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Relazione di Ugo Gallo Care compagne e cari compagni, tre anni fa, ero stato eletto da pochi giorni, fui informato che le lavoratrici ed i lavoratori precari del Centro Antinsetti della provincia di Cagliari, stavano per occupare il Consiglio Provinciale sospendendo l’assemblea in corso. Immediatamente, con Luca, andammo alla provincia, il motivo della volontà di occupazione era l’imminente scadenza dei contratti, alcuni tempi determinati, altri avevano collaborazioni, ma tutti sarebbero scaduti di li a pochi giorni. In delegazione andammo subito dal Presidente della Provincia, allora c’era Balletto, per chiedergli il rinnovo dei contratti in scadenza, ottenemmo un appuntamento da li a due giorni per approfondire il problema con una disponibilità di massima alla proroga. I lavoratori ci attendevano sul portone e noi andammo a dirgli qual era l’impegno assunto dal Presidente, abbastanza soddisfatti e con la proposta di rivederci tutti il giorno dell’incontro. Uno di loro mi disse: tu sai cosa dare da mangiare a tuo figlio, io no, non ho più la certezza del lavoro. Me lo disse in sardo, e seppure ero arrivato da pochi giorni capii benissimo cosa intendeva dire, anzi in sardo rendeva il pensiero chiarissimo, come un plastico figurato. Lo disse con una spontaneità che mi colpì moltissimo, salimmo tutti nella sala ed occupammo il Consiglio fino a che ottenemmo la proroga dei contratti in scadenza. Ma i loro contratti scadevano ogni tre mesi e dopo due o tre occupazioni, anche per pigrizia o stanchezza, in un assemblea gli dissi che non potevamo continuare così che dovevamo mirare più in alto, ad una soluzione definitiva e cioè la loro stabilizzazione. Le condizioni lo rendevano possibile perché i finanziamenti arrivavano annualmente dalla regione, quindi bastava stabilizzare la spesa. Iniziammo con un accordo con la Provincia, un accordo che prevedeva l’assunzione nel caso in cui fosse stata approvata una norma che rendesse certi i trasferimenti, le parti si impegnavano, inoltre, ognuno per le proprie competenze, a promuovere l’azione legislativa. Nel frattempo si prorogavano i contratti, nelle forme che di volta in volta trovavamo più conveniente in funzione del fine ultimo: la stabilizzazione dei trenta lavoratori. Quando si avviò la discussione della finanziaria regionale, i lavoratori, con il sostegno della funzione pubblica CGIL, con il nostro sostegno, occuparono l’assessorato regionale al personale. Immaginate una tenda montata nel balcone dell’assessore, ed un piano, il terzo, quello dell’ufficio dell’assessore, sostanzialmente requisito, con striscioni nei corridoi, bandiere, zaini, sacchi a pelo, borse per pernottare, insomma un occupazione vera. Devo dire, per onestà, che l’assessore Dadea ha reagito con intelligenza, non ha chiamato i carabinieri, poteva farlo, ed ha ascoltato le nostre ragioni, che erano semplicissime ed a costo zero per la regione: un emendamento alla finanziaria che rendeva certi e stabili i trasferimenti annuali per le competenze relative alla lotta agli insetti ed alla blue tongue. L’assessore Dadea, insieme a quello dell’ambiente Dessì, si sono impegnati a presentare l’emendamento in finanziaria, che, dopo sei giorni di occupazione è stato votato all’unanimità, sotto lo sguardo vigile delle lavoratrici e dei lavoratori i quali, nella fase di discussione, si erano spostati nell’aula del consiglio regionale. In questi giorni dovrebbe essere pubblicato, l’accordo prevede entro il 31 gennaio 2006, il bando con il quale la provincia di Cagliari assumerà, nei propri organici, i lavoratori ormai ex precari del centro antinsetti. Ho voluto raccontare quest’episodio non solo perché, naturalmente mi ha introdotto nella vita e nelle dinamiche della città e delle persone e mi ha accompagnato per tutta la durata del mandato, ma soprattutto perché penso che gli esempi, i momenti di vita vissuti, le esperienze che facciamo, traducono e rendono comprensibili le cose che diciamo, che affermiamo, le nostre elaborazioni. In questi anni la CGIL ha rappresentato una speranza per molti, la speranza è tale se oltre ad opporsi, come abbiamo fatto in questi anni, ad un modello di società liberista si sviluppano pratiche e comportamenti in grado di dimostrare che un altro modello di governo è possibile. Voglio qui ricordare le iniziative ed i momenti di riflessione che abbiamo costruito che sono stati alla base, sono state le coordinate, il perimetro entro il quale abbiamo sviluppato i comportamenti: la tavola