Fp Cgil Nazionale

Convegno " Donne nella Polizia penitenziaria "

LE DISPARI OPPORTUNITA'

CONVEGNO SULLE PARI OPPORTUNITA’

Intervento di Carla CIAVARELLA

 

Nel settembre del 1990 iniziai a lavorare alla Scuola di formazione di via Giulia. Il primo incarico che mi fu affidato riguardava un corso di aggiornamento per le allora vigilatrici penitenziarie in servizio presso la Casa Circondariale di Rebibbia femminile. L'iniziativa, ricordo, era stata decisa dall'allora Direttore Generale Amato, a seguito di incontri avuti con le OO.SS. e con la direzione dell'istituto. L'obiettivo era quello di migliorare il clima operativo all'interno del carcere (i rapporti tra il personale) e, attraverso tale percorso, di migliorare la qualità delle prestazioni, quindi anche i rapporti con la popolazione detenuta, naturalmente, di sesso femminile. Era la prima volta che una iniziativa di aggiornamento professionale era indirizzata, nello specifico, a personale che operava nello stesso luogo di lavoro e che apparteneva allo stesso profilo. La Scuola di formazione, dal momento della sua istituzione, si era occupata di formare il personale "civile" neo-assunto e quindi anche del personale appartenente al ruolo delle vigilatrici penitenziarie per il quale era stata introdotta la procedura concorsuale.

Prima di allora è a tutti noto che il personale in servizio presso le sezioni femminili era prevalentemente personale assunto a tempo determinato, di tre mesi in tre mesi. Il personale trimestrale arrivava in sezione dopo un colloquio con il direttore dell'istituto. L'acquisizione delle conoscenze relative alle modalità di svolgimento del servizio, si realizzava direttamente sul posto di lavoro, anche e, naturalmente, commettendo errori. Progressivamente nel corso degli anni '80 il ruolo delle religiose era stato assorbito da questa nuova figura professionale, ma era difficile cancellare un "modus operandi" assistenziale, confessionale, che se pur agito in assoluta buona fede, non assicurava la corretta gestione dei servizi.

Le vigilatrici e le vigilatrici superiori, non riuscivano a guadagnarsi la fiducia dell'istituzione: frequentemente in lite tra loro, con difficoltà di comunicazione e di comprensione delle problematiche connesse alla funzione operativa svolta, spesso, loro stesse si sentivano più vicine, emotivamente, alle donne detenute che alle colleghe. Esisteva una compiacente sottomissione al comandante degli AA.CC. (amato ed odiato), che disponeva, spesso su richiesta delle stesse operatrici, l'intervento degli agenti di custodia all'interno delle sezioni detentive, quando c'erano, o si paventava la possibilità che si potessero verificare, accadimenti tali da arrecare pregiudizio all'ordine ed alla sicurezza. Esisteva un problema di identità di ruolo e di funzioni, di attribuzioni, di compiti e di competenze...e le vigilatrici manifestavano la difficoltà di acquisire una immagine professionale indipendente. Dalla fine degli anni ‘70, anche il carcere era cambiato. L' utenza si era trasformata la popolazione detenuta aveva assunto connotazioni nuove, più impegnative. Il livello culturale delle detenute era cresciuto. Erano gli anni della lotta armata e quindi delle detenute politiche che imponevano una interlocuzione con loro complessa; occorreva fare loro fronte con competenza e determinazione, non si poteva subire il condizionamento culturale e la sottomissione psicologica. Così come occorreva attingere a nuove risorse professionali per la gestione delle detenute tossicodipendenti, per le problematiche anche sanitarie delle quali erano portatrici. Le vigilatrici affrontavano questi cambiamenti con il buon senso e con quanto avevano appreso dall' esperienza, ma non era sufficiente e l'organizzazione penitenziaria continuava a sostenere che la gestione degli istituti femminili manteneva livelli elevati di criticità. Si era così proceduto alla determinazione delle piante organiche, necessarie per assicurare i servizi di vigilanza all'interno degli istituti e delle sezioni femminili. La procedimentalizzazione delle modalità di assunzione e l'espletamento dei concorsi pubblici diedero l'avvio al processo di trasformazione del ruolo, per il quale veniva anche prescritto un periodo di formazione iniziale di tre mesi.E la formazione al ruolo svolta in quegli anni, presso la scuola di via Giulia, aveva consentito di cogliere tutte le problematiche e le contraddizioni che vivevano queste operatrici...ma nel frattempo erano maturi i tempi della riforma del 1990... Con l'istituzione del Corpo di Polizia Penitenziaria, intento del legislatore era quello di realizzare una pari dignità di attribuzioni e di competenze per gli uomini e le donne e conseguentemente una elevazione delle capacità professionali degli operatori preposti alla cura degli istituti detentivi. La selezione ed il reclutamento, che nel corso di questi anni sono stati realizzati attraverso percorsi valutativi hanno comportato una crescita del livello culturale del personale e, quindi, una legittima attesa al miglioramento delle prestazioni. Alla selezione ha fatto poi seguito la formazione di sei mesi, all'interno della quale i programmi didattici e la strutturazione di periodi di esperienza sul posto di lavoro hanno consentito di avviare quel processo di professionalizzazione, che era l'obiettivo sotteso della riforma del 1990. Credo, che solo con questo evento l'Amministrazione Penitenziaria abbia iniziato a comprendere l'eterosessualità del ruolo della Polizia Penitenziaria, dovendo, di fatto, predisporsi ed attrezzarsi per tutelare e garantire ad entrambe le componenti pari attenzione.

