Basilicata
Calabria
Campania
Molise
Puglia
Sardegna
Sicilia

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Relazione di Teodoro Lamonica
(segretario generale Funzione Pubblica CGIL Sicilia)

 

“Se  esiste la guerra, non esiste qualcosa che la limiti o la moderi.  La guerra non è una premessa di alcuni mali. È essa stessa assolutamente male, male assoluto.”

Ho voluto iniziare questa mia relazione con una citazione di Carlo Garbagnati, il vicepresidente di Emergency, e vorrei proseguire citando quelli che definirei
“i numeri del massacro”.

Mille giorni di guerra in Iraq hanno fatto più di 30mila morti iracheni. Militari, ribelli, terroristi, ma anche civili, uomini, donne e bambini. 

2.144 sono i Militari Usa caduti al fronte.

226.737.870.900 dollari è ad oggi il costo della guerra in Iraq.

L’Unicef dice che i conflitti dell'ultimo decennio hanno:

ucciso 2 milioni di bambini;
resi invalidi 4-5 milioni di bambini;
causato traumi psicologici seri a 10 milioni di bambini;
provocato un milione di orfani e 12 milioni di bambini senza casa.

Si stima che in 64 paesi siano seppellite oltre 110 milioni di mine: una ogni venti bambini.
E’ questo lo scenario su cui si è aperto il 2006!

Noi come CGIL abbiamo espresso fin dall’inizio il nostro dissenso verso la guerra.

 La democrazia, infatti, non si può esportare con i caccia-bombardieri, i carri armati e seminando morte e distruzione.

La CGIL insieme ad altre associazioni, movimenti, partiti politici e singoli individui ha dato vita ad una aggregazione di persone che credono in un concetto di democrazia fondata su un’idea non di “guerra preventiva” ma di “politica preventiva”, capace cioè di promuovere il rispetto dei diritti essenziali delle persone in ogni contesto etnico, religioso, nazionale; su un’idea che nessuna distinzione tra armi consentite o vietate, convenzionali e no, respinge il giudizio sulla assurdità delle armi di qualsiasi genere.

Vorrei citare ancora un dato: 43. Sono gli anni di latitanza di Bernardo Provenzano.

C'è da chiedersi come mai uno possa rimanere latitante per tanto tempo, farsi operare all’estero, magari condurre una vita normale.

La politica si deve interrogare su quale collusione ha potuto contare per quarant’anni di latitanza il boss. E’ un capo questo che ha saputo attraversare tutte le stagioni di cosa nostra, dalle lotte intestine, alla guerra di mafia, alla stagione delle stragi e dei silenzi.

La politica deve muoversi ricostruendo le responsabilità e le collusioni rintracciando questi rapporti e cercando di catturare il boss.

La mafia ha una grande capacità di riorganizzarsi soprattutto quando sta in silenzio. Lo ha fatto sempre. Perciò la politica deve darsi una mossa e intraprendere una seria lotta alla criminalità organizzata.

Giovanni Falcone diceva: “In Sicilia, per quanto uno sia intelligente e lavoratore, non è detto che ce la faccia a sopravvivere…”. La Sicilia ha fatto del clientelismo una regola di vita. Difficile in questo quadro far emergere pure e semplici capacità professionali. Quel che conta è l’amicizia, la conoscenza per ottenere la spintarella. E la Mafia, che esprime sempre l’esasperazione dei valori siciliani, finisce per fare apparire come un favore quello che è il diritto di ogni cittadino.
 

Graditi ospiti, care compagne, cari compagni,

Siamo arrivati alla fine del percorso congressuale siciliano della Funzione Pubblica.

Ancora una volta abbiamo dato vita ad una eccezionale manifestazione di democrazia che ha visto la partecipazione alle nostre attività congressuali di migliaia di lavoratrici e lavoratori.

E ciò lo ritengo oggi molto importante, poiché viviamo un momento storico in cui la partecipazione dei cittadini alla vita delle istituzioni è stata fortemente sottovalutata.

Oggi siamo qua al congresso regionale della FP siciliana che si tiene dopo 496 assemblee di base e dieci congressi territoriali che ci hanno molto impegnato, dando vita ad un dibattito reale, vivo e partecipato.

Congressi che si sono svolti in un clima di grande tranquillità, con un dibattito di alto livello  e di merito; in Sicilia, con una linea politica interamente condivisa sui temi strategici che ritroviamo nel documento approvato all’unanimità  in tutti i dieci congressi, e con gli emendamenti presentati dalla Funzione Pubblica.

Ai congressi hanno partecipato 14.538 persone, hanno preso parte al voto 14.073 iscritti, cioè il 58,31% del totale degli associati, che sono a dicembre 2004  24.135.

Sono dati molto significativi poiché è questa la sede in cui fissare e definire le politiche più opportune per favorire lo sviluppo di una società più equa, più unita e più solidale,  per così dire  migliore.

Un’organizzazione sindacale, infatti, è tanto più forte quanto più le sue scelte sono credibili,  efficaci e condivise, quanto più i valori ai quali si riferisce sono partecipati, fissano la collocazione sociale, ispirano la democrazia e assicurano lealtà e solidarietà.

Quello che insieme stiamo completando è un percorso democratico che ci ha consentito di coinvolgere e far partecipare i singoli alla costruzione del ruolo e delle sorti della “propria organizzazione”.

La Funzione Pubblica quest’anno compie 25 anni. Un avvenimento che è stato ricordato l’anno scorso con un’iniziativa della Fp nazionale, organizzata insieme alla Camera del lavoro di Palermo, a Portella della Ginestra, in occasione del I Maggio.

Un luogo simbolo della storia del movimento dei lavoratori e della nostra Isola.

Il 14, 15 e 16 febbraio del 1980, si è tenuto a Siracusa il Congresso costitutivo, noi abbiamo voluto celebrare l’avvenimento realizzando una  pubblicazione che sinteticamente rappresentasse il percorso fatto in Sicilia in questi  25 anni.

Ci è sembrato un stimolo per riflettere sulla strada percorsa fino ad oggi e un omaggio per i compagni della categoria e per tutti i lavoratori che hanno fatto della nostra organizzazione un punto di riferimento.

Quest’anno si celebrano anche i 100 anni della CGIL.

Era il 1906 quando nacque la Confederazione Generale del Lavoro, come struttura capace di raccogliere tutte le forze operaie. All'atto della fondazione parteciparono 700 delegati in rappresentanza di oltre 80 camere del lavoro e di circa 200.000 aderenti.

Quegli anni furono densi di avvenimenti e di iniziative. Il primo sciopero generale cittadino, proclamato a Genova nel dicembre 1900, e la svolta liberale promossa da Giolitti nel Febbraio 1901, furono eventi che favorirono la ripresa del movimento sindacale.

In quei mesi comparvero le prime federazioni nazionali di categoria, nel 1901 nacquero le federazioni dei metallurgici, dei tessili, dei chimici (FIOM, FNOT, FILC) e la federazione nazionale dei lavoratori della terra.

Nel 1901 in seguito agli eccidi di Buggerru e Castelluzzo (Tp) veniva proclamato il primo sciopero generale nazionale.

Ho voluto riportare questi brevi cenni di storia perchè ci permettono di capire, oggi come ieri, quanto fondamentale sia stato il ruolo della CGIL nella crescita della società civile, quale ruolo abbiamo giocato come organizzazione nel determinare la storia del paese, essendo stati molto spesso protagonisti di importanti passaggi storici quali la Resistenza, la lotta per i diritti e il salario, per l’orario di lavoro, la lotta al terrorismo, le lotte per i diritti, la lotta contro l’abolizione dell’art. 18, ed  oggi anche per la capacità di mobilitazione che ha segnato questi anni, vedi la grandissima manifestazione del 23 marzo 2002 al Circo Massimo a Roma.

Oggi siamo di fronte ad un mondo diverso, ad una società diversa.

L’innovazione tecnologica ha determinato profondi cambiamenti nella vita sociale e i suoi effetti si manifestano sulla cultura, sull'economia, sulla politica e sull'educazione.

Ha determinato cambiamenti nelle condizioni di vita e di lavoro, ha modificato i valori, inciso sulla speranza e le paure di milioni di persone perché  essa investe quella sfera delle attività umane che chiamiamo comunicazione.

La globalizzazione economica e finanziaria, la circolazione immediata dell'informazione conducono l'umanità intera verso un futuro di omologazione. Ciò non significa affatto verso un destino comune, anzi.

Le ineguaglianze e le povertà che si aggravano nel mondo ne sono la prova, senza contare il rischio della sottomissione delle economie locali a strategie industriali che hanno poche relazioni con i bisogni reali di un determinato paese.               .             
Questo processo è stato accompagnato e assecondato dalle teorie economiche liberiste.

L'ideologia liberista che attualmente governa i processi di globalizzazione costringe centinaia di milioni di persone nei Paesi poveri a lavorare in condizioni al di sotto di ogni limite accettabile di dignità, e produce incertezza e crisi a catena. Il crollo pochi anni fa dei mercati asiatici, che ha gettato nella miseria milioni di lavoratori, è il risultato di questa logica che privilegia gli interessi speculativi rispetto all'obiettivo che si creino nel Sud del mondo economie solide.

La globalizzazione del solo mercato, infatti,  inevitabilmente accentua le disuguaglianze tra i paesi e all’interno dei paesi, a loro volta, le disuguaglianze accendono nazionalismi e fondamentalismi, creano istinti razzisti, destinati a produrre rotture e conflitti.