rotonda per un’europa migliore a dieci anni dalla presentazione del libro bianco Delors, dove ponemmo l’importanza dei servizi pubblici locali, e l’iniziativa nella quale presentammo la nostra idea di sanità a Cagliari. Nelle due iniziative denunciammo l’azione devastatrice con la quale l’economia assumeva il primato rispetto alla politica. Azione devastatrice la cui origine deriva da un idea mercantilistica di società che a partire dagli anni 80 si è propagata nei pensieri e nei progetti di economisti, intellettuali, politici e, probabilmente, anche in settori del sindacato. Nel 1995 Ignazio Ramonet coniò la suggestiva espressione del pensiero unico, a indicare quel processo di affermazione del primato dell’economia sulla politica che un intellettuale di orientamento opposto, Alain Minc, aveva descritto così: …. Il capitalismo non può crollare, è lo stato naturale della società. La democrazia non è lo stato naturale della società. Il mercato lo è. Di entrambe queste contrapposte ma espressive descrizioni dell’affermarsi, nei primi anni 90, del neo liberismo, è utile, ancora oggi, coglierne il senso. La globalizzazione nasce come pura, grande operazione mercantile, determinato dal primato dell’economia sulla politica. Lo spazio pubblico affermatosi negli stati nazione, come ad esempio i vari assetti di welfare, e gli organismi di diritto internazionale come l’ONU, gli spazi cioè del primato della politica, delle regole compensatrici delle mere logiche di mercato e della competizione senza limiti vengono progressivamente assediati ed invasi. Riemerge la primitiva ideologia del mercato che si fa globale grazie alla rivoluzione informatica, puntando a sostituire e superare i vecchi apparati politico – ideologici novecenteschi. La competizione globale di mercato comincia così a invadere anche le funzioni pubbliche. La legge del più forte genera anche, con agghiacciante coerenza concettuale, la teoria globale della guerra preventiva. La guerra come il mercato sostituisce la politica e le regole del diritto internazionale si erge a unico principio regolatore dei conflitti. Nel nostro specifico assetto costituzionale, il binomio democrazia lavoro, fondamento della costituzione repubblicana, viene sottoposto ad una torsione potenzialmente distruttiva, esattamente come quello politica mercato. Analizzare più attentamente le origini, la struttura, gli attuali fattori di contraddizione e di crisi della rivoluzione neo liberista per delineare la necessaria radicalità di un alternativa praticabile è il compito che, localmente e globalmente, è ancora intero davanti a noi. In questi anni la CGIL con i movimenti ha condiviso, altre al grande tema della pace, la difesa dello spazio pubblico, a partire dai servizi locali, superando senza reticenze l’ubriacatura ideologica degli anni 80 e affermando la centralità del pubblico, nelle sue diverse articolazioni, dallo stato alle regioni, ai comuni, nella gestione e nella erogazione dei servizi connessi al welfare. Beni e servizi di interesse collettivo che hanno un peso decisivo nella vita delle persone e nelle relazioni sociali, da cui spesso dipende la qualità dell’esistenza e la vitalità democratica di un paese. Essi rappresentano anche una realtà economica imponente, impegnano più della metà dei bilanci pubblici; e, proprio per questo, sono al centro dell’attenzione e degli interessi delle imprese, interessate a estendere il dominio del mercato, in qualche caso, temo, drogato da lobby o gruppi affaristici massonici. Assistiamo insomma ad attacchi disgregativi di questi servizi e attraverso questi, al sistema europeo di welfare sia locale (acqua, gas, elettricità, trasporti ecc..) che nazionale (previdenza, sanità, istruzione, mercato del lavoro ecc…). Qualche tempo fa l’ex presidente della confindustria D’amato ha affermato: lo stato deve uscire definitivamente dai servizi pubblici locali, aprendo il mercato, non si capisce perchè sia la mano pubblica a gestire questi settori, vorrei capire cosa c’è di strategico nella gestione dei servizi pubblici locali, acqua, trasporti, energia, raccolta dei rifiuti, lo stato deve uscire per sempre. D’amato si spinse a definire l’attuale sistema socialismo municipale. Parlando di Confindustria vale la pena soffermarsi, seppure brevemente, sulla struttura e la tipologia del capitalismo, sarebbe incomprensibile per chi considera il lavoro, le lavoratrici ed i lavoratori, la loro riunificazione e rappresentanza come vincoli fondativi su cui definire e praticare una ipotesi di sviluppo alternativo, eludere