, per ridefinire alla luce di questa nuova realtà gli obiettivi trattamentali, dando concretezza di contenuti ai progetti pedagogici, non lasciando i singoli Istituti nell’isolamento di interventi dettati dall’urgenza e nella precarietà di soluzioni che si esauriscono nell’arco delle pur numerose iniziative ministeriali, sul cui prosieguo e rinnovo aleggia sempre quel cronico senso di attesa e incertezza che aggiunge precarietà nella precarietà. Sicuramente sono necessari un investimento e una pianificazione economica seria, che non costringa gli Istituti a riprogrammare continuamente attività e servizi, perfino quelli prioritari per la salute e l’integrità psicofisica dei detenuti (basti ad esempio citare la riduzione del monte ore degli esperti ex art. 80 per l’attività di osservazione e il presidio Nuovi Giunti). Così non si può non pensare ad una “riformulazione” contenutistica e metodologica, di quelli che pure continuano ad essere i principi cardini del trattamento e gli elementi costitutivi del progetto pedagogico: tra questi, sicuramente il lavoro, l’istruzione e la formazione. Riguardo al primo, occorre prendere atto che un lavoro interno che non sia meramente domestico è fortemente ostacolato dalla mancanza di spazi e strutture tipica di un edilizia penitenziaria incentrata sui problemi di sicurezza. Sia per questo, che per il lavoro esterno, le possibilità occupazionali sono irrisorie rispetto ai bisogni, per lo più di basso livello qualitativo e assolutamente ridotte come tipologia. Riflettiamo tutti quotidianamente sull’incongruenza di un sistema che subordina la concessione di misure alternative alla capacità del detenuto e della sua famiglia di reperire possibilità, che spesso si risolvono in offerte di lavoro di carattere strumentale, ma formalmente rispondenti ai requisiti di stabilità che peraltro appaiono sempre più irrealizzabili, nel concreto, in un mondo del lavoro caratterizzato da crescente precarietà. Per non parlare dell’esiguità dei rimborsi delle Borse Lavoro o dei Tirocini forniti da Enti vari, esiguità sovente non compensata da una corrispettiva valenza formativa. Bisogna poi considerare che le fasce orarie tradizionalmente previste dalle esigenze di sicurezza per le misure alternative mal si adattano alle regole del mercato del lavoro e alle offerte di alcuni tipi di attività (e forse su questo, nell’ottica di un trattamento realmente individualizzato, si potrebbe aprire un positivo confronto). Si pensi a quali insormontabili difficoltà possono incontrare quei detenuti che, abbiamo detto prima, popolano per la maggior parte i nostri Istituti e appartengono alle fasce più deboli della popolazione. Si pensi a tutte quelle persone ristrette per reati connessi alla tossicodipendenza che sovente non hanno mai avuto esperienze lavorative, né una formazione adatta al mondo del lavoro, e sono caratterizzati da un percorso di vita esclusivamente dominato dalla necessità di procurarsi la sostanza. Si pensi all’enorme numero di detenuti stranieri, al modo in cui leggi come la Bossi-Fini intervengono su un percorso migratorio regolare; ma anche per quella minoranza non destinata alle espulsioni, è evidente l’enorme difficoltà di accesso alle possibilità di trattamento intra ed extramurario. Non si può più pensare ad una programmazione che non si avvalga di un servizio di mediazione culturale stabile e organizzato. Sia per il lavoro, che per l’istruzione e la formazione, gli strumenti di cui disponiamo appaiono obsoleti. È evidente che un’attività trattamentale rivolta a questa fascia di utenza deve prevedere una collaborazione con vari Enti, Agenzie di Formazione, Forze dell’Ordine, Autorità Consolari, per giungere alla formulazione di percorsi di reinserimento che includano anche rientri positivi in patria, per progettare corsi di formazione mirati a competenze spendibili nei paesi d’origine, di durata più breve e struttura più snella, in considerazione dei periodi di permanenza dei destinatari. Così, deve essere riprogrammata l’attività didattica, che non può più essere basata solo