E’ necessario quindi contrastare il liberismo quale forma di cultura prevalente, e per fare ciò è indispensabile che ci sia un segnale forte della politica, a cui si impone una instancabile ed inevitabile ricerca di nuove regole internazionali, un impegno speciale verso soluzioni comuni e condivise a problemi di natura transnazionale.

La lotta all'esclusione sociale deve essere, alla pari degli sforzi di internazionalizzazione del sistema e della ricerca di nuove regole, un elemento costitutivo della politica estera dei  paesi, poiché la crescita deve esserci per tutti: non è più plausibile una ipotesi di crescita stabile riservata solo a pochi.

E’ sicuramente un compito arduo, ma al tempo stesso indispensabile per costruire nuovi e più avanzati equilibri tra le aree del mondo.

In un contesto internazionale sempre più globale, appaiono nuovi attori ed emergono nuovi problemi. Nuovi soggetti agiscono infatti sul piano globale.

La società civile, le organizzazioni non governative e le autorità locali, reclamano una sempre maggiore partecipazione e democrazia nei processi decisionali, nella consapevolezza, anzitutto, che le decisioni adottate a livello globale riguardano e toccano sempre più direttamente i singoli cittadini.

Emerge, inoltre, con chiarezza il senso dell’esistenza di interessi comuni e valori fondamentali condivisi che vanno oltre i confini nazionali.

In un’epoca in cui i destini degli uomini sono così intrecciati, la politica deve necessariamente superare la dimensione nazionale ed essere affidata ad organismi sovra-nazionali.

Il ruolo delle istituzioni democratiche diventa quello di farsi garante delle necessità e dei bisogni degli individui e l’Onu,  le cui  fondamenta sono quelle della cooperazione e del multilateralismo, è l’unica istituzione in grado di rispondere alle sfide della globalizzazione. La forza delle Nazioni Unite è sempre stata basata più che sul diritto sull'equilibrio delle forze politiche dello scenario mondiale.

Alle Nazioni Unite però devono essere assicurati mezzi e capacità decisionali, deve essere garantita la realizzazione di un organismo autonomo non vincolato né alla logica dei voti, né all’influenza delle superpotenze.

La condizione indispensabile, infatti, per garantire uno sviluppo che tenga conto della salvaguardia dell’ambiente e che racchiuda in sè  l’idea di un utilizzo delle risorse nel territorio nazionale è la creazione di soggetti sovrastanti, non asserviti alle influenze delle economie forti, ma dotati di regole condivise ed efficaci, valide per il mercato ed i commerci, quali possono essere ad esempio il controllo e la tassazione dei flussi finanziari (tobin tax) e l’azzeramento del debito dei paesi più poveri.

Tutto questo presuppone che la diversità culturale mondiale divenga una condizione preliminare per costruire un dialogo reale tra i popoli, che il riconoscimento della cultura come forza dominante non costituisca un'eccezione, bensì il fondamento del nuovo processo di civilizzazione, che la cultura non si limiti solo alle arti e alla letteratura, ma che essa inglobi tutti gli aspetti della vita nella sua dimensione spirituale, istituzionale, materiale, intellettuale ed emotiva nei diversi tessuti sociali.

In poche parole che la cultura - in un mondo aspro fatto di forze spesso in contrasto tra loro- possa assumere il ruolo di "forza buona" capace di incidere sui processi della storia.

Riconoscere che cultura e sviluppo sono indissociabili, senza limitarsi ad un semplice approccio commerciale ed economico della cultura, è essenziale per costruire il futuro.

Inoltre, è necessario realizzare valori minimi uniformi di protezione sociale, definire le linee-guida di una politica coordinata di lotta alla povertà, all’esclusione, alla dipendenza, offrendo ai cittadini la disponibilità di un pacchetto fondamentale di risorse non solo in termini di reddito, ma anche di formazione, di assistenza sanitaria, di capacità di comunicare e di avere relazioni.

Solo se ci sarà progresso in ognuno di questi settori saremo in grado di dare risposte positive al movimento che è nato a Seattle e che via via è cresciuto passando per Genova e Porto Alegre e che si è ulteriormente sviluppato nei vari forum sociali.

Con questo movimento noi ci siamo confrontati. Abbiamo riscontrato delle differenze ma abbiamo trovato anche tante analogie sul merito delle questioni. Non possiamo rinnegare però che la nostra cultura e la nostra storia  ci impongono il rifiuto della violenza ed è questo per noi il punto di partenza.

L’affermazione dei diritti universali, della libertà di scelta, della realizzazione del proprio futuro, della consapevolezza del proprio essere, può esserci solo in un mondo che si sviluppa in maniera disciplinata, sconfiggendo disuguaglianze e instabilità.

Infatti, in un processo di "democratizzazione" - il più grande ostacolo mi sembra proprio la povertà in cui si trovano determinate popolazioni.

Sono la povertà e il malessere su cui fanno leva gli stessi terroristi, sono la povertà e il malessere che provocano guerre civili ed è certo che gli atti di forza non indeboliscono il terrorismo, bensì lo rafforzano e i fatti dimostrano come la guerra non sia efficace come strumento di contrasto.

Il terrorismo  non ha nessuna giustificazione,  mai. Come la violenza o i conflitti armati.

La politica ha quindi il compito di  annullare le sperequazioni, di prevenire i conflitti sociali con interventi preventivi e non successivi, di costruire quella cultura dei diritti civili che sono alla base della convivenza pacifica tra i popoli.

E' chiara la difficoltà dell'attuale situazione mondiale, e credo che per cambiare le cose non possiamo non pensare a dei grandi cambiamenti: solo che per farli ci vogliono persone che la pensino allo stesso modo e portino avanti un progetto comune. E al momento non ce ne sono.

Noi, nel nostro piccolo angolo di provincia del mondo, stiamo assistendo ad un assalto - senza precedenti dalla nascita della Repubblicana Italiana - contro gli istituti democratici, la divisione dei poteri, le fondamenta dello stato di diritto, la libertà e il pluralismo dell'informazione e della comunicazione.

Il nostro paese sta vivendo anni duri con l’attacco ai diritti dei lavoratori, al lavoro pubblico, con esternalizzazioni, privatizzazioni, ecc..

Quella che emerge è un’economia di carta, un’economia basata sulle speculazioni immobiliari, che produce solo profitti e truffe, mentre le fabbriche se non addirittura interi settori produttivi chiudono  e la gente perde il lavoro.

L’evasione fiscale e il lavoro nero sono diventati la regola dopo le troppe sanatorie e i troppi condoni e concordati preventivi.

La riforma delle Agenzie fiscali, la stessa scelta di non dotarle di mezzi idonei, mettono in discussione il ruolo di controllo che compete loro per stanare e combattere l’evasione fiscale,  elemento indispensabile per difendere i diritti dei cittadini.

Nonostante tutto ciò, Berlusconi tappezza le città di manifesti nei quali sostiene di aver mantenuto le promesse del contratto firmato con gli italiani.

Di fronte ad una crisi di queste dimensioni, ad una finanziaria nazionale che bene rappresenta il crollo che ha avuto il paese,  ancora una volta il governo si dimostra incapace di fronteggiarla.

Ma forse più che di incapacità dovremmo parlare di mancanza di volontà ad affrontare realisticamente i problemi che schiacciano il paese, senza falsi proclami sulla sua presunta crescita e senza attribuire alla poca oculatezza delle casalinghe nel fare la spesa, la difficoltà delle famiglie italiane ad arrivare alla fine del mese.

E’ una manovra quella per il 2006 che ha previsto grossi tagli nei trasferimenti agli enti locali,  che non sostiene né l’occupazione, né gli investimenti, né i redditi, che non prevede nulla per il Mezzogiorno ma che ripristina la famosa Una tantum.  

Il sistema  del welfare locale  si dimostra sempre più inadeguato a rispondere ai bisogni dei cittadini e si costringono i Comuni a chiudere asili, ridurre l’assistenza agli anziani ed ai portatori di handicap, tagliare il sostegno ai soggetti bisognosi, chiudere le mense, tagliare i contributi per affitti e trasporti, ecc..

Il governo scarica sulle autonomie locali parte del proprio fallimento, costringendo i Sindaci a tagliare servizi e contemporaneamente  ad aumentare tariffe ed imposte locali, mentre invece riteniamo che sia il tempo di dire con forza e con chiarezza che le risorse da destinare alla spesa sociale nel nostro paese devono essere aumentate.

In Italia, lo sviluppo del paese non può prescindere dallo sviluppo del Mezzogiorno.

Del pari non può esserci sviluppo europeo se i Mezzogiorni non possono guardare ad una diversa politica dell’area mediterranea, sia dal punto di vista culturale,  che della politica estera.

All’interno del nostro congresso abbiamo voluto che si tenesse una tavola rotonda sul tema “L’integrazione mediterranea. Il ruolo del lavoro pubblico” perché riteniamo importante proseguire nella strada tracciata dalla I^ Conferenza dei Sindacati del Mediterraneo.

Significa, quindi, proseguire sulla strada del rafforzamento dei rapporti bilaterali con i sindacati dell’area poiché siamo convinti che il potenziamento del ruolo sindacale e l’approfondimento del dialogo fra le parti sociali possano contribuire in misura determinante a riproporre in sede europea politiche decisive per il rilancio dello sviluppo del bacino del Mediterraneo anche attraverso lo stesso rilancio della cooperazione tra Europa – Paesi terzi del Mediterraneo (PTM) e Balcani.