Le difficoltà nell'adempiere tale mandato sono passate attraverso questioni di diversa natura ed entità: dall'approvvigionamento del vestiario, alla creazione di idonee sistemazioni nelle caserme, all'assegnazione agli istituti e all'attribuzione di compiti operativi . E' vero, la legge stabilisce che il personale di servizio nei reparti detentivi deve essere dello stesso sesso delle persone ristrette, ma tale disposizione ha ingenerato interpretazioni molto restrittive, tanto da creare dei veri abusi all'interno delle singole realtà penitenziarie, prevalentemente nei confronti delle donne appartenenti al Corpo.

Tutti voi ricorderete perfettamente il primo concorso pubblico a 1200 posti nel ruolo di Agente svolto nel 1995: quel concorso, a mio parere, possiede per gli elementi di novità in esso contenuti, le caratteristiche per essere ricordato come evento ed entrare, quindi, come tale nella storia della nostra organizzazione. Dico questo perché, per la prima volta, insieme, ragazzi e ragazze, provenienti da storie, percorsi, vissuti diversi si trovavano gli uni accanto alle altre, per affrontare una esperienza di apprendimento al lavoro: il lavoro nell'ambito dell'amministrazione penitenziaria come agenti.

I ragazzi e le ragazze, allievi agenti, insieme, con la stessa uniforme sedevano nelle aule, partecipavano alle esercitazioni, sperimentavano l'approccio al ruolo di Polizia Penitenziaria che avevano scelto di rivestire. Il livello culturale complessivo era elevato: tutti erano diplomati, molti seguivano i corsi universitari, alcuni erano già laureati, altri ancora laureandi. La Scuola sentiva di essere partecipe e cooprotagonista di questa dimensione innovativa; sapeva che questa nuova onda avrebbe prodotto interessanti riflessi all'interno degli istituti penitenziari, sapeva anche che gli effetti non sarebbero stati immediati e che molti dei ragazzi avrebbero pagato un prezzo, per il loro modo di essere e di proporre una nuova immagine del ruolo. I programmi formativi non includono e non propongono situazioni di disparità.Va sottolineato, al contrario, come il rendimento e l'apprendimento abbia registrato brillanti risultati per le ragazze, piuttosto che per i ragazzi. Nei corsi di formazione per neo assunti sono state la ragazze a collocarsi prime nelle graduatorie di merito. Nel corso dei mesi trascorsi alla Scuola il clima e i rapporti tra i ragazzi e le ragazze era incentrato sempre al rispetto, alla collaborazione e al sostegno reciproci. Un clima da "college ", da laboratorio operoso dove, la condivisione degli obiettivi facilitava i rapporti e non lasciava trasparire atteggiamenti di pregiudizio tra i neo-agenti. Ricordo che in occasione della trattazione in aula delle tematiche sulle pari opportunità, spesso i ragazzi facevano interventi per manifestare contrasto e sdegno nei confronti di comportamenti professionali impari, che potevano essere assunti nei confronti delle colleghe e affermavano increduli che il problema non poteva esistere e promettevano che, ove fossero stati testimoni di abusi ai danni delle colleghe, le avrebbero difese e sostenute. Qualcuno, ancora oggi, continua ad affermare che la scuola non rappresenta concretamente la realtà degli istituti. La formazione sta facendo di tutto per avvicinare il più possibile la rappresentazione teorica dell'organizzazione, con quella concreta e operativa...ma è difficile, se non addirittura impossibile, rappresentare realtà manifestamente contrarie ai contenuti normativi.La scuola può allenare i neo-assunti a gestire la complessità del proprio ruolo nella complessa dimensione organizzativa, che l'istituto penitenziario rappresenta, ma non può prospettare situazioni che vanno oltre una prevedibile realtà! Con questo non desidero assolutamente "denunciare" possibili irregolarità, che vengono compiute, spesso anche inconsapevolmente, ai danni di operatori penitenziari. Se vi