sui tradizionali corsi scolastici lunghi, soprattutto negli Istituti caratterizzati da un elevato turn over annuo. Vanno incoraggiate e raccordate a livello regionale e nazionale iniziata come quella sperimentalmente avviata nella C.C. di Torino, (cosiddetto “Progetto Rotazione”), strutturata sui percorsi di accoglienza e orientamento di breve durata, con l’obiettivo di fornire a detenuti difficilmente raggiungibili da altre offerte trattamentali gli strumenti necessari per l’accesso ai servizi del carcere, e la possibilità di arrivare nelle nuove sedi di destinazione con un “libretto personale” contenente i suggerimenti per il percorso successivo. Ancora una volta si rimanda alla necessità, comune a tutta l’Area Trattamentale, di una sinergia intanto tra le diverse realtà dell’Amministrazione, per non ricominciare ogni volta un nuovo percorso ma ottimizzare le risorse e le esperienze disponibili, poi tra Amministrazione Penitenziaria e tutte le forze politiche, sociali, l’enorme risorsa del volontariato, soprattutto per un’attenta rilevazione dei bisogni formativi e occupazionali, per l’elaborazione di un quadro di obiettivi, per l’informazione e la sensibilizzazione della pubblica opinione, per la maggiore conoscenza di strumento come la legge Smuraglia, per la circolazione delle informazioni, rispetto ai vari progetti, tra servizi esterni ed interni al carcere, per la creazione di sportelli informativi e strutture di accoglienza. L’Amministrazione deve concretamente sostenere questo tipo di progettualità, non solo lì dove risorse economiche e orientamenti politici e culturali hanno già contribuito alla nascita di Enti, organismi e strutture nell’ottica di un carcere “servizio tra i servizi”, ma soprattutto nelle realtà meno fortunate e meno dotate di sensibilità sociale per i problemi dell’esecuzione penale e del reinserimento, favorendo iniziative tese ad una maggiore conoscenza e integrazione tra carcere e territorio, coinvolgendo i mezzi d’informazione che invece continuano a privilegiare i cosiddetti “poli d’eccellenza”, programmando stabilmente attività di sensibilizzazione nelle scuole e in altri settori della società civile. A tutto ciò deve ovviamente corrispondere una seria e consapevole politica del personale, che si faccia carico di una formazione permanente ed integrata tra operatori interni ed esterni al carcere, strumento indispensabile per sviluppare le capacità di lavorare insieme, di perseguire obiettivi comuni, di gestire il cambiamento, di garantire la qualità dei servizi. Occorre proseguire nell’esperienza delle iniziative di aggiornamento e supervisione, e si deve considerare seriamente la richiesta, già espressa dagli educatori, dell’istituzione dell’anno sabbatico, peraltro già previsto per categorie professionali meno esposte a fattori di stress. Occorre una concreta valorizzazione del prezioso capitale di risorse umane di cui l’Amministrazione Penitenziaria dispone: l’esperienza insegna che negli Istituti in cui si sono creati gruppi di lavoro stabili, composti da personale di polizia penitenziaria, educatori, esperti ex art. 80, assistenti volontari, nell’ottica di un approccio integrato che ovviamente si avvale per gli interventi di competenza degli assistenti sociali e altri operatori, si è riusciti a limitare le conseguenze delle drammatiche carenze di organico, si è migliorata la comunicazione, si sono snellite le procedure, si è riusciti ad intervenire significatamene sul fenomeno dell’autolesionismo. La conoscenza reciproca, la condivisione di obiettivi comuni, l’elaborazione congiunta di nuove modalità operative hanno contribuito ad appianare differenze culturali ed ideologiche e hanno dato una scrollata a ciò che restava di antichi pregiudizi. Questa può essere una strada per affrontare la drammatica precarietà del carcere: è una strada che richiede sforzo, tempo e capacità di guardare al di là dell’emergenza. È una strada che merita attenzione e risposte diverse dall’assunzione di personale a tempo determinato.
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