Dipartimento Funzione Pubblica
Prot. n. 5657 Roma, 15 luglio 2004 CIRCOLARE n. 4
Alla Presidenza del Consiglio dei Ministri Segretariato generale Roma
Alle Amministrazioni dello Stato anche ad ordinamento autonomo Loro Sedi
Al Consiglio di Stato Ufficio del Segretario generale Roma
Alla Corte dei Conti Ufficio del Segretario generale Roma
All’Avvocatura generale dello Stato Ufficio del Segretario generale Roma
Alle Agenzie Loro Sedi
All’ARAN Roma
Alla Scuola Superiore della Pubblica Amministrazione Roma
Agli Enti pubblici non economici (tramite i Ministeri vigilanti) Loro Sedi
Agli Enti pubblici (ex art. 70 del D:Lgs n. 165/01) Loro Sedi
Agli Enti di ricerca (tramite il Ministero dell’istruzione dell’Università e della ricerca) Roma
Alle Istituzioni universitarie (tramite il Ministero dell’istruzione dell’Università e della ricerca) Roma
e, p. c. Alla Conferenza dei Presidenti delle Regioni All’ANCI All’UPI Loro sedi
OGGETTO: Collaborazioni coordinate e continuative. Presupposti e limiti alla stipula dei contratti. Regime fiscale e previdenziale. Autonomia contrattuale.
1. PREMESSA La pubblica amministrazione è stata, negli ultimi anni, protagonista di un processo di assimilazione all’impresa privata, pur nel riconoscimento della sostanziale differenza delle finalità perseguite, dal punto di vista delle logiche organizzative. Il mutamento della visione organizzativa dell’amministrazione ha comportato, da un lato, la contrattualizzazione del rapporto di lavoro dei propri dipendenti e, dall’altro, l’attribuzione alla dirigenza di un ruolo diverso, con la conseguente assunzione dei poteri del privato datore di lavoro nella gestione delle risorse umane, per giungere, anche, all’esercizio di tali poteri nell’ambito organizzativo vero e proprio. Da ciò derivano il potere e l’onere attribuiti ai dirigenti di attendere all’organizzazione dei propri uffici e delle risorse loro attribuite, secondo la previsione dell’articolo 5 del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165, il quale prevede, al comma 2, che “Nell’ambito delle leggi e degli atti organizzativi di cui all’articolo 2, comma 1, le determinazioni per l’organizzazione degli uffici e le misure inerenti alla gestione dei rapporti di lavoro sono assunte dagli organi preposti alla gestione con la capacità ed i poteri del privato datore di lavoro”. In questo contesto, si è sviluppato il ricorso alle tipologie lavorative cosiddette “flessibili” ed alle collaborazioni esterne ex articolo 2222 del codice civile, come previste dall’articolo 7, comma 6, del decreto legislativo 165/2001 “Norme generali sull'ordinamento del lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche” e, per le amministrazioni locali, dall’articolo 110, comma 6, del decreto legislativo 18 agosto 2000, n. 267, “Testo unico delle leggi sull'ordinamento degli enti locali”, anche al fine di rispondere agilmente a bisogni qualificati e temporanei senza per questo dover aumentare il numero del personale stabilmente in servizio. L’attivazione di tali contratti non sempre è stata in linea con i principi dell’ordinamento e, in particolare, con quanto più volte dichiarato dalla giustizia contabile. La crescita del fenomeno e l’utilizzo improprio delle collaborazioni portano questa amministrazione ad intervenire con la presente direttiva, posto che già il legislatore in sede di legge finanziaria, art. 34 della legge 27 dicembre 2002, n. 289 e art. 3 della legge 24 dicembre 2003, n. 350, è intervenuto con disposizioni restrittive ai fini del contenimento della spesa (90% del triennio 1999-2001). Per quanto concerne i rapporti di collaborazione coordinata e continuativa, si pongono all’attenzione delle amministrazioni diversi problemi relativi, in primo luogo, all’individuazione dei presupposti che legittimano il ricorso alla collaborazione, poi alla valutazione di eventuali tutele non previste dall’ordinamento che, però, possono essere introdotte nei singoli contratti in virtù dell’autonomia contrattuale attribuita ai contraenti e, in ultimo, alla corretta gestione degli adempimenti fiscali e previdenziali. In relazione a questo ultimo aspetto, è necessario ricordare come l’avvenuta assimilazione dei rapporti di collaborazione coordinata e continuativa al lavoro dipendente per gli aspetti fiscali, operata dall’articolo 34 della legge 21 novembre 2000, n. 342, che ha modificato il testo unico delle imposte sui redditi, e che si riverbera anche sugli aspetti previdenziali, non incide sulla qualificazione giuridica del rapporto. Infine, è opportuno in tale sede richiamare la recente riforma del mercato del lavoro, attuata dal decreto legislativo 10 settembre 2003, n. 276, che ha introdotto la figura del lavoro a progetto con la finalità di arginare, nel settore privato, l’abuso delle attuali collaborazioni coordinate e continuative che per questa ragione andranno ricondotte alla modalità “a progetto” in ragione della autonomia del collaboratore. Occorre, però, chiarire già adesso che il decreto legislativo citato, come già disposto dalla legge delega 14 febbraio 2003, n. 30, ha sancito espressamente l’inapplicabilità delle disposizioni ivi contenute alle pubbliche amministrazioni ed al loro personale e, nell’articolo 86, comma 8, ha, inoltre, previsto che il Ministro per la funzione pubblica convochi le organizzazioni sindacali maggiormente rappresentative dei dipendenti delle amministrazioni pubbliche per esaminare i profili di armonizzazione conseguenti alla entrata in vigore del decreto legislativo, anche ai fini della eventuale predisposizione di provvedimenti legislativi nella materia. Si rappresenta con l’occasione che lo scorso 5 marzo si è dato corso all’avvio del processo di armonizzazione con un atto di indirizzo all’ARAN per la stipula di un contratto collettivo nazionale quadro.
