“Le leggi devono essere comuni e fatte con consentimento di coloro a cui
toccano”.
Non lo
scriveva Platone o il Beccaria, ma un autore considerato ben più leggero:
il Boccaccio nel suo Decamerone. Mi è piaciuto iniziare questa mia breve
introduzione alla nostra giornata di studio e di riflessione riportando
questa citazione perché mi sembra che possa, in una certa misura,
esprimere lo spirito che anima la stesura d’ogni moderna Carta
costituzionale.
Lo stesso
spirito che animò lo straordinario movimento partigiano nella sua lotta
per la liberazione del nostro Paese dalla dittatura nazi-fascista, lo
stesso spirito che di sicuro ispirò i nostri Padri costituenti, che erano
sì l’espressione di culture e di ideologie fra loro diverse e a volte
confliggenti, ma che allora furono in grado di stendere la sintesi più
avanzata in termini di garanzie e di diritti di una democrazia.
Questa eredità preziosa, ancora viva e valida per i nostri tempi, rischia
di essere dissolta da un esecutivo che ha provocato sinora in questo Paese
delle profonde rotture sia sociali che nella democrazia, segnando una
netta discontinuità con tutta la storia politica precedente.
Per tali motivi ci sembra oggi necessario avviare una discussione su temi
rilevanti per il destino del nostro Paese e della nostra democrazia.
Vogliamo parlare, infatti, del tentativo di violare la nostra Carta
costituzionale disintegrando sia l’unità nazionale che quel sapiente
sistema di equilibrio fra i poteri che i nostri Padri seppero creare.
Temi che
toccano da vicino le condizioni concrete e il futuro di tutti i cittadini.
Ed è per questo che riteniamo necessario coinvolgerne in questo dibattito
il maggior numero possibile.
Parliamo, infatti, di regole, di assetti istituzionali in cui tutti
dovremmo riconoscerci e dai quali dovrebbero scaturire le garanzie per
l’intera collettività.
Oggi il Paese viene messo a dura prova: si tenta di piegare continuamente
le istituzioni e la democrazia agli interessi di singoli gruppi e non a
quelli generali di tutti i cittadini. Solo per far un esempio, la mancanza
di chiarezza legislativa e la strenua ed egoistica difesa di interessi
assai particolari fa in modo che il commissariamento, ormai pluriennale
del comune e di numerosi altri enti di Messina, impedisca lo svolgersi di
una “normale” vita democratica. Situazione ormai insostenibile specie in
un momento in cui la città è devastata, come dimostrano anche le ultime
inchieste giudiziarie, dal riemergere di inquietanti intrecci fra
mafia-politica-istituzioni. E’ proprio nei momenti come questo che la
città avrebbe bisogno di una guida politica seria e autorevole, di una
classe dirigente capace e affidabile, cosa che nei fatti le è negata.
Tornando al tema oggi in discussione, vorrei ricordare che la CGIL, in un
documento del febbraio 2001, quando il Centrosinistra stava discutendo
della riforma del titolo V della Costituzione ha osservato:
“Nel corso dell’ultimo decennio il tema federalista è stato variamente
evocato e agitato, quando non piegato a fini strumentali e a contingenti
interessi politici. Quel tema in realtà non è stato congiuntamente
elaborato e delineato secondo un modello coerente”.
E’ una riflessione che rimane tutt’ora valida e che, alla prova degli
ultimi fatti, si è dimostrata anzi profetica.
Una delle grandi conquiste del costituzionalismo democratico moderno,
frutto di secoli di lotte politiche e culturali, è la cosiddetta rigidità.
Le Costituzioni non sono normali leggi, prodotto della volontà della
maggioranza del momento, ma contengono i principi e le regole fondamentali
della convivenza comune, un minimo comune denominatore che definisce
l’identità di un popolo. Nelle Costituzioni sono definite le regole
democratiche, i diritti, le libertà, i doveri di solidarietà dei
cittadini, le istituzioni fondamentali dello Stato. Perciò è essenziale
che questi principi siano sottratti all’arbitrio delle maggioranze che per
loro natura sono destinate a cambiare.