i caratteri strutturali dell’inedita crisi che sta attraversando il sistema capitalistico mondiale, ma in particolar modo del nostro paese, analizzarne le ragioni, individuarne gli attori. (Per dirla con una battuta Marx ha scritto il capitale, un tomo di quattro libri, ed il manifesto del partito comunista un libricino di poche pagine). Nel suo ultimo libro Luciano Gallino scrive: “Condizioni di lavoro, prezzi, trasporti e media, alimentazione, forme di risparmio e rischi connessi, organizzazione della famiglia, la possibilità stessa di progettarsi un’esistenza, piaccia o no dipendono tutte da decisioni che provengono, più che dal governo della nazione, dal governo delle imprese. Tuttavia queste ultime non paiono tener sempre conto delle conseguenze sulle nostre vite della loro attività. Da tempo si insiste, su scala internazionale, affinché le imprese agiscano in modo socialmente più responsabile su base volontaria. Ma teoria e pratica della responsabilità sociale dell’impresa diverranno comuni soltanto quando un’apposita riforma del governo dell’impresa le inserirà tra i suoi principi costitutivi”. Questa teoria che condivido è possibile realizzarla solo se si inverte culturalmente sul chi decide che cosa, se la politica riassume il ruolo che le compete, se dopo l’ubriacatura ideologica del mercato si riscopre, come pure ci sono segnali evidenti, la teoria Keynesiana in economia rinvigorita nell’analisi di una scuola di pensiero tra i cui esponenti ricordiamo Stiglitz, premio nobel per l’economia nel 2001. Invece, la caduta dei profitti verificatasi tra gli anni ’60 – ’80 del secolo scorso ha indotto le imprese, nel decennio successivo, ad elaborazioni di strategie industriali tendenti a subordinare alla creazione di valore borsistico ogni altro interesse, determinando una modificazione strutturale del capitalismo, da coloro i cui profitti erano determinati dalla trasformazione dei prodotti, il cosi detto capitalismo industriale, all’attuale capitalismo finanziario o azionario, un capitalismo ossessivamente orientato a cercare forme di rendita a breve termine privilegiando operazioni e architetture finanziarie piuttosto che realizzare utili con attività che generano valore aggiunto a lungo termine mediante la produzione di beni e servizi reali. Questa trasformazione è stata accompagnata e sostenuta dalle politiche fiscali, la speculazione in borsa, infatti, è tassata molto meno della produzione di beni e servizi. La conseguenza di questa strategia è l’irresponsabilità sociale dell’impresa. Si definisce irresponsabile un’impresa che al di là degli elementari obblighi di legge suppone di non dover rispondere ad alcuna autorità pubblica, né all’opinione pubblica, in merito alle conseguenze in campo economico, sociale e ambientale delle sue attività. Tra queste vanno considerate: le strategie industriali e finanziarie; le condizioni di lavoro offerte ai lavoratori; le politiche dell’occupazione; il rapporto dei prodotti e dei processi produttivi con l’ambiente; la qualità dei prodotti; i rapporti con la comunità in cui opera; le localizzazioni e le delocalizzazioni delle attività produttive, il comportamento fiscale. L’impresa irresponsabile, dunque, non ci pone semplicemente a una questione di persone, di singoli dirigenti o proprietari, piuttosto essa è l’esito di un modello strutturale, per vari aspetti scientificamente costruito di governo dell’impresa il cui scopo dominante è far salire il prezzo delle azioni, più precisamente il valore di mercato dell’impresa. Quando non si produce ricchezza reale, quando l’ossessione della rendita a breve prevale, si entra in una spirale degenerativa che coinvolge contemporaneamente sia il sistema finanziario che quello industriale. Vicende come quelle della parmalat, cirio, antonveneta, sono il segno della degenerazione della finanza; ed il predominio della finanza sull’economia reale ha distrutto l’innovazione del processo e del prodotto, la progettazione e la ricerca applicata ed ha partorito una generazione di imprenditori inadeguati, che hanno immolato sull’altare del profitto immediato anche marchi, tecnologie, brevetti che le multinazionali hanno spostato fuori dal paese. Questo tipo di capitalismo, per alzare il livello dei profitti ha avuto bisogno dei seguenti mezzi: la riduzione del costo del lavoro, l’aumento dei prezzi più rapido rispetto alle retribuzioni, l’attacco al sindacato. La parola d’ordine strategica è diventata: la flessibilizzazione dell’uomo e della macchina. In base al nuovo principio, l’impresa