2. PRESUPPOSTI La ricognizione sulla necessità che le amministrazioni verifichino l’esistenza dei presupposti che legittimano il ricorso ai rapporti di collaborazione coordinata e continuativa scaturisce dalla considerazione che il ricorso a tali tipologie contrattuali è sensibilmente aumentato. Da elaborazioni effettuate dall’ARAN[1] sui dati Si. Co. del Ministero dell’economia e delle finanze, relativamente all’utilizzo degli istituti di lavoro flessibile nelle pubbliche amministrazioni, per il biennio 2000-2001, sono emerse indicazioni significative sull’andamento del fenomeno, che è caratterizzato da una sensibile crescita della spesa nel 2002, rispetto a quella già alta registrata nel 2001. L’ampiezza della variazione può essere solo parzialmente giustificata dalla specificità del settore e delle funzioni esercitate, mentre deve sollecitare tutte le amministrazioni ad una attenta riflessione sulle scelte organizzative finora poste in essere. Dalla lettura delle disposizioni di cui all’art. 7, comma 6, del decreto legislativo 165/2001 e all’art. 110, comma 6, del decreto legislativo 267/2000, si evidenzia la possibilità di ricorrere a rapporti di collaborazione solo per prestazioni di elevata professionalità, contraddistinte da una elevata autonomia nel loro svolgimento, tale da caratterizzarle quali prestazioni di lavoro autonomo. Come ricordato in alcuni precedenti pareri[2] dell’Ufficio per il personale delle pubbliche amministrazioni, l’elemento dell’autonomia dovrà risultare prevalente, poiché in caso contrario sarebbero aggirate e violate le norme sull’accesso alla pubblica amministrazione tramite concorso pubblico, in contrasto con i principi costituzionali (artt. 51 e 97 Costituzione), principi ribaditi dalla Corte Costituzionale in diverse decisioni, nonché il principio, anch’esso costituzionale, di buon andamento ed imparzialità dell’azione amministrativa (art. 97 Costituzione). Tale connotazione del rapporto di collaborazione è stata ravvisata, in più occasioni, anche dalla Corte dei Conti, Sezione controllo enti, che già nella deliberazione n. 33 del 22 luglio 1994, aveva rappresentato la necessità di evitare che l’affidamento di incarichi a terzi si traducesse in forme atipiche di assunzione, con la conseguente elusione delle disposizioni sul reclutamento e delle norme in materia di contenimento della spesa. L’affidamento dell’incarico a terzi potrà dunque avvenire solo nell’ipotesi in cui l’amministrazione non sia in grado di far fronte ad una particolare e temporanea esigenza con le risorse professionali presenti in quel momento al suo interno. Al riguardo, soccorre nuovamente la consolidata giurisprudenza della Corte dei Conti, la quale ha ribadito l’impossibilità di affidare, mediante rapporti di collaborazione, i medesimi compiti che sono svolti dai dipendenti dell’amministrazione, proprio al fine di evitare una duplicazione delle funzioni ed un aggravio di costi. I principi guida elaborati dalla Corte e, da ultimo, espressamente richiamati dalla Sezione giurisdizionale per il Veneto[3], relativamente alla eventualità di un danno erariale per affidamento di consulenze e delle correlate responsabilità, possono essere così riassunti quali condizioni necessarie per il conferimento degli incarichi:
Inoltre, deve ritenersi che tali condizioni debbano tutte ricorrere perché l’incarico possa essere considerato conferito lecitamente e senza incorrere nell’ipotesi del danno erariale. Tale necessità, oltre a rispondere alla ratio delle norme prima richiamate, è stata affermata esplicitamente dalla stessa Corte [4]. Gli elementi individuati dalla Corte dovranno risultare dal contratto, infatti, in ossequio alla regola generale in virtù della quale i contratti stipulati con la pubblica amministrazione debbono essere stipulati per iscritto, l’attribuzione di un incarico di collaborazione risulterà da atto scritto, nel quale saranno indicati l’oggetto della prestazione e la durata della collaborazione. Questa dovrà essere commisurata all’oggetto della prestazione e potrà essere determinata con precisione o per relationem. E’ ammissibile una proroga del contratto quando sia funzionale al raggiungimento dello scopo per il quale il contratto era stato posto in essere. Al riguardo, si ricorda che non si tratta di una proroga ai sensi del decreto legislativo 6 settembre 2001, n. 368, in quanto la fattispecie rientra nell’ambito del lavoro autonomo e non subordinato. Al contrario, una successione indiscriminata e non giustificata di proroghe o di rinnovi sarebbe evidentemente illegittima. La necessità di ricorrere ad un incarico di collaborazione esterna, e nello specifico di collaborazione coordinata e continuativa, deve costituire, dunque, un rimedio eccezionale per far fronte ad esigenze peculiari per le quali l’amministrazione necessita dell’apporto di apposite competenze professionali. Infatti, diversamente, l’ordinamento ha fornito alle amministrazioni gli strumenti con i quali far fronte ad esigenze organizzative che esulino da tale eccezionalità e costituiscano, invece, delle necessità costanti. Infatti, queste sono obbligate ad individuare i fabbisogni duraturi o frequenti nell’ambito di provvedimenti di analisi e programmazione triennale dei fabbisogni, nonché tramite l’aggiornamento periodico dei profili professionali in relazione ai mutamenti istituzionali e ai nuovi fabbisogni quando vengano ad assumere un carattere permanente. Tale necessità emerge anche dalle indicazioni della Corte dei Conti che ha avuto modo di sottolineare come la proroga del rapporto di incarico a personale esterno debba essere considerata una fattispecie assolutamente eccezionale [5]. Può essere utile, infine, nell’ambito della ricognizione delle professionalità esistenti all’interno dell’amministrazione, verificare la possibilità e la convenienza di formare o aggiornare personale interno sottoutilizzato o da riconvertire, in attuazione del principio guida che discende dalle finalità indicate dall’articolo 1, comma 1, del decreto legislativo n.165/01 e, in particolare, per “realizzare la migliore utilizzazione delle risorse umane”. Pertanto, le procedure previste dai processi di progressione economica orizzontale e le procedure concorsuali attinenti le progressioni verticali dovranno tenere conto dei nuovi fabbisogni di professionalità che assumano le caratteristiche della permanenza e necessità.