I vincitori delle elezioni hanno diritto di avere i poteri e gli strumenti
per governare, per attuare il programma approvato dagli elettori.
Le Costituzioni devono stabilire limiti al potere dei vincitori (i limiti
di ogni potere) e le istituzioni di garanzia che assicurino che gli
sconfitti non saranno alla mercé dei vincitori, ma potranno di nuovo
partecipare alla competizione democratica secondo regole certe e corrette.
Le Costituzioni sono dunque di tutti: vincitori e sconfitti.
Garantiscono le libertà e i diritti di chi è politicamente e socialmente
più debole (i più forti non ne hanno bisogno). E perciò non possono essere
modificate senza il consenso di tutti o, almeno, della gran parte dei
cittadini e di chi li rappresenta democraticamente!
Il 23 marzo il Senato ha approvato il disegno di riforma costituzionale
con 162 SI e 14 NO. Com’è noto la legge approvata interviene sulla seconda
parte della Costituzione cambiandone la forma. Tutti noi però sappiamo, e
ce l’hanno ricordato anche illustri costituzionalisti in questi ultimi
mesi, che ciò che viene cambiata è soprattutto la sostanza.
Si mette, infatti, radicalmente in discussione l’universalità dei
diritti, a cominciare da quelli alla salute e all’istruzione. Il tentativo
non dichiarato è di instaurare una vera e propria “dittatura della
maggioranza”, come ha denunciato Romano Prodi, mutuando l’espressione da
uno dei padri della Costituzione americana: Alexander Hamilton. Ricordo
che Hamilton coniò tale formula quando si ragionava sulla possibilità che
il Presidente degli Stati Uniti potesse sciogliere la Camera dei
rappresentanti e il Senato. Possibilità che venne negata nella stesura
finale della Carta fondamentale americana che mantenne la separazione tra
i due poteri. La citazione di Prodi fu e rimane, quindi, pertinente.
La riforma della Costituzione, così com’è stata concepita, porterebbe,
infatti, a modificare profondamente i rapporti fra parlamento ed esecutivo
- il quale, avendo la possibilità di sciogliere le Camere – avrebbe su di
esse un potere di condizionamento troppo forte sulle sue decisioni. Senza
parlare del controllo che l’esecutivo avrebbe sull’amministrazione della
giustizia.
Questo il frutto sinora della “prima lettura” del testo di riforma
costituzionale. Nei prossimi passaggi Camera e Senato si pronunceranno
solo con un SI o un NO complessivo. Il risultato è che la revisione della
Carta fondamentale del nostra Repubblica è stata fatta ostaggio da una
maggioranza che l’ha sottratta al legittimo dibattito nel Paese e nelle
aule parlamentari. L’immagine, infatti, dei cosiddetti “quattro saggi” che
scendono dalla montagna con il testo della riforma già scritto da far
approvare a scatola chiusa ai due rami del Parlamento è una umiliazione,
non solo di tutte le nostre istituzioni democratiche ma anche della nostra
storia repubblicana.
Questa riforma, che sembrava non dovesse veder mai la luce, diventa
invece sempre più reale e si confermano giuste le preoccupazioni di chi,
come la CGIL e la maggior parte dei costituzionalisti, aveva lanciato
l’allarme. Nello specifico, la legge prevede che la candidatura alla
carica di “Primo Ministro” avvenga mediante il collegamento con i
candidati o più liste di candidati alle elezioni alla Camera.
Il Primo Ministro illustra il programma ai rami del Parlamento, ma solo la
Camera dei deputati si esprime con un voto. Sempre il capo dell’esecutivo
può porre la fiducia e chiedere che l’aula parlamentare si esprima con
priorità.
Inoltre, la Camera può sfiduciare il Primo Ministro con una mozione
firmata da un quinto dei deputati se approvata dalla maggioranza assoluta:
in questo caso vi sono le dimissioni, così come nel caso in cui la
mozione sia stata respinta con il voto determinante di deputati non
appartenenti alla maggioranza.
Il Capo del governo nomina e revoca i ministri, determina (e non più
dirige) la politica generale dell’esecutivo e ha il potere di “dirigere”
l’attività dei ministri.