A dieci anni dalla Conferenza di Barcellona (1995), le organizzazioni Sindacali sono unanimemente concordi nel constatare che i risultati sono molto inferiori alle aspettative.

 Il partenariato consisteva nello stabilire un legame tra sviluppo economico, pace e democratizzazione.

Per il movimento sindacale il bilancio del partenariato è deludente ed è difficile non costatarne il relativo scacco.

Ma malgrado tutte le critiche e le riserve formulate, il partenariato resta la strada da seguire!

La sua idea di base merita di essere salvaguardata e sviluppata.

La conferenza ribadisce che pace, rispetto dei diritti umani, rispetto dei diritti dei lavoratori fondati sulle norme dell’OIL e politiche economiche a favore dello sviluppo e del progresso sociale, siano strettamente legati per un rafforzamento della multilateralità e delle integrazioni regionali.

Un partenariato rinnovato dovrebbe rafforzare i principi del processo ovvero, legalità, corresponsabilità, solidarietà e cooperazione nell’ambito unilaterale.

La PEU non può svuotare il partenariato dal suo carattere regionale.

Il partenariato Euromed non ha migliorato il livello di vita dei lavoratori e delle popolazioni, motivo per il quale il Mediterraneo non deve ridursi ad una semplice zona di libero scambio, ma trasformarsi in un ambito privilegiato per promuovere lo sviluppo e la democrazia.

Noi riteniamo che il libero scambio non sia la risposta  esclusiva per lo sviluppo.

Sono necessarie politiche di coesione sociale e territoriali, per l’attuazione e lo sviluppo delle quali, i servizi pubblici e gli stati membri svolgono un ruolo essenziale nel rispetto delle norme internazionali del lavoro.

Si richiede, pertanto, la messa in atto di misure concrete che favoriscano posti di lavoro, soprattutto nel settore dei servizi pubblici.

Inoltre, bisognerebbe adottare misure adeguate per creare occupazione stabile, di qualità, che tenda ad eliminare il precariato nel pubblico impiego. E’ su questi temi che svilupperemo la discussione nella nostra tavola rotonda.

In questi ultimi quattro anni nel paese non si è creata ricchezza, sono solo aumentate le disuguaglianze e la nuova finanziaria tende a proiettare sul futuro la soluzione di questi problemi.

Con questi presupposti l’Italia rischierebbe un rapido declino, avviandosi verso il tramonto.

Quando parlo di tramonto dell’Italia, non mi baso solo sulle mie impressioni, ma anche sugli indicatori che ci mostrano le reali condizioni del paese.

L’Italia sta diventando un ex paese industriale che ha smantellato o sta smantellando buona parte della sua industria, una volta ben piazzata nel mondo: chimica, farmaceutica, informatica, elettronica, aeronautica.

L’Italia è il paese con più persone anziane al mondo e con la minore fertilità tra i paesi industrializzati: da anni le nascite sono meno delle morti. I nostri livelli di istruzione, di cultura, di ricerca scientifica e tecnologica sono tra i più bassi in Europa. Tra i paesi industriali abbiamo una delle più basse percentuali di laureati e il più alto numero di maghi, pubblicitari e guaritori. Invece di investire e lavorare per il futuro stiamo consumando le risorse che ci rimangono.

Nella quota delle esportazioni mondiali in dieci anni siamo scesi dal 5 al 3,6 per cento. Nelle esportazioni mondiali di prodotti tecnologici stiamo scomparendo con un piccolo 2,5 per cento, mentre Francia e Germania sono al 6 e all’8 per cento.

Esaminando la posizione dell’Italia nel contesto internazionale non c’è da stupirsi se siamo il paese industriale che attira meno capitali stranieri. Gli investimenti delle multinazionali in Italia sono diminuiti dell’11 per cento nel 2001, del 44 per cento nel 2002.

E una finanziaria come quella approvata da questo governo, può solo uccidere ogni speranza di ripresa nel breve periodo: è necessario sostenere la domanda di consumi e di investimenti, e introdurre certezza nei conti pubblici.

Se non si farà questo, il pericolo che si corre è di continuare a vivere ancora in questa fase di stagnazione.

Se osserviamo la posizione dell’Italia in alcune classifiche internazionali può sembrare quella di un paese fortunato: settimo PIL al mondo, quarto posto tra i grandi paesi per numero di automobili e di telefonini per abitante. Ma se analizziamo gli indicatori che danno un’immagine più completa dell’Italia e soprattutto delle sue opportunità per il futuro, allora capiamo che siamo al tramonto.

In una ventina dei principali indicatori internazionali che delineano il futuro e la dinamica di un paese, l’Italia si trova tra il ventesimo e il quarantesimo posto. Gli stati che più spesso ci accompagnano in queste classifiche sono paesi in via di sviluppo (Colombia, Namibia, Sri Lanka, Cina, Brasile), paesi dell’Europa dell’est in transizione (Slovenia, Estonia, Slovacchia) o nel migliore dei casi i meno sviluppati tra i paesi europei (Spagna, Portogallo, Grecia).
La differenza preoccupante tra l’Italia e questi paesi è che loro da anni stanno salendo nelle classifiche internazionali, noi invece stiamo scendendo.

Al declino in campo industriale, tecnologico e culturale dell’Italia si aggiunge il declino sociale con un rapido aumento della ricchezza dei ricchi e l’estensione e l’approfondimento della povertà. Nella disuguaglianza dei redditi abbiamo superato perfino gli Stati Uniti: in un decennio (1991-2001) il 20 per cento degli italiani è diventato più ricco, l’80 per cento più povero. Otto milioni di italiani vivono sotto la soglia di povertà e altri quattro milioni vivono appena sopra. Molti di questi poveri e quasi poveri hanno un lavoro o due o tre, ma non gli bastano per vivere decentemente.

Di fronte a questo quadro, che purtroppo non è esagerato, il paese non se la può cavare con qualche aggiustamento o con l’introduzione di buone politiche e di buone pratiche.

No, se vuole risollevarsi davvero.

No, se vuole essere ancora un faro nel panorama della cultura, della scienza, dell’innovazione e della finanza in Europa.

C’è bisogno, invece, di un progetto che ci faccia volare alto, che ci ridia la speranza nel futuro.

E’ questa l’essenza del nostro congresso,  la sua parola d’ordine.

La CGIL ha deciso di tenere il congresso prima delle elezioni perché vogliamo dare un contributo programmatico e perché vogliamo parlare davvero al paese.

Lo facciamo anche con un documento unitario, la prima volta dopo il 1986 e dopo tanti anni di congressi con tesi contrapposte.

La scelta unitaria è maturata  ed è il frutto di tutte le iniziative portate avanti in questi anni, è il frutto di tante battaglie che ci hanno dato la forza, l’impulso, la competenza e la consapevolezza di essere importanti per il paese.

Noi pensiamo che da una crisi come questa, alimentata da cause strutturali storiche, acuita esageratamente dalle scelte di questo governo e di questa maggioranza, si esce solo riprogettando il paese.

E come dice Guglielmo Epifani riprogettare il paese vuol dire partire dalle quattro parole d’ordine che accompagnano il nostro progetto: lavoro, saperi, diritti e libertà.

Bisogna ripartire dal lavoro perché per  progettare un paese il lavoro, il suo valore e la sua centralità sono il punto di partenza.

Bisogna ripartire dai saperi, perché sia sul versante della qualità del lavoro che su quello della qualità dello sviluppo bisogna introdurre il rinnovamento e la conoscenza.

Bisogna ripartire dai diritti, perché in Europa e nel mondo la globalizzazione lavora per schiacciarli mentre c’è bisogno di trovare un punto di partenza reale alla richiesta di più diritti.

E bisogna infine ripartire dalle libertà, perché la conseguenza di una politica dei diritti è un modello con un più rilevante concetto di libertà e di responsabilità per tutti.

E’ una bella sfida quella lanciata da Gugliemo Epifani e dalla CGIL, è una sfida che va sicuramente colta e vanno sicuramente attivate tutte le iniziative necessarie per metterla in atto. E quindi ricambio della maggioranza di governo ma anche ricambio negli ideali, nei progetti e nei loro contenuti, iniziando dal riscrivere le leggi scriteriate che questo esecutivo ha approvato nel corso degli anni  (vedi la legge 30, la legge Moratti, la Bossi-Fini, e tutte quelle finalizzate a mettere sotto il controllo politico la Magistratura).

Leggi che vanno totalmente e radicalmente riscritte partendo da un diverso concetto di base e da una diversa visione della società.

Visione diversa che bisogna utilizzare anche parlando di equità redistributiva.

E’ indispensabile, infatti, utilizzare le leve fiscali per far sì che sia quella parte del paese che si è arricchita di più in questi anni a dare il maggiore contributo nel processo di risanamento del paese.

Non si può permettere che i costi della crisi e del risanamento colpiscano ancora una volta le classi lavoratrici e i ceti più deboli ai quali non si può più chiedere nulla.

In questi anni l’avere “favorito” fiscalmente  i redditi più agiati ha messo in discussione il Welfare e lo sviluppo dell’equità sociale.

E’ necessario, piuttosto, che alle condizioni di risanamento finanziario si accompagnino condizioni politiche e istituzionali capaci di garantire quella stabilità che oggi è condizione del risanamento e della modernizzazione del paese.

La destra italiana ha portato avanti invece una politica permeata di egoismo, di odio, di razzismo sociale, asservita agli interessi di un ristrettissimo gruppo di persone , impreparata ed incompetente in materia economica.

E’ stata sostenitrice di un liberismo senza regole, del disimpegno dello stato, dello smantellamento del welfare.