3. OGGETTO DELL’INCARICO Una particolare attenzione debbono porre le amministrazioni nell’individuare l’oggetto dell’incarico di collaborazione, ossia il contenuto della prestazione. Pertanto, volendo con più precisione cercare di circoscrivere il campo delle attività che possono essere affidate ad esterni, si deve partire dall’articolo 7, comma 6, del decreto legislativo n. 165/2001, il quale si riferisce “ad esperti di provata competenza”, per giungere alla considerazione che deve trattarsi di prestazioni di elevata professionalità, quindi di prestazioni d’opera intellettuale da affidarsi, ad esempio, ma non solo, a coloro che esercitano un’attività per la quale è richiesta una abilitazione all’esercizio della professione e l’iscrizione in appositi albi, oppure di prestazioni di altro tipo non reperibili nel settore pubblico. Deve, poi, sottolinearsi come il rapporto di collaborazione, caratterizzandosi per l’assenza di un vincolo di subordinazione fra committente e prestatore d’opera e, quindi, nel senso dell’autonomia, impedisce che con tale strumento siano affidati i compiti di gestione e di rappresentanza, che costituiscono le attribuzioni tipiche dei funzionari e dei dirigenti della pubblica amministrazione, i quali sono, invece, in rapporto di subordinazione con il datore di lavoro-amministrazione e, pertanto, agiscono secondo gli indirizzi impartiti e gli obiettivi assegnati, rispondendo del loro operato “secondo le leggi penali, civili e amministrative” (art. 28 Costituzione), laddove nel caso dell’inadempienza contrattuale del collaboratore la sola conseguenza possibile sarà il recesso del committente secondo le norme generali (articoli 1453, 2227 e 2237 c.c.). Ad esempio, poiché il collaboratore coordinato e continuativo difetta del requisito indispensabile dell’incardinazione, in mancanza di una eventuale ed espressa procura, non potrà mai agire per conto dell’Amministrazione. Infatti, l’art. 417 bis c.p.c. conferisce la rappresentanza in giudizio ex lege delle pubbliche amministrazioni nelle controversie di pubblico impiego ai soli “dipendenti” delle amministrazioni e, cioè, a tutti coloro legati da un vincolo di subordinazione ed incardinati nell’amministrazione da difendere. Pertanto, il soggetto esterno all’amministrazione agirebbe quale falsus procurator (per quanto riguarda la disciplina civilistica, cfr. artt. 1398 e 1399 c.c.). Occorre ricordare, inoltre, come l’attribuzione di un incarico di collaborazione, al di fuori delle condizioni indicate dalla Corte dei Conti e delle fattispecie ora ricordate, comporti una serie di conseguenze a carico del dirigente che ne è responsabile. Infatti, costui potrebbe essere chiamato a rispondere, oltre che per l’eventuale responsabilità per danno erariale, anche per i profili attinenti alla responsabilità amministrativa, nonché in sede civile qualora l’incarico abbia dissimulato un rapporto di lavoro dipendente, poiché l’ordinamento prevede la tutela risarcitoria nei limiti di cui all’art. 2126 c.c.
4. ELEMENTI CARATTERISTICI DEL RAPPORTO Come noto, il rapporto di collaborazione coordinata e continuativa non trova una definizione specifica nel codice civile. La principale fonte normativa che soccorre in materia di collaborazioni coordinate e continuative è l’art. 409, c. 3, del codice di procedura civile, il quale ha esteso la disciplina delle controversie individuali di lavoro ai rapporti di agenzia, di rappresentanza commerciale, nonché ad altri rapporti di collaborazione “che si concretino in una prestazione di opera continuativa e coordinata e prevalentemente personale, anche se non a carattere subordinato…”. Da tale noma ha preso spunto il dibattito dottrinale e giurisprudenziale sul c.d. lavoro parasubordinato e sulla sua definizione come categoria dotata di una propria autonomia concettuale rispetto alla classica dicotomia lavoro autonomo / lavoro subordinato. La stessa espressione “parasubordinazione” utilizzata dal legislatore, infatti, implica senza dubbio una affinità con il lavoro subordinato dal punto di vista socio-economico (sostanziale dipendenza dal datore di lavoro). Peraltro, una lettura sistematica delle fonti normative citate non può che ricondurre anche i rapporti di c.d. parasubordinazione al campo del lavoro autonomo, pur con tutte le peculiarità via via espressamente enucleate dallo stesso legislatore[6]. Ed invero, l’art. 409, c.3, c.p.c. colloca i rapporti di “collaborazione” nettamente al di fuori dello schema tipico del lavoro subordinato ex art. 2094 c.c., tanto è che la giurisprudenza di legittimità è orientata ad attribuire rilevanza meramente processuale alla categoria della parasubordinazione, nel senso della esclusiva automatica applicabilità delle sole norme dettate per il lavoro subordinato in materia di competenza e di rito (ivi, ovviamente, compreso l’art. 429, 3 c., c.p.c.), e con esclusione delle norme sostanziali che disciplinano il rapporto di lavoro subordinato (si veda Cass. n. 2426/95, n. 1459/97 e, da ultimo, Cass. n. 5941/2004, in tema di inapplicabilità dell’art. 2126 c.c. alle prestazioni svolte in situazioni di autonomia, sia pure aventi le caratteristiche della parasubordinazione, potendo il lavoratore autonomo avvalersi unicamente dell’azione per indebito arricchimento). Venendo all’esame degli elementi caratteristici del rapporto, l’art. 409, c.3, del c.p.c. individua i tre aspetti peculiari che caratterizzano il rapporto di collaborazione coordinata e continuativa che, in sintesi, possono così evidenziarsi:
Ai fini della presente nota, rileva anche la definizione normativa contenuta nell’art. 50, lett.c-bis, del Decreto del Presidente della Repubblica 22 dicembre 1986, n. 917, quando indica la prestazione di collaborazione coordinata e continuativa, nella specie:“A favore di un determinato soggetto, nel quadro di un rapporto unitario, con retribuzione periodica prestabilita”. Il vero criterio distintivo del rapporto di lavoro in esame può essere individuato nella mancanza del vincolo di subordinazione, come risulta invece disciplinato negli articoli 2094, 2086 e 2104 del codice civile. In tali disposizioni, la dipendenza del lavoratore subordinato dal proprio datore di lavoro ed il potere direttivo di questi assumono un ruolo primario. Le norme fanno espresso riferimento ad una subordinazione gerarchica che, per sua natura, rappresenta un vincolo strettamente personale che si riflette, nella normalità dei casi, in una limitazione della sfera di azione del lavoratore. Si tratta, quindi, di una limitazione al potere decisionale, organizzativo, di scelta, etc., del lavoratore subordinato in ordine all’attività dallo stesso svolta nell’ambito della realtà operativa