Riassumendo, si tratta quindi di un Primo Ministro che potrebbe definirsi
“assoluto” perché detiene quasi pieni poteri. Viene, infatti, legittimato
da una elezione diretta, può sciogliere le Camere a suo piacimento (non ha
più bisogno della loro fiducia per insediarsi ma gli è sufficiente un voto
sul programma) e determina la politica dell’esecutivo.
La norma “antiribaltone” prevista e la sfiducia costruttiva non cambiano
la sostanza di questa figura, di fatto unica in Europa, perché ai poteri
del Primo Ministro non si accompagnano contrappesi adeguati né il
rafforzamento delle figure di garanzia.
In verità, in Italia oggi non vi è alcun bisogno di rafforzare i poteri
del Presidente del Consiglio. Si avverte semmai l’esigenza opposta:
impedire che una maggioranza politica diventi maggioranza delle regole,
stabilire le regole di fondo sull’incompatibilità fra affari e politica,
garantire il pluralismo dell’informazione.
Ritornando all’esame dell’articolato, il Presidente della Repubblica
diventa una figura di mera rappresentanza: per il nuovo articolo 87 non
rappresenta più l’Unità Nazionale ma è garante dell’ “Unità Federale della
Repubblica”, non ha più il potere di sciogliere le Camere, di dare
l’incarico di formare il governo né di autorizzare la presentazione di
disegni di legge di iniziativa del governo. Si può sicuramente affermare,
come ama dire il senatore a vita e Presidente emerito Oscar Luigi Scalfaro,
che “viene lasciato in canottiera”.
La Corte Costituzionale, rimane invariata nel numero dei componenti, ma
viene modificata nelle modalità di composizione. Aumentano, infatti, i
giudici di nomina politica che passano da 5 a 7 (3 nominati dalla Camera
e 4 dal Senato Federale integrato).
Il Presidente della Repubblica, a sua volta, ne nomina 4 e così la
Magistratura.
Cambia profondamente l’iter legislativo: il bicameralismo perfetto ha fino
ad oggi dato garanzie rispetto alle formulazioni delle leggi. Ora si passa
al bicameralismo differenziato perché ci saranno leggi sulle quali
l’ultima parola spetta alle Camere (materia di legislazione esclusiva
dello Stato) e altre su cui, invece, spetta al Senato Federale (materia di
legislazione concorrente), altre ancora bicamerali e con meccanismi
complicatissimi di rinvio. Non è dato di sapere chi avrà l’ultima parola
quando si affronteranno leggi che riguardano più materie.
Le Regioni acquisiscono la potestà legislativa esclusiva in materia di
Sanità, scuola e Polizia amministrativa regionale e locale e su ogni altra
materia non espressamente riservata alla legislazione dello Stato.
Questa formulazione creerà certamente conflitti e confusione di ruoli
nelle competenze.
Inoltre, si consente di smantellare l’unitarietà e l’universalità di
diritti fondamentali, di esasperare le disparità tra zone ricche e zone
povere del Paese.
Anche riguardo ai lavoratori pubblici, vi potrebbero essere delle
conseguenze. Potrebbe, infatti, essere messa in discussione l’unitarietà
del contratto collettivo nazionale di lavoro, a cominciare dalle risorse
economiche che non sarebbero più destinate omogeneamente a tutti i
lavoratori indipendentemente dalla regione in cui vivono.
La discussione e le proposte del Ministro Maroni – ricordiamo, ad esempio,
quelle sulle gabbie salariali - vanno proprio in questo senso. Dietro a
tali soluzioni istituzionali serpeggia un’idea precisa relativa del
federalismo e degli interessi sociali che riguarda direttamente anche il
sistema delle relazioni contrattuali, vale a dire la destrutturazione del
sistema contrattuale, alimentando un equivoco interessato a proposito del
decentramento contrattuale.
Un conto è prevedere un sistema decentrato di relazioni contrattuali
finalizzato all’introduzione di differenziazioni virtuose dentro un quadro
di coerenze nazionali, sancito dai contratti nazionali di categoria. Tutt’altra
cosa è dar vita ad un sistema disarticolato di discipline contrattuali
differenziate sul territorio senza alcun riferimento unitario nazionale.