Un liberismo da far valere contro lo stato e contro i propri nemici, ma da rinnegare quando si tratta di tutelare i propri interessi.

I primi provvedimenti di politica economica e sociale che questo governo ha adottato miravano a diminuire i vincoli per le imprese e ad aggredire i diritti dei lavoratori, come esplicitamente è stato fatto nel caso dell’art. 18, a cancellare le tutele e le conquiste sociali per tutelare gli interessi del premier e dei suoi sostenitori.

Quattro anni fa la CGIL ha denunciato questi pericoli e ha chiesto di correggere la rotta, mettendo in campo quella mobilitazione che ha caratterizzato una lunga ed entusiasmante stagione di lotta e di resistenza.

A distanza di quattro anni ci troviamo a vivere in un paese che è ancora in crisi, con i conti pubblici allo sbando e con l’unione Europea che ci tiene costantemente sotto controllo  costringendo il governo ad adottare continue manovre correttive.

Un’azione di governo, insomma, che ha prodotto guasti e degrado. Che ha accresciuto povertà e disagio, precarietà ed emarginazione, solitudine e smarrimento disgregando il tessuto economico e sociale del paese  e contestualmente riducendo gli spazi di democrazia.

Il controllo esercitato dal Presidente del Consiglio sull’informazione si è accresciuto e consolidato, ed era mirato a risolvere il problema di Rete 4,  ad intervenire sui tetti pubblicitari e a  favorire le emittenze televisive private.

Ed ecco che prontamente è stata promulgata la legge Gasparri,  ed ecco che sono arrivati nella finanziaria i contributi per l’acquisto dei decoder per il digitale terrestre.

Conflitto di interessi? Non diciamolo neanche! Solo destinazione da parte del governo Berlusconi, di risorse pubbliche a vantaggio di privati, e che privati!

Non è ancora finita.

Abbiamo assistito ad innumerevoli provvedimenti per tentare di salvare  – a volte riuscendoci – sè stesso e i suoi amici dalle sentenze dei tribunali: vedi rogatoria internazionale, sanatoria sul rientro dei capitali dall’estero,  depenalizzazione del falso in  bilancio, legge sul legittimo sospetto e sulla  riduzione dei termini di prescrizione.

Sono il fiore all’occhiello di un’intensa attività legislativa intenta a salvare il premier e i suoi amici dalle vicende giudiziarie che li colpivano.

Questa intensa attività legislativa è stata accompagnata dal taglio delle risorse da destinare al funzionamento del Ministero della Giustizia,  creando grossi problemi ai tribunali già stroncati dalle gravi carenze di organico e dalla mancanza di risorse anche per le attività più spicciole.

Attaccato il sistema giudiziario la corsa è continuata portando avanti l’attacco alla Costituzione.

Il 24 Maggio di quest’anno abbiamo tenuto a Messina con la Funzione Pubblica Nazionale un convegno sulla riforma Costituzionale e già allora ci eravamo schierati a favore del  referendum per abolire la stessa legge costituzionale.

Lo spirito che anima la stesura di ogni moderna Carta costituzionale dovrebbe essere quello di un processo partecipato e aperto al dialogo con le minoranze.

Sicuramente non si può dire che la riforma costituzionale fatta da questo esecutivo si sia ispirata a questi principi.

Le Costituzioni, infatti non sono normali leggi, prodotti della maggioranza del momento, ma contengono i principi e le regole fondamentali della convivenza comune, un minimo comune denominatore che definisce l’identità di un popolo.

Le Costituzioni sono di tutti:  maggioranza e opposizione.

La legge approvata, invece, mette radicalmente in discussione l’universalità dei diritti a cominciare da quelli alla salute e all’istruzione.

Il tentativo non dichiarato è di instaurare una vera e propria “dittatura della maggioranza”, come ha denunciato Romano Prodi, mutuando l’espressione da uno dei padri della costituzione americana: Alexander Hamilton, il quale coniò tale formula, quando si ragionava sulla possibilità che il presidente degli Stati Uniti potesse sciogliere la Camera dei rappresentanti  e il Senato.

Possibilità che nella stesura finale della Carta fondamentale Americana venne negata, mantenendo la separazione tra i due poteri.

In Italia, invece, con la riforma costituzionale si concentrano nelle mani del Presidente del Consiglio enormi poteri, compresi quelli di sciogliere le camere.

Inoltre, nella nuova legge elettorale con l’introduzione del sistema proporzionale senza preferenza, la scelta degli eletti  si concentra nelle mani di poche persone delle segreterie  politiche dei partiti.

Sul Piano della sicurezza non stiamo meglio.

Oramai è divenuta una costante. Anche nella finanziaria del 2006 ci sono tagli del 20-30% ai capitoli strategici del Ministero dell'Interno.

E' l'ennesima conferma del disinteresse assoluto di questa maggioranza nei confronti degli operatori della sicurezza e dei cittadini. 

I tagli effettuati nelle precedenti finanziarie hanno già prodotto danni incalcolabili. In questi ultimi anni gli operatori delle Forze di Polizia sono stati costretti a fare i conti con il razionamento del carburante, dei trasporti, dei mezzi informatici, delle divise, di tutto il necessario per  poter offrire ai cittadini maggiore sicurezza.

Sicurezza dei lavoratori di polizia significa  sicurezza dei cittadini.

E che dire della Polizia penitenziaria?

Non possiamo tacere le difficili condizioni in cui si svolge il loro lavoro. Perché è questo il vero riconoscimento che possiamo tributare agli Agenti di Polizia Penitenziaria. Lavorare in carcere, nelle carceri sovraffollate di oggi, garantire le condizioni di legalità e sicurezza costituiscono il compito più difficile, a volte il più duro.

Il carcere non è un mondo a parte, riflette le inquietudini, i malesseri e i bisogni della società civile, si incrociano vite il più delle volte disperate, storie difficili, segnate da scelte devianti o da drammatiche situazioni ambientali e sociali.

E’ un “mestiere” altamente usurante perché  è difficile confrontarsi con le realtà più disparate che convivono all’interno del carcere.

Situazioni difficili da gestire.

Altissimo è infatti il numero di suicidi che si registra sia fra i detenuti che fra gli agenti di Polizia penitenziaria.

A fronte di ciò è chiaro che la complessa macchina penitenziaria non può prescindere dall’affrontare gli aspetti organizzativi per aumentare l’efficienza e l’efficacia dei suoi interventi.

Anche il Corpo nazionale dei Vigili del fuoco sconta gravi carenze organiche  e gravi carenze finanziarie che gli impediscono di assolvere a tutti i compiti istituzionali di  competenza.

Opera con numero di addetti inferiore al minimo previsto dai criteri tecnici di sicurezza e di efficienza a fronte di sempre nuove competenze ed incarichi che vengono loro attribuiti.

I servizi resi dal Corpo nazionale dei VV.FF. sono indispensabili.

E' incalcolabile, il patrimonio di vite umane e di beni materiali salvato ogni anno dai VV.FF., e è inimmaginabile che si possa morire in servizio, prestando  soccorso a chi si trova in difficoltà, solo perché si è costretti a lavorare senza i mezzi necessari e in condizioni disumane.

Per tutte queste ragioni l'efficienza del  Corpo nazionale dei VV.FF.  non può essere ridotta a causa delle ristrettezze economiche, ma deve, invece, ricevere la massima attenzione da parte del  Governo.

Non è pensabile neanche  che il loro contratto diventi di diritto pubblico e quindi non sia più oggetto di contrattazione.

Compagne e compagni, le cose da dire sono tante, e gli scempi portati avanti da questo governo innumerevoli, e noi, per il ruolo che esercitiamo, non possiamo non dire la nostra.

Non possiamo lasciare che tutto ciò ci scivoli addosso con indifferenza.

Abbiamo l’obbligo morale di esprimere a gran voce il nostro dissenso ed attivarci, ancora una volta, per combattere gli ulteriori attacchi mirati a demolire l’unità dello Stato.

La devolution  abolisce la solidarietà ed è il frutto di una visione egoistica e localista, ma soprattutto ci presenta un’idea mercantile dello Stato, un’idea  di società basata sulla competizione e sull’antagonismo, sorretta solo dalla rappresentanza degli interessi, che antepone le pretese dei forti ai diritti dei deboli.

Prevedere 21 diversi sistemi di sanità e di istruzione che determinati e rapportati  alla ricchezza di ciascuna Regione, vuol dire cancellare diritti che la Costituzione garantisce come diritti universali.

La costituzione di 21 sistemi di polizia locale, e nessuno ha ancora capito cosa dovrebbero fare, rappresenta un pericoloso passo indietro sul terreno del coordinamento delle tante polizie militari e civili già esistenti.

Se raffrontiamo questa proposta con i processi di globalizzazione  delle attività illecite e criminali, capiamo quanto la stessa sia ridicola, per di più se si pensa che ci sono competenze che verrebbero ad essere spostate dai Comuni alle Regioni. Si rischia di accentrare attività che invece devono essere ben radicate nel territorio e con la maggiore prossimità possibile ai cittadini.

Il tema del nostro congresso è il lavoro pubblico e il suo valore.

Questo tema lo abbiamo approfondito nella conferenza programmatica di Roma il 27 e il 28 giugno 2005. In quella sede, Carlo Podda nella sua relazione sosteneva che dobbiamo promuovere una nuova idea dello sviluppo che non rinnovi il vincolo del risanamento finanziario ma si ponga il tema della sostenibilità economica in luogo della esclusiva sostenibilità finanziaria, e che promuova la costituzione di un nuovo blocco sociale incardinato sull’uguaglianza come valore fondamentale di un nuovo patto di cittadinanza.