assume il meno possibile procede a licenziare al fine di creare valore, mira a fidelizzare soltanto un nucleo ristretto di personale, occupa un’elevata percentuale di lavoratori precari, preferisce impiegare le risorse disponibili per operazioni finanziarie piuttosto che per effettuare nuovi investimenti. La filosofia della legge 30 è tutta qui, pensata e costruita per sostenere questa tipologia di impresa, ed in quanto tale è parte integrante del progetto della destra politica ed economica, anche per questo motivo non si capiscono le timidezze di alcune componenti del centro sinistra. La richiesta di accrescere la flessibilità del lavoro viene giustificata dalla necessità di impiegare razionalmente la forza lavoro. Ad esempio, pare razionale che la direzione di una fabbrica di mobili chieda ai lavoratori di lavorare 48 ore la settimana quando le vendite aumentano, oppure 36 quando diminuiscono. Altrettanto razionale sembra la richiesta del gestore di un supermercato, rivolta a commesse e cassieri, di seguire un orario modulato sulle ore del giorno e sui giorni della settimana nei quali l’affluenza degli acquirenti è maggiore. Per quanto fondate, queste sono solo le ragioni superficiali della domanda di flessibilità. Le ragioni profonde vanno ricercate nell’accelerazione della circolazione di capitale che contraddistingue il capitalismo azionario. In presenza di tale accelerazione, la stabilità del capitale, più esattamente della sua redditività, esige la destabilizzazione del lavoro. L’insicurezza personale e sociale che questa genera è il prezzo che alla collettività si chiede di pagare. E noi siamo lì, siamo rimasti i soli a presidiare, attraverso la contrattazione, un’area, uno spazio che altrimenti sarebbe determinato unicamente dal profitto delle imprese. Imprese che scelgono gli investimenti finanziari invece che le tecnologie, la formazione, in una parola la qualità, e comprimono i diritti del lavoro e dei lavoratori. La seconda colonna della realizzazione dell’idea liberista consiste nella demolizione delle funzioni e del lavoro pubblico, nell’attacco sistematico alle lavoratrici ed ai lavoratori pubblici o connessi al pubblico. La demolizione tentata è stata per un verso strutturale: - Riduzione dell’occupazione già attuata pari a 70.000 unità, mentre altrettante unità sono previste in meno per il prossimo anno; - Aumento costante della precarizzazione che ha portato, secondo le stime contenute nel conto annuale del tesoro, i precari ad una cifra pari a 254.371 tra tempi determinati, contratti di formazione lavoro, LSU, interinali e co.co.co. Va sottolineato come a queste stime sfuggano i lavori dati stabilmente in appalto a cooperative di servizio o sociali e quelle svolte stabilmente da figure ancora più precarie come quelle degli stagisti. Tutto ciò è avvenuto peraltro senza che la Legge 30 fosse applicata nel settore pubblico, risultato questo ottenuto nel rinnovo dei nostri CCNL, grazie ad una straordinaria tenuta unitaria. Questa enorme quantità di precariato è il frutto, forse non sufficientemente previsto né voluto, del cosiddetto pacchetto Treu, le cui norme e la cui applicabilità andranno profondamente riconsiderate nella nuova normativa che dovrà essere fatta sul mercato del lavoro, alla luce dei risultati che si sono determinati; - Rinnovo programmaticamente ritardato dei CCNL, che ha portato la stipula del quadriennio normativo con circa due anni di ritardo e che comporterà l’erogazione dei benefici del secondo biennio, quando già dovrebbe entrare in vigore il nuovo quadriennio: Per questa via non si sono solo privati 3,5 milioni di lavoratrici e lavoratori dei loro diritti, ma si è anche minata la credibilità stessa dell’istituto del CCNL; - L’introduzione di uno spoil system, interpretato come strumento per asservire totalmente la struttura amministrativa e burocratica alla politica, ha provocato nei fatti la creazione di una catena gerarchica di comando che corre dal Ministro fino al vertice delle carriere del personale contrattualizzato, passando per tutti i livelli dirigenziali. Lo stesso è avvenuto negli enti pubblici, nelle regioni e nelle autonomie locali. In questi ultimi anni si è nei fatti contraddetta la scelta operata, fin dalla prima legge di contrattualizzazione del rapporto di lavoro pubblico, di separare l’amministrazione, cioè la gestione, dalla politica; - Riproposizione a più riprese del tentativo di decontrattualizzare i rapporti di lavoro attraverso interventi legislativi e lo spostamento di intere categorie dall’area