in cui è inserito, che si manifesta attraverso le imposizioni fissate nell’esercizio del proprio potere direttivo dal datore di lavoro che riguardano diversi aspetti della prestazione lavorativa: determinazione dell’orario di lavoro, modalità di esecuzione della prestazione, controllo del rispetto delle regole impartite, comminazione di sanzioni disciplinari, etc., individuando concretamente i compiti e rendendoli, pertanto, esigibili. In assenza di tali dirimenti criteri, si sarà in presenza di una prestazione lavorativa il cui titolare presta la propria opera senza vincolo di subordinazione. Ciò significa che il collaboratore non deve essere in alcun modo limitato nel proprio potere decisionale in ordine alla esecuzione del servizio prestato, sebbene il committente non possa essere totalmente estromesso da qualsiasi scelta che riguardi l’esecuzione dell’opera o del servizio pattuito potendo, invece, verificare e controllare le modalità di esecuzione delle attività affidate, al solo fine di valutare la rispondenza del risultato con quanto richiesto e la sua funzionalità rispetto agli obiettivi prefissati. Tale attività non deve essere trascurata perché attiene alla verifica dei risultati che debbono essere conseguiti ed alla valutazione sull’utilità della collaborazione. Sulla natura dei rapporti, se di lavoro autonomo o subordinato, soccorre anche la giurisprudenza della Corte di Cassazione, la quale, partendo dalla considerazione che il solo nomen iuris, quale esplicazione del principio dell’affidamento delle parti, non consente di identificare completamente la natura della prestazione, è giunta a fornire indicazioni concrete per l’individuazione della natura subordinata della prestazione.[7] A ciò occorre, inoltre, aggiungere il fatto che il potere di coordinazione può variare di intensità, non potendo essere il medesimo per prestazioni diverse, al punto da doverne chiarire, di volta in volta, il contenuto. Per quanto concerne, infine, la distinzione fra collaborazione coordinata e continuativa e prestazione occasionale è opportuno dare un’interpretazione sistematica dell’articolo 61 del predetto decreto legislativo 276/2003, al fine di individuare con precisione quest’ultima fattispecie. La circolare del Ministero del lavoro e delle politiche sociali (n. 1 dell’8 gennaio 2004) conferma come l’articolo 61 del decreto legislativo 276/2003 non è intervenuto sulla disciplina dettata dagli articoli 2222 e seguenti del codice civile, né “sostituisce e/o modifica l’articolo 409, n. 3, del codice di procedura civile, bensì individua, per l’ambito di applicazione del decreto, e nello specifico, della medesima disposizione, le modalità di svolgimento della prestazione del collaboratore, utile ai fini della qualificazione della fattispecie nel senso della autonomia o della subordinazione”. Pertanto, il lavoro a progetto si caratterizza come un rapporto di lavoro peculiare rispetto allo schema tipico del lavoro autonomo, caratterizzato dal potere di coordinamento del committente, pur rimanendo al di fuori della cornice dell’articolo 2094 c.c. L’articolo 61, inoltre, limita la propria disciplina alla fattispecie individuata dall’articolo 409, c. 3 c.p.c., stabilendo che questi rapporti dovranno essere ricondotti alle diverse ipotesi del lavoro subordinato o del lavoro a progetto, salvo il caso in cui non ci si trovi nella fattispecie della prestazione meramente occasionale introducendo un dato quantitativo di identificazione relativo al numero di giornate lavorative presso lo stesso committente e all’entità del compenso percepito nell’anno. Tale disposizione produce, dunque, effetti sotto il profilo probatorio, poiché superati tali limiti il datore di lavoro dovrà, eventualmente, dimostrare che la prestazione resa era riconducibile alla categoria del lavoro autonomo in quanto mancavano i requisiti della continuità o personalità o inserimento funzionale ecc.. In altri termini, qualora un prestatore d’opera superi i limiti individuati al comma 2 del citato articolo 61 non necessariamente vedrà inquadrato il proprio rapporto di lavoro quale lavoro a progetto, o, in assenza degli elementi essenziali di tale schema contrattuale, quale lavoro subordinato, poiché invece potrebbe avere reso una o più prestazioni d’opera ai sensi dell’articolo 2222 c.c. e seguenti, oppure una prestazione di lavoro occasionale, la quale, pur rientrando nella categoria del lavoro autonomo (art. 2222 e seguenti c.c.) costituisce fattispecie diversa dalla prestazione professionale o dall’esercizio di un’arte o dalla collaborazione coordinata e continuativa. Essa si caratterizza per la occasionalità e saltuarietà, tali che il compenso che ne deriva non può essere considerato la forma principale di reddito. Infatti, il testo unico delle imposte sul reddito (art. 81, lettera l), D.P.R. 917/86) definisce i redditi occasionali quali quelli “derivanti da attività di lavoro autonomo non esercitata abitualmente”. La prestazione non viene effettuata, dunque, in maniera continuativa e l’attività del prestatore non si coordina con i fini del committente. Pertanto, gli unici elementi in comune con la collaborazione coordinata e continuativa possono essere considerati l’assenza del vincolo di subordinazione e la libertà di organizzare la prestazione fuori da vincoli di orario. Sempre in relazione all’articolo 61 ed alla fattispecie del lavoro a progetto, vale la riflessione che il legislatore ha voluto sottolineare come l’utilizzo di tali tipologie di prestazione debba essere agganciato al contesto organizzativo tipico delle aziende, in quanto la collaborazione deve inserirsi in specifici progetti, coincidere con essi o svolgersi al loro interno. Deve però aggiungersi che anche le pubbliche amministrazioni sono profondamente orientate da logiche programmatorie, finalizzate al controllo delle attività ed alla valutazione dei risultati, pertanto l’utilizzo delle collaborazioni esterne dovrebbe già naturalmente inserirsi nell’ambito di attività oggetto dell’indirizzo politico-amministrativo che trovano logica attuazione attraverso la definizione di obiettivi strategici ed obiettivi operativi. Pertanto, anche alla luce dei principi contenuti nel decreto legislativo 30 luglio 1999, n. 286, in materia di controllo, la motivazione che sottende l’attivazione della collaborazione dovrebbe far riferimento a programmi, progetti o fasi di essi. Infine, anche per gli altri aspetti disciplinati nel citato articolo 61, va comunque ricordato come tali disposizioni non si applichino alle pubbliche amministrazioni ed al personale da esse dipendente, stante l’espressa e puntuale esclusione operata dall’art.1, c. 2, del decreto n. 276/2003.