Bisogna esporre i fondamenti di una nuova idea di società su un nuovo spazio pubblico, intendendo per questo il luogo nel quale si identificano e si acquisiscono i beni comuni, i beni sociali, i beni collettivi.

In questo luogo si svolge l’azione dello Stato, per meglio dire del pubblico in economia e non si tratta solo di regolare il mercato e di sorvegliare che le regole dettate siano effettivamente rispettate.

Nella nostra cultura il lavoro resta uno dei fondamentali principi dell’identità delle persone e della cittadinanza, per questo avvertiamo e segnaliamo preoccupazioni per il venir meno della necessaria attenzione delle forze politiche al valore sociale del lavoro.

E’ necessario mettere in atto approcci nuovi per rilanciare le politiche pubbliche e ciò  non solo per risalire la china del declino economico e del disagio sociale, ma anche per determinare un nuovo e più avanzato modello di sviluppo,  che garantisca la tutela dei diritti per tutti.

In tale contesto valorizzare l'azione pubblica diventa un obiettivo strategico dell'azione di governo per migliorare la vita economica e sociale del Paese.

Pertanto la valorizzazione e la riqualificazione del personale pubblico diventa un’esigenza prioritaria  per apportare una maggiore funzionalità agli apparati e migliorare la qualità dei servizi alle persone e alle imprese.

In tale dimensione di “nuove e motivate missioni” per le pubbliche amministrazioni si collocano le politiche verso il lavoro pubblico.

Il Governo della destra, ha assunto diverse iniziative che lo hanno colpito pesantemente.

Ne ricordiamo alcune:

  • La creazione di strutture decisionali “parallele” attivate tramite il ricorso sistematico alle consulenze anche per le funzioni proprie delle amministrazioni, fino a determinare una sorta di organismo decisionale parallelo che priva di autorità quello pubblico;

  • Il blocco delle assunzioni per le amministrazioni centrali e i limiti imposti per le amministrazioni territoriali (Regioni; autonomie locali….;) hanno portato e porteranno ad un forte invecchiamento del personale pubblico;

  • L'estensione generalizzata dello spoil system;

  • Programmati e reiterati ritardi della contrattazione fino a un sostanziale blocco della medesima.

Tutto ciò ha determinato demotivazione ma anche dequalificazione del lavoro pubblico.

Quando il governo mette in atto  iniziative come queste e procede con scelte precise, mette in  atto un’opera di demolizione del “lavoro pubblico” e al tempo stesso si mettono in discussione i diritti dei cittadini.

Vorrei spiegare meglio questo concetto con due esempi: squalificare il lavoro nella sanità vuol dire indebolire il diritto dei cittadini alla salute, tagliare le risorse agli Enti Locali significa abbattere il sistema del welfare locale.

Per questo le battaglie fatte in questi anni dalle CGIL non sono più solo per il contratto ma per il lavoro pubblico, per i suoi contenuti e  il suo valore.

Quando fu avviata la stagione delle riforme, la stessa fu avviata con un protocollo sul lavoro pubblico nel quale si delineavano le linee guida e gli obiettivi del processo di riforma, gli strumenti  della concertazione con le parti sociali, gli specifici spazi riservati alla contrattazione, le modalità di partecipazione dei lavoratori, la necessità di un forte investimento sul capitale umano destinando alla formazione per il lavoro pubblico risorse
 ad hoc.

Ritengo che sia una strada ancora da percorrere,  magari individuando specifici progetti di qualità ed efficienza, unitamente a sedi e funzioni di  verifica dell'iter attuativo e di  valutazione dei risultati,   definendo politiche motivazionali e per la promozione di nuove  qualità professionali per il lavoro pubblico.

Si tratta di uno strumento necessario per far ripartire il processo di modernizzazione delle Pubbliche Amministrazioni, definendo le sedi di confronto fra le amministrazioni, le rappresentanze degli addetti e quelle degli “utenti” e delle realtà produttive e dei servizi;  proponendo una nuova formazione con risorse mirate e chiaramente identificate, con un disegno unitario che deve presiedere alle iniziative che nelle amministrazioni debbono accompagnare  e favorire i processi di  innovazione e di nuova qualità. 
Occorre, inoltre, supportare le politiche per la qualità dei servizi e la valorizzazione del lavoro pubblico mediante:

  • l'abrogazione delle leggi controriformatrici introdotte dal centro-destra;

  • una nuova legislazione sulla dirigenza, con la quale si rafforzi la distinzione tra politica ed amministrazione, si preveda  una più forte tutela dell'autonomia della dirigenza, si garantisca l'autonomia contrattuale e l'intangibilità dei contratti, si introducano meccanismi oggettivi e trasparenti di valutazione sull'operato;

Tutto ciò sarà possibile solo in un clima positivo attento alle innovazioni introdotte ed attento altresì al principio democratico di piena contrattualizzazione del rapporto di lavoro pubblico e di estensione per via legislativa delle innovazioni in tema di rappresentatività già acquisite dalla  legislazione sul pubblico impiego fin dal 1997. 
Per questo è utile individuare un terreno di lavoro intorno al quale sviluppare un “patto”. Esso dovrà essere costruito e garantito, in sedi non negoziali, ma di confronto per la ricerca di soluzioni, con la  partecipazione democratica delle amministrazioni, delle  organizzazioni sindacali, delle organizzazioni dell'utenza e delle imprese.

Potrà essere la sede nella quale confrontare i programmi generali, le scelte che le singole amministrazioni intendono portare avanti in tema di obiettivi da perseguire (gestione dei servizi, nuovi servizi, innovazioni di processo e  tecnologiche, semplificazioni) ed i correlati progetti di organizzazione.

In tal modo la conseguente contrattazione aziendale, proprio nella sua funzione di “ponte”, potrà avere una sua effettività ed una sua controllabilità sociale, resa anche possibile dalla  generalizzazione degli strumenti innovativi introdotti a partire dagli enti locali ( bilancio sociale; partecipativo; di programma; etc.). 

Oltre alla dequalificazione del lavoro nella P.A. assistiamo alla proliferazione del lavoro “precario” che ha determinato un pesante sconvolgimento del sistema del mercato del lavoro pubblico fino a mettere in discussione le stesse garanzie di imparzialità e buon andamento sancite dall'art. 97 della Costituzione.

L'impatto del fenomeno sulla qualità dei servizi, soprattutto dei servizi alle persone e sui diritti dei lavoratori è rilevante.

Non meno pesante è tuttavia l'impatto sulla imparzialità e trasparenza dell'amministrazione: i lavoratori precari, infatti, sono assai più facilmente ricattabili dal potere politico.

La questione va affrontata nel quadro del ricordato patto per la qualità del lavoro pubblico, che, dovrà prevedere tra l’altro le  iniziative di carattere legislativo e contrattuale per la stabilizzazione del lavoro precario.

Contratti di lavoro temporaneo dovranno dunque essere ammessi solo per attività pubbliche a carattere non stabile né ricorrente.

Nel quadro del patto, dovranno anche essere previsti:

  • un disegno organico di riforma degli accessi;

  • la previsione di normative specifiche che sanzionino le PP.AA. che attraverso il lavoro precario violano le normative vigenti in tema di lavoro o rendono precari servizi con i quali si garantiscono diritti  tutelati costituzionalmente;

  • un sistema di ammortizzatori e di garanzia dei diritti.

  • la contrattazione dei processi di mobilità con i quali rendere possibili i trasferimenti di poteri e funzioni alle istituzioni locali ed accompagnare le innovazioni e le riorganizzazioni

Occorre infine riprendere dopo quattro anni di blocco indiscriminato del turn over il principio della programmazione degli accessi.

Attraverso le politiche di bilancio le Pubbliche Amministrazioni definiscono anche una idea di società, un modello sociale.

Il Bilancio degli Enti locali e della Regione non è uno strumento contabile neutrale di rappresentazione delle entrate e delle uscite, ma bensì un documento fondamentale della vita delle  Amministrazioni Pubbliche.

Rappresenta il momento in cui la collettività, attraverso la rappresentanza politica, decide il modo con cui la ricchezza deve essere impiegata per il soddisfacimento di interessi collettivi.

Noi osserviamo quotidianamente il graduale e continuo ridisegnarsi di un modello sociale che abbandona l’universalità e l’esigibilità dei diritti sociali, il valore del lavoro come fattore di libertà e di promozione sociale, la centralità delle rappresentanze politiche e sociali.

Ma soprattutto osserviamo il venir meno di una dimensione della politica al servizio delle comunità amministrate con l’obiettivo di promuoverne la partecipazione, il benessere, la coesione.

E ciò si giustifica con la motivazione di governare l’emergenza economica e si riducono così  la  progettualità politica e la democrazia nell’esercizio del governo locale.

Si privilegiano criteri amministrativi e contabili e si esasperano i principi aziendalistici nella gestione dei servizi.

Si esternalizzano in modo massiccio funzioni e responsabilità pubbliche ai diversi attori del mercato, siano essi individui, famiglie o imprese, profit e no profit.

Si riduce il costo del lavoro riducendo i diritti e le tutele dei lavoratori applicando contratti meno tutelanti ai lavoratori oggetto di trasferimento a seguito di esternalizzazioni.