sono situazioni inerenti la gestione delle risorse umane spesso non perfettamente rispondenti alle disposizioni normative, forse le responsabilità vanno ricondotte alla resistenza fisiologica che c'è al cambiamento. Cambiare significa modificare, e, per molti, significa anche perdere, lasciare ipotetici ambiti di potere conquistati con fatica; per contro, cambiare significa rigenerarsi, rimettersi in discussione, confrontarsi e crescere. Forse è davvero difficile e forse occorre che questi valori assurgano a cultura dominante all'interno della nostra organizzazione e non restino mere petizioni di principio appannaggio di pochi. L'Italia è un grande paese e gli istituti penitenziari al loro interno possiedono grandi risorse, che spesso, però, non vengono valorizzate per timore di sconvolgere equilibri e di turbare suscettibilità. Voglio invece dire che un corso di formazione al ruolo, se da un lato aiuta e sostiene il neo-assunto nel percorso di conoscenza del proprio ruolo, non lo sostiene nel promuovere i processi di cambiamento all'interno delle singole realtà penitenziarie. Sappiamo tutti cosa succede e io stessa ho ricevuto tante testimonianze di ragazzi e di ragazze, che mi hanno raccontato commossi la difficoltà di lavorare in istituto, di riuscire a dare un senso compiuto alla propria attività. I giovani hanno grandi entusiasmI e desiderano svolgere bene il proprio compito, lasciano la Scuola con grandi aspettative, con timori e con la consapevolezza che dovranno agire nel rispetto delle regole, muoversi con umiltà senza attribuire giudizi di valore ai colleghi, sopratutto quelli più anziani, e poi...con il tempo, quando tornano a salutarmi, qualcuno di loro preferisce addirittura omettere di raccontare l'esperienza operativa, altri riferiscono di aver incontrato difficoltà anche a collaborare nello stesso posto di lavoro, raccontano di ingiustizie, di delusioni, di umiliazioni. Non sono dati generalizzati, naturalmente, ci sono giovani che non passano più a salutarmi e quando per caso li incrocio, mi rendo conto del perchè: si sono lasciati omologare a comportamenti e ad atteggiamenti che una certa parte del nostro contesto professionale riconosce e quindi accetta. Questo vale per tutti: sia per gli uomini, che per le donne. Per le donne tuttavia c'è l'aggravante specifica di essere donne e di fare sempre una fatica quintuplicata per dimostrare di essere brave, intelligenti affidabili. In termini personali per fare questo si continua a pagare un prezzo altissimo, perchè, mentre la giovane operatrice cerca di impegnarsi nel suo lavoro, cercando di mettere da parte la propria dimensione femminile,(questo può essere uno degli strumenti utilizzati),,arriva il gagliardo collega che può sottrarle una collocazione operativa, prenderla in giro, non accettare di lavorare al suo fianco in un posto di servizio e ancora rifiutarsi di prendere ordini da lei (anche se più alta in grado) fino a sentirsi autorizzato a fare complimenti non richiesti, o, addirittura, ad allungare le mani !!!! E non sempre il gagliardo collega viene censurato, anche perchè spesso le donne preferiscono tacere e gestire da sole l'umiliazione....spesso convinte che fare il rapporto non serva a nulla. Sapete tutti che non sto esagerando e che si tratta di episodi accaduti. Che fare? quali le soluzioni adottabili? Io non posso che continuare ad affermare che occorre crescere, cambiare la cultura e il modo di pensare. E per fare questo occorre tanta attività formativa, non solo presso le scuole di formazione e non solo per i neo-assunti, ma anche nelle sedi di servizio, sul posto di lavoro, dove è possibile promuovere il confronto e implementare la cultura del rispetto, della collaborazione e della condivisione degli obiettivi. Sul posto di lavoro emergono i problemi: nell'aula dentro l'istituto è possibile esercitarsi ed imparare ad individuare soluzioni. Imparare e discutere