5. CONNOTAZIONE PARTICOLARE RISPETTO AL LAVORO SUBORDINATO Rispetto alla distinzione fra rapporto di collaborazione coordinata e continuativa e rapporto di lavoro subordinato, oltre agli elementi già richiamati dell’assenza del vincolo di subordinazione e dell’autonomia nell’eseguire la prestazione, è opportuno ricordare come non sia possibile applicare automaticamente gli istituti tipici del lavoro subordinato. In primo luogo, non è possibile considerare un obbligo di prestazione oraria e il relativo controllo delle presenze. Se è pur vero che potrebbe essere necessario un inserimento del collaboratore nell’organizzazione del committente, poiché debbono essere garantiti uno o più risultati continuativi che si integrino in tale organizzazione, ciò dovrà comunque avvenire in presenza di una gestione autonoma del tempo di lavoro da parte del collaboratore. In altri termini, l’attività del collaboratore può anche svolgersi in un luogo diverso da quello nel quale opera l’organizzazione che fa capo al committente, venendo questi in contatto con l’organizzazione solo nei tempi utili allo svolgimento della sua collaborazione. Da ciò deriva che al collaboratore non può essere richiesta alcuna attestazione della propria presenza nei luoghi nei quali si svolge l’attività del committente. Infatti, il collaboratore non entra a far parte dell’organizzazione del committente e, nel caso in cui il committente sia una pubblica amministrazione, questi non può in alcun modo essere considerato un suo dipendente. Dalle considerazioni appena svolte deriva, quindi, l’impossibilità di attribuire giorni di ferie, trattandosi di un istituto tipicizzato nell’ambito del rapporto di lavoro subordinato. Emerge, da ciò, anche l’impossibilità, per il committente, di scegliere o programmare il periodo di riposo in maniera unilaterale, sebbene, a tal riguardo, nella convenzione di collaborazione potrebbe essere inserita la possibilità di sospendere la prestazione per un determinato periodo di tempo, soprattutto laddove il collaboratore utilizzi, per lo svolgimento della propria attività, le strutture, gli impianti e gli strumenti del committente, tanto nel rispetto del vincolo di non subordinazione, quanto nell’osservanza del principio di coordinamento con l’attività, gli obiettivi e l’organizzazione del committente. Anche per quanto concerne l’attribuzione dei buoni pasto, le considerazioni già svolte debbono indurre ad una esclusione dei collaboratori coordinati e continuativi dalla titolarità di tale diritto. Come noto, l’erogazione di buoni pasto spetta al personale contrattualizzato dipendente della pubblica amministrazione a fronte di un orario di lavoro articolato sui cinque giorni lavorativi ed in assenza di un servizio mensa o altro servizio sostitutivo presso la sede lavorativa (si veda l’articolo 2, comma 11, della legge 28 dicembre 1995, n. 550, legge finanziaria 1996). Potrà, invece, essere previsto nel contratto un apposito rimborso spese, in quanto istituto tipico nei rapporti di lavoro autonomo, qualora ne ricorrano i presupposti. Per quanto concerne le trasferte, l’assimilazione del collaboratore coordinato e continuativo operata dal Testo unico delle imposte sui redditi (sulla non estensione di tali effetti rispetto agli istituti tipici del lavoro subordinato si rinvia al paragrafo n. 7 della presente circolare relativo al trattamento fiscale) al lavoratore dipendente determina l’applicazione, a decorrere dal 1° gennaio 2001, delle regole sui rimborsi analitici valide per la generalità dei lavoratori dipendenti. La circolare ministeriale n. 207 del 16 novembre 2000 del Ministero delle finanze, dispone che “sarà applicabile anche ai rapporti di collaborazione coordinata e continuativa la disciplina delle trasferte contenuta nell’articolo 51, comma 5 del TUIR, in ordine ai limiti oltre i quali le indennità di trasferta concorrono a formare reddito imponibile…..”. Riguardo l’ambito territoriale della trasferta, dal 1 gennaio 2001, si fa riferimento alla sede di lavoro del committente, se questa è chiaramente identificabile dal contratto, o al domicilio fiscale del collaboratore, se non è possibile individuare in modo chiaro la sede di lavoro. Tale posizione è confermata anche dalla circolare dell’Agenzia delle Entrate n. 58/E del 18 giugno 2001, laddove si afferma che: “La sede di lavoro è quella che risulta dal contratto. Di norma la sede di lavoro coincide con una delle sedi del datore di lavoro nei casi in cui non è possibile individuare puntualmente la sede di lavoro né identificare tale sede con quella della società (committente) è possibile far riferimento, ai fini dell’applicazione del comma 5 dell’articolo 51 del TUIR, al domicilio fiscale del collaboratore”. Dall’analisi dell’articolo 51, comma 5, del Testo unico delle imposte sui redditi, le principali regole per la gestione dell’istituto della trasferta e dei rimborsi spese possono essere così riassunte: 1. trasferta fuori dal territorio del comune:
2. trasferta nell’ambito del comune:
6. AUTONOMIA CONTRATTUALE La non applicabilità alle “co.co.co” nel settore pubblico della riforma del lavoro, di cui al decreto legislativo 276/2003, pone due interrogativi di fondo: che tipo di tutela hanno oggi i titolari di rapporti di collaborazione coordinata e continuativa con la pubblica amministrazione e quale sia il percorso giuridico attuabile per giungere a quella “armonizzazione” degli istituti necessaria e conseguente alla riforma del lavoro di cui al decreto legislativo citato (art. 86, comma 8). Con riferimento al primo punto, va ribadito in questa sede che, anche con riferimento ai c.d. “co.co.co.”, la norma generale di cui al secondo comma dell’art. 36 del decreto legislativo 165/2001 impedisce a priori (indipendentemente dall’applicabilità senz’altro da escludersi del decreto legislativo 276/2003 alla pubblica amministrazione) l’operatività di qualsivoglia meccanismo di automatica conversione del rapporto in rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato, come invece stabilito per il settore privato dall’art. 69 decreto legislativo 276/2003. L’art. 36 citato, infatti, stabilisce che la violazione di disposizioni imperative riguardanti l’assunzione o l’impiego di lavoratori, da parte delle pubbliche amministrazioni, non può comportare la costituzione di rapporti di lavoro a tempo indeterminato con le medesime pubbliche amministrazioni. Ogni dubbio di incostituzionalità di detta disciplina che potrebbe sorgere sotto il profilo della violazione degli artt. 3 e 97 della Costituzione (diseguaglianza tra lavoratori privati e pubblici e violazione del principio di buon andamento della pubblica amministrazione) è stato definitivamente superato dalla Corte Costituzionale che, giudicando sulla costituzionalità dell’art. 36 cit. con riferimento alla analoga disciplina dei contratti a termine e della possibilità della loro conversione, in caso di stipulazione al di fuori dei presupposti e limiti di legge, in contratti di lavoro subordinato a tempo indeterminato, ha ritenuto infondata la questione ritenendo che, anche dopo l’intervenuta privatizzazione del rapporto di impiego dei pubblici dipendenti, permangono differenze tra il rapporto di pubblico impiego e quello di lavoro privato; in primis in materia di instaurazione del rapporto di lavoro pubblico, la cui disciplina è improntata al principio fondamentale, totalmente estraneo al rapporto di lavoro