della contrattazione alla legge, come è avvenuto per i vigili del fuoco e come si è tentato per i professori. D’altro canto la stessa L. 30 e i contratti dei meccanici non sottoscritti dalla FIOM rappresentano questa volontà, invertendo il tradizionale rapporto tra legge e contratti, laddove la legge è sempre stata di sostegno ed il contratto ha dettato le condizioni di miglior favore. Per altro verso, invece, l’attacco portato al lavoro pubblico ha assunto le caratteristiche di una campagna culturale: dal disprezzo, non nuovo a partire dagli anni 80 per il lavoro, si è passati all’invettiva nei confronti dei lavoratori. Come si può dimenticare la frase pronunciata da Washington dal Premier sui lavoratori pubblici pochi giorni prima della nostra ultima manifestazione? Secondo questa frase i lavoratori pubblici la mattina guardandosi allo specchio, mentre si preparano per andare al lavoro, dovrebbero vergognarsi. E come ancora, se non in questo quadro, si può spiegare il grossolano tentativo di dividere i lavoratori pubblici da quelli privati nel corso della fase finale della vertenza per il rinnovo del contratto, quando si è accennato al fatto che i lavoratori pubblici pretendevano aumenti molto più alti di quelli che avrebbero avuto i loro “veri” padroni e cioè i lavoratori privati? Ed ancora una volta, incomprensibilmente e sorprendentemente abbiamo osservato una generale sottovalutazione, anche del centro sinistra, di questo attacco al lavoro, delle sue radici e delle sue reali motivazioni, come se si trattasse di una questione settoriale e non generale per il Paese. E’ invece evidente che un progetto di trasformazione per la società non possa prescindere dal lavoro pubblico. Il lavoro pubblico così come in parte è, ma soprattutto come noi dobbiamo riuscire a farlo diventare, ha in sé quattro grandi opportunità:
1.
garantisce i diritti fondamentali delle persone; Ma non basta dire pubblico è meglio, cioè restituire al pubblico la gestione e la responsabilità di erogazione di diritti che costituiscono beni sociali, beni comuni. La salute, l’istruzione, l’accesso all’acqua, l’assistenza agli anziani, ai cittadini non auto sufficienti, i servizi materno-infantili, le protezioni civili, la prevenzione del rischio, la tutela e la funzione di un bene culturale, la raccolta e lo smaltimento dei rifiuti sono altrettanti beni comuni solo se la loro natura pubblica garantisce diritto di accesso ad ogni cittadino. Tornare indietro da pratiche affrettate di esternalizzazioni e privatizzazioni diffuse è il primo indispensabile passo anche per proteggersi da infiltrazioni di ogni tipo, lobbistica, mafiosa, o anche a carattere massonico. Potrebbe non essere sufficiente. Bisogna che il lavoro pubblico si impegni ad una diversa pratica, a non rendere più possibile lo scambio, la confusione tra diritto e favore. Noi, le pubbliche amministrazioni sono, per tanti, la vera ed unica faccia della stato che conoscono. La qualità del nostro lavoro fa la qualità della Stato per le persone, ciò che dello Stato pensano è determinato dall’immagine che da di se il lavoro pubblico. Se il lavoro pubblico è trasparente ed efficiente la Stato è trasparente ed efficiente. La legalità, i diritti diventano un luogo fisico, un presidio che si può frequentare e che vale la pena difendere. In quest’ultimo periodo si è sviluppata una nuova e per certi versi insperata attenzione nei confronti del pubblico, sembra cioè terminata la fase in cui il privato in quanto tale pareva destinato a soppiantare l’iniziativa del pubblico in ogni attività economica e sociale, senza nemmeno doversi prendere il disturbo di argomentarne le ragioni e le convenienze. Va consolidandosi invece, un’idea diversa di cui sicuramente il quadro attivo dell’organizzazione ne è consapevole, l’adesione pressoché totale agli emendamenti della categoria ne è una prova. L’idea cioè di considerare il pubblico come un diritto di cittadinanza. Un diritto è tale se vi è una sede in cui è possibile esigerlo, e solo le funzioni pubbliche possono candidarsi ad essere queste sedi. Certo, si deve continuare a garantire il buon andamento e l’equilibrio economico di ogni struttura, ma questo deve essere il prerequisito, non il fine dell’azione e del lavoro pubblico. Stare bene, non essere curati solo quando si sta ormai male, accedere a un livello il più alto possibile d’istruzione, avere sistemi adeguati di protezione sociale, avere una pensione adeguata al termine del proprio lavoro: si tratta di fondamentali diritti di cittadinanza e le funzioni