Si ricorre alla precarizzazione diffusa, impoverendo, così, le professionalità ed indebolendo il legame tra la motivazione del lavoro pubblico e la consapevolezza della sua utilità sociale.
Sono questi gli effetti sociali della finanziaria 2006, che abbiamo denunciato e contrastato con lo sciopero generale dello scorso 25 novembre.

E spesso nel mercato si confondono gli interessi pubblici con quelli privati e viene meno quella funzione di terzietà che dovrebbe essere assicurata dall’amministrazione pubblica.
Sotto questo aspetto credo che si ponga con sempre maggior urgenza la necessità di recuperare un ethos pubblico riscoprendo il valore del principio di legalità che si va affievolendo nella gestione delle risorse e delle responsabilità pubbliche.

E ciò non solo nelle pratiche legate alle concessioni di servizi, agli appalti, ma anche nell’uso sempre più spregiudicato del mercato del lavoro, che anche nella pubblica amministrazione è spesso al disotto delle legittimità.

Per questo pensiamo che il lavoro pubblico meriti una nuova attenzione ed un nuovo investimento riformatore. Siamo convinti che il lavoro pubblico abbia in se quattro grandi opportunità sulle quali vale la pena di investire:

  • Assicurare i diritti fondamentali delle persone. I luoghi pubblici come fabbrica dei diritti e del benessere sociale;

  • Contribuire a promuovere lo sviluppo investendo sulla conoscenza, sull’infanzia, sulla prevenzione, sulle politiche attive del lavoro.

  • Favorire gli investimenti economici e gli insediamenti produttivi. Una amministrazione pubblica di qualità costituisce una infrastruttura indispensabile alla promozione dello sviluppo.

  • Essere frontiera e presidio di legalità.

A partire da questa riflessione sul valore del lavoro pubblico andrebbe affrontato il tema dei beni pubblici che garantiscono diritti fondamentali e che per questo devono essere oggetto non solo di programmazione e controllo ma anche di gestione diretta da parte del pubblico come sanità, istruzione, assistenza, cultura, servizi idrici e rifiuti.

Le amministrazioni pubbliche devono però affrontare con rigore il tema della riorganizzazione del lavoro e dei servizi.

Il bilancio pubblico andrebbe utilizzato come leva per riprogettare un paese più giusto, più coeso, più solidale. Lo stato sociale ha un futuro se va assunto come investimento sociale e non come semplice costo.

Abbiamo affermato nella nostra discussione che la CGIL  sarà tanto più forte quanto più sarà capace di realizzare un congresso partecipato, concentrato nel merito dei problemi e capace di valorizzare le scelte compiute, come l’adozione di un documento unitario.

Ma proprio perché un’occasione così importante non corra il rischio di riproporre posizioni e schieramenti precostituiti, come Funzione Pubblica abbiamo presentato alcuni emendamenti sui temi centrali come la democrazia il lavoro pubblico e la politica economica.

Noi vogliamo affermare in maniera ancora più incisiva di come fa la tesi n. 4 che il benessere è un diritto a godere di quei beni comuni come la salute, la cultura, l’istruzione, l’acqua, l’ambiente che non possono essere acquistati ma ai quali il cittadino in quanto tale deve potere accedere.

E l’accesso a questi beni può essere garantito solo dal lavoro pubblico.

L’attacco al lavoro pubblico lo vediamo giornalmente anche alla Regione.

Alla  Regione oggi viene messo in discussione il ruolo stesso dei dipendenti, non si fanno le dotazioni organiche, si governa con gli esperti, con i consulenti, con gli uffici di Gabinetto, con gli uffici speciali, depauperando le professionalità esistenti.

Alla  Regione oggi conta solo l’appartenenza politica e non le capacità professionali dei dipendenti.

Questo ha fatto sì che il lavoro pubblico fosse asservito al potere politico dominante, svuotato, svilito, a favore di varie forme di privatizzazione e di precarizzazione, con la conseguenza di generare da una parte meno diritti per i lavoratori e dall’altra la sostanziale negazione dei diritti di cittadinanza.

Allargando lo sguardo all’Europa, oggi si confrontano approcci diversi sui temi dello stato sociale  e della tutela  del lavoro ed è entrata in sofferenza l’idea della costruzione di un’area europea all’interno della quale si realizzi una progressiva espansione dei diritti.

Questa difficoltà ha contagiato la stessa Commissione Europea che invece di farsi promotrice di un’armonizzazione della legislazione sui diritti nei diversi stati membri ha promosso la direttiva  Bolkestein che è contraria alla nostra idea di Europa sociale basata su una maggiore occupazione, sui servizi pubblici di qualità, sui beni comuni, sui diritti dei cittadini, sui diritti del lavoro.
 

Come afferma la Segreteria della CGIL questi beni che rappresentano il fondamento dell’Europa, delineata con la strategia di Lisbona, già sotto attacco a causa delle politiche governative liberiste che spingono per un’idea di sviluppo a scapito dei diritti e delle stabilità del lavoro, sono oggi minacciati alla radice nella loro esistenza da una direttiva che interviene:
 

·    Tramite la piena commercializzazione dei servizi di interesse generale e degli altri servizi pubblici con i quali i singoli stati e gli altri soggetti istituzionali responsabili (regioni, enti locali) garantiscono uguaglianza, universalità e crescita sociale;

·    Tramite il principio del paese di origine che rappresenta uno sfrenato dumping sociale e la negazione di tutte le conquiste sociali nel campo dei diritti fondamentali delle persone, ad iniziare dalle funzioni garantite dalla costituzione (salute, assistenza, cultura, istruzione e  sicurezza sul lavoro).
 

E’ una direttiva pericolosa nei confronti della quale noi della FP insieme alla Federazione Europea del Pubblico Impiego (FSESP), alla CGIL e a tanti movimenti italiani ed europei, abbiamo manifestato tutta la nostra contrarietà con una serie di iniziative.

Iniziative che abbiamo tenuto anche in Sicilia insieme ai movimenti sia a livello regionale che nelle varie realtà, anche per far conoscere la direttiva.

Molto spesso pensiamo alla Commissione Europea e al Parlamento di Bruxelles come istituzioni lontane, dove vengono prese decisioni che non incidono sulla nostra vita di tutti i giorni, sul nostro lavoro. Ma non è così.

Le notizie che arrivano da Bruxelles ci preoccupano perché il 22 Novembre 2005 la direttiva è stata approvata, nella sua versione più liberista, dalla Commissione Mercato Interno del Parlamento Europeo.

La maggioranza di centro destra  (partito Popolare, liberali e destra) ha persino respinto la già piuttosto blanda ipotesi di compromesso studiata dalla relatrice socialista Evelyn Gebhardt.

Il risultato è pessimo e il testo della direttiva è persino più pericoloso di quello iniziale.

Non avendo voluto affrontare la definizione  di “servizio di interesse generale” la Commissione ha voluto chiaramente indicare insieme alla Corte di Giustizia la massima ampiezza del termine economico.

La CES ha condannato fermamente il risultato della votazione.

Per quanto ci riguarda, insieme alla Federazione Sindacale Europea dei servizi pubblici, continuiamo a sostenere che la direttiva nella sua forma attuale,  dopo il voto del 22 Novembre, debba essere ritirata. Ora e non dopo l’approvazione dal Parlamento Europeo.

Occorre mettere in campo il massimo della mobilitazione da parte del CES del FSESP, dei Sindacati Nazionali, del Social Forum Europeo e dei movimenti per impedire che venga approvata una direttiva come questa che sulla base dell’ideologia del mercato mette a rischio l’intera costruzione dell’Europa Sociale e la stessa credibilità dell’Unione Europea verso i suoi cittadini.

Il 25 febbraio 2004, abbiamo tenuto un convegno regionale su “Democrazia, Federalismo, Autonomia: la Regione che vogliamo”.

Con quel convegno abbiamo voluto aprire un dibattito non fine a se stesso, ma attivare una riflessione veramente efficace.

La Sicilia nel corso degli anni è stata interessata, e lo è tuttora, da fenomeni di emigrazione verso il Nord del paese. I giovani del Sud, avvocati, ingegneri, medici, lasciano le Regioni di provenienza - prima per proseguire gli studi, poi per trovare lavoro - provocando quella fuga di cervelli che depaupera il Mezzogiorno delle sue risorse umane più qualificate.

In Italia il tasso di disoccupazione medio è  pari al 7,5%, ma analizzando il dato più dettagliatamente ci accorgiamo che lo stesso tasso  è del  3,9% al Nord, del 4,3% nel Nord Ovest, 3,4% nel Nord Est, del 6,3% al Centro e ben del 14,1% nel Mezzogiorno.

Il tasso di disoccupazione giovanile (15-24 anni) è del 35,2% al Sud contro una media nazionale del 22,9%. E secondo le stime sono 500.000 le persone che si spostano dal Sud al Nord ogni anno.

A questo quadro desolante si aggiunge la piaga del lavoro nero e del lavoro precario. La Regione Sicilia è la regione che ha avuto la fetta più grossa di finanziamenti europei, ma è anche la regione a più alto tasso di disoccupazione tra i giovani fino a 29 anni, con il  risultato di essere la regione più povera d’Italia.

Questo ci dimostra come la maggiore spesa non ha prodotto sviluppo e occupazione, come le risorse hanno solo finanziato il sistema delle clientele e il sistema di potere.

La Regione deve essere liberata dall’infiltrazione mafiosa, in qualunque modo essa si manifesti.

E questo non si fa stampando centinaia di manifesti, naturalmente a spese dei cittadini, riportando lo slogan “la mafia fa schifo”, ma si fa con le azioni concrete. In particolare lo deve fare chi governa la Sicilia  da oltre 4 anni e lo deve dimostrare  con le azioni quotidiane.