privato, dell’accesso mediante concorso, enunciato dall’art. 97, comma 3, Costituzione, principio posto a presidio delle esigenze di imparzialità e buon andamento dell’amministrazione (cfr. Corte Costituzionale, sentenza 27 marzo 2003, n. 89). Pertanto, anche con riferimento alla disciplina dei contratti di collaborazione coordinata e continuativa, la scelta del legislatore di ricollegare alla violazione di norme imperative riguardanti l’assunzione dei lavoratori da parte delle pubbliche amministrazioni (quale sarebbe l’automatica conversione del rapporto di collaborazione coordinata e continuativa in rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato) conseguenze diverse rispetto a quelle operanti nel settore privato risulta pienamente giustificata dalla disomogeneità della situazioni lavorative dedotte. In conclusione, la tutela attualmente accordabile al collaboratore delle amministrazioni pubbliche, nel caso di stipulazione del contratto al di fuori dei presupposti di legge, non potrà mai determinarsi la conversione in rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato, ma potrà estrinsecarsi esclusivamente in forma risarcitoria e cioè nei limiti di cui all’art. 2126 c.c. (e solo qualora il contratto di collaborazione abbia la sostanza del rapporto di lavoro subordinato, con conseguente diritto del lavoratore a tutte le differenze retributive e alla ricostruzione della posizione contributiva e previdenziale). In tal caso, si potrebbe certamente configurare una responsabilità amministrativa del dirigente che ha stipulato il contratto di co.co.co illegittimo, con addebito del danno erariale verificatosi. Sulla configurabilità in concreto di una siffatta responsabilità si rileva che:
In conclusione, la posizione dei collaboratori coordinati e continuativi delle amministrazioni pubbliche è senz’altro più debole rispetto al settore privato, dove il decreto legislativo 276/2003 impone oggi condizioni di stipulazione assai più rigorose (prima fra tutte, la necessità di un progetto connesso all’incarico) e prevede il meccanismo (anche sanzionatorio per il datore di lavoro) della conversione automatica in rapporto subordinato a tempo determinato sin dalla data della stipulazione del contratto. L’amministrazione, tuttavia, sia in virtù della propria funzione volta alla realizzazione di interessi pubblici, sia in virtù dell’espresso richiamo del legislatore (che nell’art. 86, comma 8, decreto legislativo 276/2003, demanda al Ministro per la Funzione pubblica il compito di esaminare a livello collettivo le modalità di attuazione -“armonizzazione”- delle novità della riforma con riferimento alla pubblica amministrazione) appare comunque tenuta, anche con riferimento alla disciplina dei rapporti di collaborazione coordinata e continuativa, ad adottare criteri che impediscano un uso elusivo e distorto di tale forma contrattuale. Senz’altro utile potrà essere una specifica ed analitica indicazione dei criteri da seguire anche in coerenza con quanto previsto dal decreto legislativo 276/2003 e delle linee guida che emergono dalla copiosa giurisprudenza della Corte dei Conti in materia dalle Amministrazioni che vogliano utilizzare contratti di collaborazione coordinata e continuativa. Non potrà, invece, l’autonomia collettiva prevedere in linea di principio meccanismi di automatica conversione a sanatoria di situazioni pregresse o comunque verificabili, vigendo i limiti costituzionali nell’accesso per pubblico concorso, l’imparzialità e il buon andamento della pubblica amministrazione sopra enunciati. Una clausola contrattuale di questo tenore sarebbe, infatti, nulla per violazione di norme imperative di legge ex art.1418 c.c. nonché per quanto previsto all’articolo 36, comma 2, del decreto legislativo 165/01.
7. ADEMPIMENTI CONSEGUENTI ALLA STIPULA DI CONTRATTI DI COLLABORAZIONE COORDINATA E CONTINUATIVA Le pubbliche amministrazioni che conferiscono incarichi di lavoro autonomo da svolgersi in forma coordinata e continuativa sono tenute, al pari dei committenti privati, agli adempimenti di natura fiscale, previdenziale ed assicurativi previsti dalle rispettive discipline di settore. Sono tenute, inoltre, in caso di instaurazione di rapporti di lavoro autonomo in forma coordinata e continuativa, a dare comunicazione contestuale al centro territoriale competente nel cui ambito territoriale è ubicata la sede di lavoro. In tale comunicazione sono indicati i dati anagrafici del lavoratore, la data di stipula e di cessazione del contratto, la tipologia contrattuale, nonché il trattamento economico e normativo, secondo le disposizioni contenute nel comma 2 del decreto legge 1° ottobre 1996, n. 510, convertito dalla legge 28 novembre 1996, n. 608, come sostituito dall’articolo 6, comma 2, del decreto legislativo 19 dicembre 2002, n. 297. Riguardo alle richiamate modalità della comunicazione, si dovrà fare riferimento alle indicazioni che saranno a tal fine fornite dal Ministero del lavoro e delle politiche sociali.
7.1 TRATTAMENTO FISCALE Come noto, l’articolo 34 della legge 21 novembre 2000, n. 342, collegato fiscale alla legge finanziaria per l’anno 2000, ha aggiunto all’articolo 47 del testo unico delle imposte sui redditi, decreto del Presidente della Repubblica 22 dicembre 1986, n. 917, la lettera c-bis, operando così la trasformazione dei redditi derivanti da rapporti di collaborazione coordinata e continuativa da redditi da lavoro autonomo a redditi assimilati a quelli da lavoro dipendente. Attualmente, a seguito del riordino del testo operato dal decreto legislativo 12 dicembre 2003, n. 344, la disciplina dei redditi assimilati a quelli da lavoro dipendente è rinvenibile all’articolo 50 del Testo unico delle imposte sui redditi. Riguardo al nuovo regime, occorre, in primo luogo, ricordare come le modifiche riguardino il solo profilo fiscale senza incidere sulla disciplina del rapporto contrattuale. La nuova qualificazione fiscale comporta, da un lato, la cessazione della ritenuta fissa del 20% a titolo d’acconto dell’IRPEF e, dall’altro, il calcolo di una ritenuta operato sulla base delle aliquote progressive per scaglioni di reddito, contenute nell’articolo 11 del Testo unico delle imposte sui redditi, all’atto del pagamento del compenso. Ne discende, in sede di determinazione dell’imponibile fiscale, la non concorrenza dei contributi previdenziali (comma 2, articolo 51 del TUIR) e l’abbandono della deduzione forfetaria del 5 o 6 per cento; mentre, in sede di tassazione del reddito, si avrà l’applicazione degli scaglioni e delle aliquote IRPEF valide per i redditi di lavoro dipendente e l’applicazione delle detrazioni previste dagli articoli 13 e 14 del Testo unico delle imposte sui redditi, nonché delle deduzioni previste, dalla legge finanziaria per l’anno 2003, all’articolo 10-bis (ora articolo 11). Sempre relativamente all’aspetto fiscale, occorre ricordare come non si possano considerare rientranti nella fattispecie della collaborazione coordinata e continuativa le prestazioni tipiche di lavoro dipendente o quelle relative all’esercizio di una professione. Infatti, in quest’ultimo caso, laddove la prestazione sia riconducibile ad attività per le quali necessitano conoscenze tecnico-giuridiche che le facciano rientrare nell’esercizio di attività di lavoro autonomo esercitata abitualmente, i compensi così percepiti saranno soggetti alla disciplina fiscale relativa ai redditi da lavoro autonomo.