pubbliche sono chiamate a garantirli. In questa luce va considerata anche la nostra battaglia contro la precarizzazione del lavoro nei nostri settori. Stabilizzare le decine di migliaia di lavoratori (quelli a tempo determinato, quelli con contratti di formazione lavoro senza fine, quelli socialmente utili o di pubblica utilità, quelli Co.Co.Co. o a progetto, quelli a partita iva) che prestano la loro opera per le pubbliche amministrazioni, non risponde solo a un esigenza di questi lavoratori di avere finalmente un posto stabile. Si tratta, infatti, anche di dare stabilità alle funzioni pubbliche che, attraverso queste persone, si intendono garantite. Può la protezione civile avere geologi a tempo determinato? Può il ministero dell’ambiente avere tecnici a collaborazione? Può l’agenzia del territorio fondare il suo lavoro sui tempi determinati? Può la provincia di Cagliari avere tecnici disinfestatori a collaborazione per affrontare una epidemia gravissima ed in espansione come la blue tongue che colpisce gli animali e mette a rischio il lavoro e l’economia del settore agro alimentare? Utilizzeremo tutte le sedi per affrontare questi problemi, ma davvero penso che, se si vogliono difendere i diritti, bisogna difendere le funzioni pubbliche. Per farlo bisogna smetterla di esternalizzare funzioni e lavoratori, provando invece a internalizzare il lavoro quando questo è richiesto dal ciclo lavorativo. Alle lavoratrici. Ai lavoratori va detto che stabilizzare il lavoro precario è un modo per difendere il nostro lavoro, a tutti gli altri dobbiamo riuscire a spiegare che difendere e valorizzare il nostro lavoro vuol dire difendere i diritti di tutti. Dobbiamo affermare il benessere o welfare che dir si voglia, come diritto a godere di quei beni comuni come la salute, la cultura, l’istruzione l’acqua, l’ambiente che non possono essere acquistati, ma ai quali il cittadino in quanto tale deve poter accedere. L’accesso a questi beni può essere assicurato solo dal soggetto pubblico che ne deve garantire, anche attraverso le modalità organizzative, caratteristiche universali. Ecco perché questi diritti possono essere garantiti solo dal lavoro pubblico. E’ chiaro però che si pone, a questo punto, una duplice questione: la prima, non tutto ciò che oggi è pubblico può essere definito bene comune e non tutto ciò che è bene comune è oggi pubblico; la seconda ci riguarda in prima persona, è che oggi le caratteristiche, i contenuti, le modalità organizzative del lavoro pubblico, a volte, anziché garantire, ostacolano l’accesso a quel diritto del cittadino. Ne conseguono due scelte da compiere, la prima è la ridefinizione di una mappa, un catalogo dei beni comuni, la seconda è la presa in carico reale da parte nostra del tema dell’organizzazione del lavoro e dei servizi. La prima scelta riguarda soprattutto la politica ed il centro sinistra è atteso su questo tema ad una delle prove più significative riguardo alla sua concreta volontà di mettere in atto un reale processo di trasformazione della società. Ma la seconda è affare nostro. Dobbiamo costruire pensieri rigorosi per poter chiedere agli altri, in questo caso alla politica, altrettanta rigorosità. Le elaborazioni non ci mancano, la 2° conferenza programmatica del 27 e 28 giugno scorso fornisce materiale di elaborazione abbondante, e questo congresso è l’occasione per aprirci, per confrontarci. Chiudo questo capitolo con la citazione di Stiglitz, di un pezzo della teoria che gli ha fatto attribuire il nobel, a distanza di 15 anni da un altro economista, J. Buchanan, che nel 1986 vinse il premio nobel per la teoria della “scelta pubblica”. “Il vero principio di regolazione dei servizi non è la concorrenza. In un mercato che non può essere tale, se vale l’idea di considerare i servizi pubblici beni comuni, non c’è per definizione concorrenza. Ciò che diventa determinante è il giudizio dei cittadini. Questo giudizio può essere sollecitato sulla base del raggiungimento di standars, la cui costruzione può essere condivisa in sedi di concertazione territoriale”. Gli emendamenti che alla fine del congresso voteremo, in automatico arrivano anche alla camera del lavoro, credo di essermi prolungato abbastanza e di averne spiegato i contenuti e la filosofia, ora si tratta di confrontarci anche in casa nostra, con gli altri livelli dell’organizzazione, lo faremo in modo aperto e con l’umiltà necessaria, con onestà intellettuale e senza pensare di avere la verità in tasca. Questo congresso, d'altronde, assume un importanza particolare per questo