La mafia  deve essere combattuta su tre fronti: sul terreno culturale e sociale, sul terreno politico istituzionale e sul terreno economico finanziario.

La corruzione, infatti,  rappresenta un onere per la vita istituzionale degli Stati oltre ad avere costi economici significativi.

Determina infatti, oltre  ad un costo in termini economici anche un “costo” i cui effetti si manifestano a lungo termine: la mancanza di fiducia nelle amministrazioni da parte dei cittadini.

Le scelte fatte in questi anni dal governo siciliano non sono state scelte di rottura rispetto all’attuale sistema di potere, né hanno favorito lo sviluppo, né tanto meno abbiamo visto lo stesso governo pronunciarsi contro la devolution che pur ci tocca da vicino.

Le scelte fatte, invece, sono state accentratrici, volte cioè a creare nuovi centralismi regionali, senza mai avvicinare i servizi agli enti locali, e nonostante l’emanazione della legge 10/2000 di riforma della Pubblica Amministrazione, non sono mai andate nella direzione in cui si è andato a livello nazionale con il D.L.29/93.

In realtà questa legge, che già sul nascere presentava luci ed e ombre, è stata spesso male applicata ed in certi casi stravolta e alla fine interpretata ad esclusivo uso e consumo del potere politico, trascurando sicuramente l’interesse generale.

Non sono mai stati applicati i pilastri portanti della legge stessa come ad esempio:

1)     il decentramento di funzioni proprie della Regione agli Enti Locali (tit. IV);

2)     i principi di efficacia, efficienza, economicità e trasparenza;

3)     la separazione tra il potere di indirizzo politico e quello amministrativo.

L’applicazione dello Spoil – Sistem attuato indiscriminatamente e senza limiti ha permesso al potere politico dominante di rendere ancora più soffocante il sistema di controllo, tipico delle strutture di tipo feudale.

Con la conseguenza che alla Regione non vi è più alcuna certezza sul rispetto dei ruoli nelle contrattazioni perché la politica, con l’unica preoccupazione di mantenere lo status quo, espropria continuamente le parti delle loro funzioni.

Bisognerebbe, invece, che la politica si occupasse della Sicilia, del suo sviluppo, del dare lavoro e certezze anche dal punto di vista della sicurezza ai cittadini.

Ma la Regione non dà risposte a nessuno, attua solo una politica di breve respiro concentrata sull’oggi e senza prospettive.

Per i giovani, la loro professionalità, il loro futuro restano solo una chimera, perché questa è una Regione che non dà opportunità, che utilizza le risorse solo per mantenere l’attuale sistema di potere.

La Regione Siciliana in questi giorni ha approvato l’ultima variazione di bilancio del 2005. E’ una legge che contiene di tutto e di più, con norme molto spesso in contraddizione tra loro, ed operazioni sconcertanti che fanno venire meno la certezza dei diritti.

Ad esempio, si tira fuori dal cilindro un provvedimento per reintrodurre le baby-pensioni per i dipendenti regionali, invece di incontrarsi con le parti sociali e discutere di dotazioni organiche, di istituzione del Fondo pensioni per stipulare la convenzione con l’Inpdap e istituire la   previdenza complementare perché per molti degli assunti dal 1986 in poi ci saranno solo pensioni  da fame.

La legge finanziaria si presenta, quindi, come una legge di fine impero, in cui la stessa previdenza e  il precariato, diventano masse di manovra del potere politico, che chiaramente ha l’obiettivo di mantenere il potere.

Il governo Cuffaro ha fallito e il suo fallimento è evidente soprattutto nel campo della sanità, del welfare e sul Piano dei rifiuti.

Il problema "Sanità" continua ad essere uno dei più gravi tra i tanti in cui attualmente si dibatte la Sicilia.

Irrisolto rimane il fondamentale problema, essenzialmente politico, ma con basi tecniche, della definizione del volume globale di spesa socialmente efficiente.

Il sistema di previsione annuale della spesa sanitaria, (spesa preventivata per l’anno precedente più aumento percentuale), crea condizioni di ingovernabilità del comparto, e la sua  inevitabile lievitazione rende precaria la certezza che dovrebbe caratterizzare la previsione di tutta la spesa pubblica, vanificando i calcoli più realistici di disavanzo.

La spesa sanitaria in Sicilia copre il 47% del bilancio regionale, con un costo annuale che nel 2004 ha toccato i 7,8 mld di euro e un deficit che nel 2005 ha toccato 684 mln di euro e che è stato ripianato per legge.

Questi pochi dati ci fanno capire l’entità del potere gestionale dell’Assessorato alla Sanità, determinato dagli enormi flussi di risorse finanziarie e dalla facoltà di nominare  direttamente e indirettamente centinaia di manager e dirigenti.

Sicuramente possiamo affermare che la macchina del consenso politico oggi più che mai in Sicilia passa attraverso la gestione dell’assistenza sanitaria.

In questa terra di 5 mln di abitanti vive spesso un paradosso: ricchi e benestanti possono permettersi di essere curati mentre  “ i nuddu ammiscati cu nenti” cioè i poveri cristi restano stesi nelle lettighe degli ospedali o rimbalzati da un pronto soccorso all’altro. E questo lo dice il sole 24 ore, il giornale più vicino a Confindustria.

Da questa riflessione nasce l’iniziativa fatta insieme a Magistratura Democratica dal titolo “Sistema di potere mafioso e malasanità. Cadaveri non eccellenti.” Da qui nasce anche la scelta di aprire il congresso con la proiezione del DVD “La Mafia è bianca” che rappresenta la commistione fra politica, mafia e sanità.

Questo DVD dice Santoro guarda già al dopo Berlusconi e propone che morale e politica non dipendano dalle sentenze della Magistratura.

Ritornando al discorso Sanità possiamo dire che in Sicilia la riforma Bindi è ancora largamente disattesa.

Le nove ASL provinciali suddivise in distretti da cui dipendono 25 ospedali minori, 17 aziende ospedaliere e i 3 Policlinici sono in attesa della certificazione degli standards qualitativi nelle prestazioni, così come sono in attesa i 1846 laboratori  e le 57 case di cura.

Il piano sanitario regionale è scaduto dal 2002  e mentre nelle altre Regioni ne sono stati  fatti 15-20, in Sicilia l’unico che abbiamo è quello scaduto.

Non esiste una Agenzia Regionale, l’Osservatorio Epidemiologico esiste solo sulla carta ma, soprattutto non esiste il monitoraggio del flusso di denaro.

E' un sistema dispendioso e senza controllo, e fatto in maniera tale da non essere controllabile.

In Sicilia vengono prescritte 52 mln di ricette all’anno, a fronte di ciò le verifiche sono irrilevanti e le sanzioni inesistenti. Una soluzione potrebbe essere quella di pensare a “Centrali Uniche di acquisto”.

La spesa sanitaria nella previsione legislativa avrebbe dovuto non solo essere improntata a principi di "rigore" e di "efficacia", ma avrebbe dovuto anche assicurare la corrispondenza tra i costi dei servizi e relativi benefici per l’utenza, elementi questi tra i quali esiste oggi una profonda divaricazione.

Vale a dire che è modesto il livello qualitativo delle prestazioni, (del tutto sproporzionate per difetto a fronte del relativo onere finanziario), eccezionale il ritmo di incremento della spesa, assolutamente insufficienti i controlli sulle Unità Sanitarie Locali, eccessiva la politicizzazione degli organi di queste ultime.

Sulla base di quanto sopra detto il sistema sanitario può essere definito precario, instabile, ingestibile e dunque inaffidabile.

Il punto debole strutturale della riforma sanitaria continua, tuttavia, ad essere l’ospedale.

Accanto ai centri di eccellenza che diventano sempre più dispendiosi, ci sono reparti ospedalieri sempre più degradati, tecnologie obsolete e finanziamenti per la formazione professionale ridotti al lumicino; di converso l’incapacità di programmare e l’assoluto mancato controllo sui flussi di spesa hanno determinato l’odiosa tassa sulla malattia (ticket) rivelatasi per altro inefficace e inutile.

A tutto questo bisogna aggiungere la continua precarizzazione del lavoro degli addetti al settore.

Ingegneri precari, tecnici precari, infermieri precari, ausiliari esternalizzati, medici co.co.co.

Una corretta programmazione sanitaria non può prescindere da una corretta analisi del sistema!

Quindi l’Osservatorio epidemiologico, il piano sanitario regionale e l’introduzione di una rete di valutatori sulle qualità delle prestazioni sono soltanto i primi appuntamenti che attendono il nuovo governo.

Inoltre, riteniamo che il servizio del 118 debba essere ricondotto in un sistema di  gestione pubblica; è infatti, il servizio di emergenza per eccellenza, in grado di dare risposte immediate al cittadino evitandogli di fare il giro degli ospedali alla ricerca di un posto.

Nella Sanità si sta mettendo in moto  qualcosa di pericoloso.

Si vuole dimostrare, tagliando le risorse e mortificando le professionalità, che il sistema universale  e pubblico non funziona, il tutto finalizzato a far passare nelle persone la convinzione che è necessario sostituirlo arrivando non al privato convenzionato ma addirittura al sistema assicurativo.

Questa è la ricetta del liberismo, dello stato compassionevole, che ti dice di arrangiarti, e lo vediamo anche con la filosofia del welfare, che è quella dei “buoni famiglia”, quella di lasciare sole le persone, attaccando anche i diritti delle donne che rischiano di restare a casa a fare le assistenti.