di questioni operative seguire e riconoscere il ruolo di un docente, al quale attribuire la funzione di facilitatore, servirebbe di certo ad "accendere la luce dei pensieri " che molte volte resta spenta per volontà e determinazione. Non serve o meglio non è sufficiente che la promozione e lo sviluppo di nuovi ragionamenti sull'istituzione, passi solo attraverso interlocutori privilegiati: i vincitori dei concorsi per neo assunti ovvero nei confronti di personale che ha superato la qualificazione a nuovo ruolo...questo personale possiede già una motivazione al cambiamento e segue con entusiasmo le proposte formative Serve raggiungere tutti, e per fare questo non è possibile aspettare che prima o poi passino per la Scuola...occorre incontrare il personale nei luoghi di lavoro, ascoltare il loro vissuto, le loro difficoltà, facilitarli nell'ascolto reciproco e promuovere attraverso tali momenti di confronto, soluzioni alle difficoltà incontrate nello svolgere un determinato servizio, nella comunicazione con il collega e/o con il superiore gerarchico. Mi piacerebbe sperimentare questa metodologia quì a Rebibbia perchè forse tutte le Signore anche presenti in questa sede potrebbero iniziare un sano percorso di auto critica produttivo di effetti.. Si, tutto quello finora detto corrisponde a verità: esiste una cultura maschilista che nella nostra organizzazione resiste ed insiste più che in altre realtà, ma esiste anche un modo di operare e di interpretare il ruolo che non è affatto compatibile con il percorso della conoscenza, della riconoscibilità e del rispetto. Molto del cambiamento, care Signore, passa attraverso il nostro modo d'essere, rappresentato dal comportamento professionale dall'attendibilità delle azioni che si compiono, dal rispetto per il lavoro delle altre colleghe e soprattutto dalla sospensione dei giudizi e dei "gossip" che grazie al contributo di molte circolano all'interno degli istituti spesso rendendo partecipi anche le detenute. Care Signore, un pò di autocritica sana e costruttiva dobbiamo farla nella consapevolezza che anche noi siamo artefici del nostro destino ...certo l'amministrazione penitenziaria deve segnatamente esprimere impegno ed interesse per colmare gli svantaggi tra gli uomini e le donne che lavorano al suo interno, ma anche le donne, consapevoli del pregiudizio esistente, non devono continuare ad alimentarlo. Credo che non si debba più ricorrere alle protezioni dei capi di turno..credo che si possa lavorare nella certezza di essere portatrici di valori professionali in tutto uguali a quelli dei "maschietti" la pari dignità di compiti e di attribuzioni va esercitata, agita, resa visibile. Non vittime della cultura maschile dominante ma protagoniste propositive di un percorso orientato alla crescita della nuova cultura del rispetto della diversità,della solidarietà, dell'impegno e della motivazione al raggiungimento del risultato, del coraggio a dire no !

Capita ancora oggi che alcune signore siano convinte che mostrare condiscendenza nei confronti del capo di turno le protegga e le sostenga nelle difficoltà del lavoro. Probabilmente esiste una errata convinzione: quella di non avere altra scelta.! Su questo fronte è necessario muovere azioni significative di impegno e solidarietà ed è necessario vigilare e non criticare; è necessario comunicare e non giudicare ed emarginare la collega. Favorire la cultura dello sviluppo della comunicazione e del confronto all'interno degli istituti penitenziari, attraverso le prospettate iniziative di formazione sul posto di lavoro, avrebbe il vantaggio di ridurre i rischi di disagio e di strategica assenza dal servizio; consentirebbe il dialogo tra posizioni contrapposte; avvicinerebbe le persone alle idee; agevolerebbe la gestione del personale e forse consentirebbe lo sviluppo di una istituzione meno sanzionatoria, ma più collaborativa e dialogante.

Roma, 9 aprile 2001