territorio perché si modifica la composizione, i confini, l’area entro la quale esercitare la propria attività. Ciò avviene in conseguenza della definizione delle nuove province. La CGIL si è organizzata in funzione degli assetti istituzionali. Credo che fosse una scelta obbligata, immaginate un territorio che presenta una piattaforma territoriale, magari di recupero e sviluppo di aree urbane ma la piattaforma vale per tutta la provincia, tranne che per i paesi che fanno capo ad un’altra struttura della CGIL situata in un altro territorio. Sarebbe stato davvero poco comprensibile. In questi giorni parlando con le compagne ed i compagni, ho potuto avvertire un senso di grande responsabilità, c’è la consapevolezza che da oggi inizia un periodo nel quale bisogna rimettersi in discussione, nei nuovi confini ci sono territori che vantano storie e tradizioni anche molto diverse da quelle di Cagliari. Questo comporta acquisire nuove conoscenze, significa modificare ed allargare la costruzione del pensiero, significa valorizzare ed includere compagne e compagni che vivono realtà diverse. L’organizzazione della struttura territoriale non potrà pensare di essere uguale a come la conosciamo oggi se vuole essere presente e dare risposte ai tanti posti di lavoro che da domani faranno riferimento a Cagliari. Questa è la prima scommessa, l’aver allargato i confini territoriali è una grande opportunità, per crescere culturalmente e politicamente innanzitutto, preferisco fare un esempio: il 7 giugno del 2004 abbiamo presentato la piattaforma sulla sanità a Cagliari, se dovessimo farla oggi, quell’elaborazione sarebbe insufficiente, perché non tiene conto dei nuovi territori e quindi del bisogno di salute della popolazione che vi abita. Voglio dirla con una battuta scusandomi per la semplificazione, quando si è aperto il dibattito sulla rete ospedaliera, per noi neanche si è posto il problema dei piccoli ospedali, parlavamo dell’alto rapporto tra posti letto e residenti. Il problema di Cagliari è che circa un terzo di quei posti letto sono accreditati a strutture private i cui proprietari tendono al monopolio e fanno parte delle famiglie cosiddette potenti, penso al sindaco di Cagliari, strutture che utilizzano gli ausiliari o gli OTA per funzioni che spettano agli infermieri, ma li pagano come ausiliari o OTA, strutture che spesso neanche applicano i contratti di lavoro, strutture che spesso ritardano volutamente il pagamento degli stipendi ed in questo modo usano le lavoratrici ed i lavoratori per “ricattare” la giunta ed il Consiglio Regionale. Da oggi Cagliari deve modificare il proprio modo di pensare, deve alzare lo sguardo ed includere anche il piccolo ospedale, penso ad Isili, situato in un luogo che fornisce le prestazioni ed è presidio di riferimento per zone che per conformazione territoriale, per la caratteristica delle strade, per la specificità del luogo insomma, chiuderlo sarebbe una scelta incomprensibile. Ed ancora, nei territori della trexenta, del sarcidano, della barbagia di Seulo, ci troviamo di fronte ad una realtà in cui c’è il più basso rapporto popolazione per chilometro quadrato, con fenomeni di spopolamento ed emigrazione, dovuti all’altissimo indice di disoccupazione. E’ del tutto evidente che le nostre vertenze dovranno tenere conto del tipo di economia del territorio, di quale tipo di presenza pubblica come precondizione di insediamento produttivo, dovremo elaborare piattaforme che stimolino politiche di sviluppo. I congressi di base, per quanto sicuramente non sufficienti per via di accorpamenti che dovevano tenere conto del rapporto delegato iscritti e perché gli stessi accorpamenti sono stati costruiti con le strutture cedenti, ci hanno consentito di avviare un rapporto con le compagne ed i compagni. Si tratta ora di consolidare la conoscenza e costruire con loro i modi ed i metodi per interloquire al meglio nonostante la distanza. Ne sono sicuro, sarà l’impegno del nuovo gruppo dirigente che uscirà dal congresso. Un congresso che abbiamo tentato di fare nel modo più coinvolgente possibile, abbiamo tentato di far partecipare il maggior numero possibile delle iscritte e degli iscritti, voglio sgombrare il campo, sappiamo bene che si poteva fare ancora di più e meglio, ma siamo soddisfatti dei risultati. In 95 assemblee congressuali hanno partecipato al voto 1722 iscritti, circa il 50% degli aventi diritto, come dicevo in precedenza i nostri emendamenti hanno ottenuto oltre il 90% del consenso. Non era facile perché rispetto agli scorsi congressi, non