7. 2 TUTELA PREVIDENZIALE La legge di riforma del sistema pensionistico obbligatorio e complementare, di cui alla legge 8 agosto 1995, n. 335, ha disposto, all’articolo 2, comma 26, l’iscrizione in una apposita gestione separata presso l’INPS dei titolari di rapporti di collaborazione coordinata e continuativa con la finalità di estendere, fra gli altri, anche a tali soggetti l’assicurazione obbligatoria per l’invalidità, la vecchiaia ed i superstiti. Il contributo, inizialmente dovuto nella misura stabilita dal comma 29 dell’articolo 2 della legge 335/95, è stato successivamente rideterminato come indicato dall’articolo 51 della legge 23 dicembre 1999, n. 448, che ha modificato il comma 16 dell’articolo 59 della legge 27 dicembre 1997, n. 449. Il contributo continua, invece, ad essere determinato nella misura del 10% per coloro che siano iscritti ad altra gestione pensionistica obbligatoria o che siano pensionati. Attualmente, con la circolare INPS n. 56/2004, l’aliquota contributiva per l’anno 2004, appunto, è stabilita in 17,80% sino al limite di € 37.883,00 e al 18,80% per la quota eccedente sino al massimale di € 82.401,00. L’aliquota prevista e quella aggiuntiva seguono sempre la ripartizione tra committente e collaboratore di 2/3 e 1/3, così come previsto dall’articolo 1, comma 2, del decreto Ministeriale n. 281/1996, “Regolamento recante modalità e termini per il versamento del contributo previsto dall’articolo 2, comma 30, della legge 8 Agosto 1995, n. 335”. Il committente è tenuto a versare il contributo dovuto anche per la parte che resta a carico del collaboratore, attraverso i modelli e le scadenze previste. Sempre per effetto delle disposizioni del comma 29, il contributo si applica sul reddito delle attività determinato con i medesimi criteri utilizzati ai fini dell’imposta sul reddito delle persone fisiche e, pertanto, il contributo previdenziale viene calcolato sul valore lordo del compenso, al fine di far coincidere la base imponibile previdenziale con la base imponibile IRPEF (Circolare INPS n. 32 del 7 febbraio 2001). L’INPS, con la circolare n. 16 del 2001, ha inoltre disposto che i committenti procedano ad un’unica denuncia annuale da presentarsi entro il 31 marzo dell’anno successivo a quello di effettuazione della collaborazione, anche per le collaborazioni cessate nel corso dell’anno. La denuncia, da effettuarsi tramite i modelli predisposti dall’ente, dovrà contenere i dati identificativi del committente, il riepilogo dei versamenti effettuati durante l’anno, nonché i dati relativi al collaboratore ed ai contributi dovuti in relazione ai mesi per i quali è stato corrisposto il compenso. L’assimilazione dei redditi derivanti dalle collaborazioni coordinate e continuative ai redditi da lavoro dipendente si riverbera anche negli adempimenti previdenziali, infatti per effetto del mutamento di regime operato dall’articolo 34 della legge 21 novembre 2000, n. 342 , tutti i riferimenti contenuti nelle disposizioni emanate anteriormente dovranno riferirsi ora all’articolo 50 del Decreto del Presidente della Repubblica 22 dicembre 1986, n. 917. Il decreto del Ministero del lavoro e della previdenza sociale del 4 Aprile 2002, che ha abrogato il precedente decreto ministeriale del 27 Maggio 1998, ha disegnato una nuova disciplina che, ai sensi dell’articolo 80, comma 12, della legge 23 dicembre 2000, n. 388, adegua, per i lavoratori iscritti alla gestione separata dell’INPS, la tutela relativa alla maternità ed agli assegni al nucleo familiare alle forme ed alle modalità previste per il lavoro dipendente. L’assegno di maternità viene corrisposto alle lavoratrici, che possono far valere i seguenti requisiti:
Inoltre, l’indennità di maternità:
E’, inoltre, prevista anche l’indennità di paternità, sempre a partire dal 1 gennaio 1998, in favore del padre iscritto alla gestione separata INPS, in possesso dei requisiti previsti di cui sopra, per i tre mesi successivi alla data effettiva del parto o per il periodo residuo che sarebbe spettato alla madre, in caso di morte o grave infermità o di abbandono, nonché in caso di affidamento esclusivo del bambino al padre. L’indennità di malattia per i periodi di degenza ospedaliera, prevista dalla legge n. 488/99 per gli iscritti alla gestione separata che versano il contributo aggiuntivo dello 0,50%, a partire dal 1 gennaio 2000, è stata disciplinata dal Decreto del Ministero del lavoro del 12 gennaio 2001. Con tale decreto si stabilisce, appunto, sempre nel rispetto delle condizioni contributive previste per l’assegno di parto, la misura dell’indennità di malattia che va commisurata alle mensilità contributive accreditate. L’indennità spetta per ogni giorno di degenza presso strutture ospedaliere pubbliche e private accreditate dal Servizio Sanitario Nazionale ovvero presso strutture estere se autorizzate dal Servizio Sanitario Nazionale stesso; essa spetta, inoltre, fino ad un massimo di 180 giorni nell’anno solare. L’assegno per il nucleo familiare è previsto dall’articolo 4 del Decreto Ministeriale del 28 gennaio 1998, ai soggetti iscritti alla gestione separata INPS. L’assegno spetta in misura proporzionale al numero e al reddito dei componenti il nucleo. Il reddito familiare da considerare è costituito dalla somma dei redditi di ciascun componente il nucleo, con esclusione dei redditi prodotti dai figli maggiorenni e del coniuge legalmente separato. Non devono, inoltre, essere considerate le rendite INAIL, le pensioni di guerra e l’indennità di accompagnamento degli invalidi civili. L’importo dell’assegno viene erogato in misura decrescente in rapporto agli scaglioni crescenti di reddito che annualmente vengono rivalutati. Pertanto, sono state disposte delle tabelle in base alle quali è possibile stabilire l’importo dell’assegno per varie tipologie familiari. L’assegno viene erogato per i mesi dell’anno che risultano coperti da contribuzione. Tutte le indennità previste dall’INPS sono erogate, a richiesta del soggetto che ne ha diritto, inoltrando apposita domanda presso le competenti sedi INPS.