Quello che è ancora grave è che il governo nazionale sta portando avanti una politica per l’azzeramento di diritti ormai acquisiti delle donne, penso alle leggi sull’aborto e sul  divorzio.

Senza dimenticare l’altro fronte di attacco che passa per la previdenza, ma anche mettendo sotto accusa i controlli, a partire dalla riduzione di ruolo degli istituti come INAIL, INPDAP, INPS.

L’Inps,  in Sicilia rappresenta una macchina di gestione di risorse per la salvaguardia dei diritti delle persone.

Sono sistemi di controllo importanti in una regione dove il lavoro nero e precario, ma soprattutto il fenomeno degli infortuni sul lavoro e delle cosiddette morti bianche, è di dimensioni enormi. Su questo, insieme alla Fillea e altre categorie,  proporremo che in Sicilia si rafforzi la presenza e l’attività degli ispettorati del lavoro e della Medicina del lavoro.

Dicevamo che l’altro fallimento della politica portata avanti dal  governatore Cuffaro è nel settore dei rifiuti.

In Sicilia la nuova modalità di gestione dei rifiuti e dell’acqua non è servita a far aumentare la qualità dei servizi né  a ridurre  i costi di gestione, ma la ratio delle scelte è stata quella di costruire ulteriori centri di controllo per esercitare potere e consenso clientelare.

Sul piano dei rifiuti abbiamo espresso fin dall’inizio le nostre riserve, oggi a tre anni di distanza quelle scelte e i loro effetti purtroppo confermano i nostri giudizi.

Siamo di fronte ad un Piano dei rifiuti non applicato, a paesi più sporchi, a costi più alti sopportati dai cittadini e a diritti dei lavoratori diminuiti.

Né si sono create le condizioni per la raccolta differenziata e invece bisogna rivedere le scelte fatte su di essa incentivandola, perché  è un’attività che permette di abbattere i costi, diminuendo le quantità di rifiuti da smaltire, senza considerare che è un toccasana per  l’ambiente.

I termovalorizzatori, inoltre, non possono essere sganciati dal ciclo unico, perché è solo collegando le due fasi di raccolta e smaltimento che si possono creare economie in grado di  ridurre i costi per i cittadini.

Noi pensiamo che debba finire la fase commissariale che ha azzerato ogni forma di partecipazione e di discussione.

Pensiamo che in alcuni punti fondamentali il Piano dei Rifiuti debba essere riscritto.

Bisogna che si riduca il numero degli ATO dagli attuali 27 a non più di nove, perchè un numero così alto non permette una gestione economica ma soltanto una moltiplicazione di consigli di amministrazione i cui costi naturalmente  gravano sui cittadini.

Bisogna che la gestione dei rifiuti sia pubblica o a al limite affidata a grandi aziende a capitale pubblico.

Alla Regione sul piano delle privatizzazioni abbiamo assistito a cose davvero incredibili soprattutto nella vicenda che ha riguardato l’esternalizzazione dei call center e dei global center dell’ARS.

E’ necessario, infine, rafforzare i rapporti unitari con CISL e UIL, dobbiamo avere la capacità di essere organizzazioni confederali, di occupare lo giusto spazio per portare avanti una battaglia di cambiamento dei siciliani.

Dobbiamo avere la forza di rendere i lavoratori del pubblico impiego partecipi nella battaglia di cambiamento e capaci di svolgere il ruolo di protagonisti nelle iniziative per la legalità.

In questa fase così complicata in cui gli Enti locali e le loro strutture di bilancio sono continuamente sotto attacco, con i diritti dei lavoratori che sono continuamente messi in discussione, chiediamo un ruolo di maggiore protagonismo all’ANCI e all’URPS.

Noi siamo per rafforzare il confronto, ma siamo anche per attuare iniziative idonee a bloccare la costruzione di nuovi centralismi.

Un’ultima considerazione la voglio fare sulla voglia di partecipazione dimostrata dai cittadini italiani votando alle primarie del 2005.

Ben 4.311.149 infatti sono stati gli elettori che hanno  scelto il candidato a premier del centrosinistra, ciò è stato forse anche determinato dalla volontà di reagire alla forzatura berlusconiana sulle regole elettorali.

E difatti subito dopo le primarie ecco che arriva la nuova legge elettorale che chiude con il maggioritario e riapre la stagione del proporzionale, cambiando da sola tutto il paesaggio politico, con i partiti nuovi protagonisti al posto dei Poli e delle coalizioni.

A distanza di poco tempo anche in Sicilia gli elettori del Centro sinistra si sono recati al seggio, in quasi 200mila, disponibili a scegliere, a partecipare alle molte riunioni che si sono tenute.

In questa fase noi siciliani abbiamo la nostra  grande occasione per attuare il cambiamento, per interrompere questo intreccio perverso che sussiste alla regione.

Tra la gente si sente serpeggiare una voglia nuova di cambiamento e di partecipazione

e lo si intuisce dal fatto che durante la campagna per le primarie la gente comune si stringeva attorno a Rita Borsellino, andava a conoscerla, partecipava alle sue iniziative e ne determinava, senza rendersene conto l’affermazione.

La netta vittoria di Rita, ora candidata a presidente della Coalizione, per una Sicilia che sceglie il cambiamento, rappresenta la migliore garanzia di discontinuità con il passato. E’ una donna di grandissimo valore che ha saputo reagire al dolore per la perdita di una persona cara, mettendosi in prima persona a disposizione di un progetto per cui valga la pena di impegnarsi, di un’idea di un'altra Sicilia possibile dove i cittadini non sono sudditi e dove i diritti  non diventano favori e dove il cambiamento può certamente avvenire con l’impegno di ognuno di noi.

La scommessa dell’Unione si gioca in gran parte  sulle capacità di esprimere un programma credibile.

Mi avvio alla conclusione.

Ho detto all’inizio che abbiamo tenuto assemblee partecipate, che abbiamo tenuto i congressi nei 10 comprensori, abbiamo detto che sono stati congressi ricchi di discussione, di proposte e mi sono fatto l’idea che la linea politica e il lavoro che abbiamo fatto in questi mesi abbia ottenuto un risultato proficuo ed anche che si sia sviluppato un sentire comune, scevro da posizioni precostituite ma molto di merito.

Sul terreno del proselitismo abbiamo raggiunto risultati importanti, infatti a dicembre 2005 abbiamo superato i 25.000 iscritti.

Dentro le strutture confederali abbiamo partecipato alle discussioni portando avanti le nostre idee e le nostre proposte. Ci siamo in qualche modo “contaminati” ed abbiamo “contaminato”. Dobbiamo continuare  con il lavoro intrapreso perché oggi dobbiamo essere protagonisti della contrattazione territoriale e sociale insieme allo SPI ed alla CGIL.

Siamo consapevoli che altre lotte ci attendono, che ci attende un lavoro duro per affermare i diritti dei lavoratori ma anche di cittadinanza che solo il lavoro pubblico può garantire.

Abbiamo in programma di sviluppare una iniziativa sul terzo settore, un ambito dove oggi molto spesso vengono negati i diritti ai lavoratori, dove si dividono le ore di lavoro, creando disagio non solo ai lavoratori ma anche alle persone assistite, dove gli enti locali vedono ridotti i finanziamenti, dove la 328 ed i distretti sanitari non contribuiscono a creare nuovo welfare locale, dove mancano i livelli di contrattazione.

Abbiamo partecipato a 11 scioperi di cui 6 generali.

Con il governo abbiamo raggiunto l’accordo sulle risorse necessarie per il rinnovo dei contratti collettivi. Certo non abbiamo ottenuto tutto quello che avevamo richiesto, ma abbiamo scelto di sottoscrivere l’accordo economico per non correre il rischio di saltare un biennio contrattuale.

Nonostante gli impegni assunti dal governo oggi i lavoratori non hanno ancora percepito gli aumenti contrattuali.

Ci chiediamo se anche questa non sia una manovra elettorale.

Se i lavoratori debbono magari aspettare l’apertura dalla campagna elettorale  per percepire quanto spetta loro di diritto.

Alla Regione Siciliana siamo ancora un gradino più indietro. Qui non si è ancora firmato l’accordo. Ci sono solo le direttive. Per la dirigenza non si è neanche aperta la discussione sul primo biennio economico e sul quadriennio giuridico. Noi pensiamo che il contratto della dirigenza sia sicuramente da fare  non senza però aver prima sanato i guasti prodotti dal precedente contratto.

Abbiamo  bisogno di rafforzare i gruppi dirigenti sui posti di lavoro, dobbiamo dare più ruolo alle RSU che sono strutture indispensabili per la rappresentanza e vogliamo che siano istituite per tutto il mondo del lavoro.

Dobbiamo continuare a lavorare su questo terreno, rafforzare la formazione, costruire i dipartimenti a tema, dobbiamo essere consapevoli della nostra forza perché possiamo essere protagonisti del cambiamento.

Tutto questo grazie a tutti voi, ai tanti rappresentanti sui posti di lavoro, ai semplici iscritti a tutti i segretari generali, alle segreterie, alla segreteria regionale, ai coordinatori.

Grazie davvero siamo un gruppo dirigente più coeso, più unito, possiamo davvero farcela a svolgere un ruolo da protagonisti, per la CGIL siciliana, ma soprattutto per la difesa dei diritti dei lavoratori del pubblico impiego e per uno sviluppo della nostra Sicilia.

 Grazie a tutti, di cuore.