c’erano due mozioni alternativamente e globalmente contrapposte, come si usava dire, la contrapposizione, è fisiologico, stimola la partecipazione, ci si conta, su quella conta si costruiscono gli organismi dirigenti, dunque si va in cerca del voto portando in assemblea tutti. Questo congresso, invece, si è svolto su un unico documento, le uniche differenze sono state sulla tesi numero otto e sulla numero nove, ma non c’era nessun rapporto tra espressione di voto e delegato al congresso. La percentuale delle vecchie mozioni è stata garantita dal documento di intenti firmato da tutti i segretari confederali, che hanno fotografato le percentuali del precedente congresso. Tra il materiale che abbiamo distribuito c’è anche la disaggregazione dei voti ottenuti da ogni singola tesi, dove comunque si può vedere il quadro di consenso reale rispetto al congresso precedente. Io penso che al di la dell’accordo dei dodici segretari, bisognerà pur tener conto di quanto uscito dal voto, altrimenti correremmo un rischio grave: l’ingessatura dell’organizzazione. Inoltre diventerebbe veramente poco comprensibile aver presentato tre tesi sulla democrazia e contemporaneamente chiudere gli occhi sull’espressione del voto delle assemblee. Ciò non vuol dire esclusione verso chi la pensa in maniera diversa, sappiamo bene che la ricchezza della CGIL sta proprio nella sua articolazione di pensiero, nelle sensibilità diverse, nel confrontarsi partendo da posizioni diverse. Se ci pensate bene se in questi anni la CGIL ha rappresentato una speranza per molti, se ha consentito al centro sinistra di riprendersi dopo la sconfitta alle elezione del 2001, se è riuscita a portare in piazza tre milioni di persone per manifestare contro l’abolizione dell’articolo 18 dello statuto dei lavoratori, ciò è stato possibile per aver avuto la capacità di tenere insieme e portare a sintesi le diverse anime della CGIL. Ed ancora oggi osservo un dibattito avanzato, per nulla scontato, tipico di un organizzazione con molti difetti, ma sicuramente in salute. Io, come tutti voi, spero che alle prossime elezioni politiche vinca il centro sinistra, si tratta di un emergenza democratica, questo Governo ha fatto troppi danni, ma che le destre economicamente colpiscano i lavoratori lo trovo scontato, quello che trovo insopportabile è la lesione alla Costituzione. Tra le cose che abbiamo fatto in questi anni rivendico anche aver proposto alla camera del lavoro di Cagliari, la costruzione del coordinamento cittadino salviamo la costituzione, coordinamento che, credo, entrerà nei comitati per il no allo stravolgimento della costituzione. Ma, dicevo, spero che le elezioni le vinca il centro sinistra, il quale si troverà un paese da ricostruire, socialmente, economicamente, eticamente, culturalmente, quando si conosceranno i conti dello stato temo che troveremo un buco enorme, troveremo il petrolio. In quelle condizioni sarà del tutto naturale, per chi governa, chiamare il sindacato per un nuovo patto, un patto di risanamento. Quello sarà il punto critico per il governo, ma anche per la CGIL, perché se è vero come è vero che in questi anni siamo stati la speranza per molti, non reggiamo se il risanamento, perché è più semplice, perché ha la ritenuta alla fonte, perché in fondo ci è abituato, ricasca sulle spalle del lavoro dipendente. La speranza è un sentimento collettivo, un sentimento a cui va data una risposta in termini di risultato, è come se fosse una manifestazione nazionale che organizziamo, prevediamo il viaggio di andata ma poi la gente non la lasciamo dov’è, la riportiamo a casa. La speranza è la stessa cosa, si stimola, si fa intravedere, si diventa punto di riferimento, ma poi va portato a casa il risultato.
Nei
nostri documenti congressuali individuiamo in mano a chi si è spostata la
ricchezza in questi anni, sarà bene che nella fase di discussione di quel
nuovo patto, la CGIL sia in grado di far vivere le cose che scrive,
d'altronde se quest’organizzazione ha cento anni di storia, il motivo
risiede nel fatto che ha saputo sempre rinnovarsi, ha saputo dare risposte
concrete ai bisogni dei lavoratori, spero che saremo all’altezza dei
nostri predecessori. ANTICA POESIA INDIANA SENZA TITOLO
Non
c’è felicità per chi non viaggia,
I
piedi del viandante diventano fiori,
La
sorte di chi sta fermo non si muove, Allora vai, viaggia.
E ALLORA BEVO …. DI EDUARDO DE FILIPPO
Dint’
‘a butteglia Dimane nun esiste.
E ‘o
juorno primma,
Esiste solamente stu mumento
E che
ffaccio,
Che
ne parlammo a ffa!
E
allora bevo … (1973) |