7.3 TUTELA ASSICURATIVA Le pubbliche amministrazioni che abbiano stipulato rapporti di collaborazione coordinata e continuativa debbono tener conto che tali collaboratori sono soggetti agli obblighi assicurativi qualora svolgano una delle attività previste dall’articolo 1 del Decreto del Presidente della Repubblica 30 giugno 1965, n. 1124, Testo unico delle disposizioni per l’assicurazione obbligatoria contro gli infortuni e le malattie professionali, secondo quanto disposto dall’articolo 5 del decreto legislativo 23 febbraio 2000, n. 38, pertanto sono tenute a tutti gli adempimenti posti a carico dei datori di lavoro dal citato Testo unico. In pratica, si tratta delle attività già indicate nell’articolo 4 del Testo unico, integrate dalle attività nelle quali vi sia utilizzo non occasionale di veicoli a motore per l’esercizio delle mansioni affidate. Il committente è tenuto alla denuncia di esercizio nella quale, oltre ad essere riportati tutti gli elementi utili alla valutazione del rischio, debbono essere indicati i nominativi dei collaboratori, la misura dei compensi e la durata del rapporto di collaborazione. Inoltre, provvederà al pagamento periodico del premio alle scadenze previste, alla eventuale denuncia di infortunio o malattia professionale, nonché alla denuncia di cessazione del rapporto di lavoro. Il premio assicurativo è ripartito fra i contraenti nella misura di un terzo a carico del lavoratore e di due terzi a carico del committente ed è calcolato sull’ammontare dei compensi effettivamente percepiti. Poiché, come già richiamato in precedenza, l’articolo 34 della legge n. 342/2000 ha fatto transitare nella sfera dei redditi di lavoro dipendente i redditi derivanti dalle collaborazioni coordinate e continuative, la base imponibile ai fini assicurativi si è adeguata al nuovo inquadramento normativo riferendosi, attualmente, alle disposizioni contenute nell’articolo 52 del Testo unico delle imposte sui redditi relative ai redditi assimilati a quelli da lavoro dipendente: “…è costituito da tutte le somme ed i valori in genere, a qualunque titolo percepite nel periodo di imposta, anche sotto forma di erogazioni liberali, in relazione al rapporto di lavoro”. Ai fini dell’individuazione del tasso applicabile all’attività svolta dal lavoratore, si deve fare riferimento “a quello dell’azienda, qualora l’attività stessa sia inserita nel ciclo produttivo; in caso contrario, a quello dell’attività effettivamente svolta”. In altre parole:
Stante la formulazione della disposizione di cui all’articolo 5 del citato decreto legislativo 38/2000, deve ritenersi che i committenti siano tenuti all’obbligo di registrazione sui libri matricola e paga anche per i collaboratori coordinati e continuativi. In tal senso, si è espresso anche il Ministero del lavoro e della previdenza sociale, con nota del 2 gennaio 2001, nella quale è indicata la possibilità di semplificare la tenuta dei libri paga e matricola per tali lavoratori, considerata la particolarità della prestazione non riconducibile a quella del lavoro dipendente. La presente direttiva è inviata all’Ispettorato per la funzione pubblica, al quale è demandata dall’ordinamento vigente l’attività di vigilanza e verifica della conformità dell’azione amministrativa ai principi di imparzialità e buon andamento, nonché dell’osservanza delle disposizioni vigenti sul controllo dei costi, dei rendimenti e dei risultati, ai sensi dell’articolo 13, comma 1, del D.M. 30 dicembre 2002, recante Organizzazione interna del Dipartimento della funzione pubblica.
IL MINISTRO
Note [1] Si veda il sito www.aranagenzia.it “Gli istituti di lavoro flessibile nella pubblica amministrazione e nelle autonomie locali. Indagine quantitativa sul biennio 2000-2001” a cura di D. Di Cocco – P. Mastrogi - S. Tomasini [2] Si veda il sito www.funzionepubblica.it alla voce lavoro pubblico [3] Si veda Corte dei Conti, Sezione giurisdizionale per il Veneto, 3 novembre 2003, n. 1124/2003 su Giornale di diritto amministrativo n. 1/2004. Sui medesimi principi si rinvia, inoltre, a: Corte dei Conti, Sez. I, 18 gennaio 1994, n.7; Sez. I 7 marzo 1994, n. 56; Sezioni Riunite, 12 giugno 1988, n. 27; Sez. II 22 aprile 2002, n. 137; Sez. controllo enti, 22 luglio 1994, n. 33. [4] Corte dei Conti, Sezioni Unite, 12 giugno 1988, n. 27. [5] Corte dei Conti, Sez. contr. Enti, 28 aprile 1992, n. 19 [6] Per i richiami normativi sui rapporti di collaborazione coordinata e continuativa via via susseguitisi, si vedano principalmente: L.335/95 (c.d. Riforma DINI del sistema previdenziale), che ha incluso tale categoria di lavoratori tra quelli tenuti ad iscriversi (in mancanza di altra copertura previdenziale) alla gestione separata di cui all’art.2 (c.d. quarta gestione INPS: art.3, comma 26), prevedendo un’aliquota previdenziale inferiore a quella vigente per i rapporti di lavoro subordinato (10% iniziale poi destinata a crescere fino al 20%, mentre quella normale oscilla intorno al 33%); - L.449/97 (art.59, comma 16), che ha esteso ai collaboratori autonomi iscritti alla gestione separata di cui sopra anche le prestazioni dell’assegno per maternità e dell’assegno per il nucleo familiare; - L. 448/99 (prestazioni anche in caso di malattia con degenza ospedaliera); - d.lvo 38/2000 (art.5: obbligo per i datori di lavoro di denunciare i lavoratori parasubordinati all’INAIL, per estendere anche a loro la tutela dell’assicurazione obbligatoria degli infortuni sul lavoro); - L. 342/2000, che ha previsto l’assimilazione dall’1.1.2001 dal punto di vista fiscale dei redditi parasubordinati a quelli da lavoro dipendente, con la possibilità di beneficiare delle detrazioni e delle esclusioni dalla formazione della base imponibile previste per i dipendenti nonché la valutazione omogenea anche dei compensi in natura. [7] Si veda Cassazione Sez. Unite Civili, sent. n. 61 del 13 febbraio 1999. [8] cfr. Corte Conti, sez. riun. 18.12.1996 n.80/a su Rivista Corte conti 1997, fasc. 1. 67, Foro amm. 1997, 1834
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