Ma come rapportare il disegno di uno Stato federale con le questioni
dell’autonomismo regionale siciliano?
La Regione siciliana fino ad oggi ha manifestato un ruolo accentratore,
pervasivo sul territorio, svuotando delle loro prerogative le autonomie
locali. Ha creato un forte neo-centralismo regionale che si sostituisce a
quello statale lasciandone immutati i limiti e contraddizioni.
L’autonomia regionale in Sicilia non è stata in grado di esprimere le sue
potenzialità, non ha consentito di recepire in modo agile le leggi
nazionali, neanche quelle innovative.
E quando, con estremo ritardo, ne ha approvata una come la legge 10 che,
recependo la Bassanini, inserisce particolari elementi di novità in
termini di snellimento dell’attività amministrativa, di responsabilità del
procedimento e di trasparenza, ha fatto di tutto per non attuarla.
I ritardi di recepimento delle leggi di riforma nazionale, hanno aperto un
dibattito sulla valenza dell’autonomia siciliana che non poteva che
approdare ad un’unica conclusione: quando non si è trattato di
un’occasione mancata, è stato sicuramente un vero e proprio processo
frenante rispetto alla necessità di attuare modelli innovativi utili ad
anticipare i segni dei tempi e a dare impulso ad una politica di sviluppo
nella nostra Isola.
A quasi sessant’anni dalla promulgazione dello Statuto speciale siciliano,
questa considerazione ha fatto sì che i deputati dell’Assemblea regionale
introducessero nella nuova Carta statutaria la previsione che norme
nazionali di rilevanza politica, sociale ed economica per l’intero Paese
vadano recepite entro sei mesi dalla loro promulgazione e, in mancanza di
tale atto, che si applichino automaticamente.
Accanto a questo, l’aver mantenuto inalterato il ruolo del Commissario
dello Stato, conferma i limiti della classe politica dirigente siciliana,
che pur di non assumersi pienamente le sue responsabilità ricorre
all’alibi del Commissario.
Il nuovo Statuto tuttavia, contiene alcuni punti che se attuati e non solo
annunciati, possono essere considerati positivi. Viene, infatti,
riconosciuto il valore prioritario del principio di sussidiarietà, che
dovrà ispirare l’attività e l’organizzazione della macchina regionale sul
fronte dei rapporti istituzionali.
Ancora, viene ribadito l’impegno di lottare, insieme allo Stato, contro
ogni violenza di tipo terroristico e criminale.
Compresa la mafia? Potremmo chiederci.
Infine, si individua per la nostra regione una proiezione internazionale,
nell’ambito dei Paesi mediterranei che, in vista dell’attuazione dell’Area
di libero scambio del 2010, renderebbe l’Isola un potenziale ponte tra
l’Unione europea e i Paesi rivieraschi che non ne fanno parte.
A fronte di ciò però, mancano sicuramente le scelte e le azioni concrete
per far sì che la Sicilia assuma questo ruolo che non è solo un fatto
istituzionale. Il problema non è lo statuto, che può anche essere
considerato positivo, ma piuttosto le scelte politiche, gli indirizzi che
saranno dati per la crescita della nostra regione.
Concludendo, per ritornare alle questioni legate a questo modello di
assetto istituzionale, è chiaro che c’è un disegno strategico a cui
bisogna opporsi in modo forte, un disegno che è l’opposto di quel
federalismo solidale inteso non come riduzione ma bensì come espansione
dei diritti e della partecipazione.
C’è, inoltre, una concezione di welfare ridotta al minimo, di diritti che
vengono affievoliti, di capitalismo compassionevole che questo governo ha
fatto suo e che è l’opposto dell’affermazione forte dei diritti sociali
contenuti nella nostra Costituzione.
Per questo bisogna essere pronti al referendum. Bisogna prepararsi a
vincerlo, non solo con iniziative di mobilitazione diffuse, ma recuperando
la memoria e i valori che devono sostenere la nostra capacità di lotta.
Un’ultima
considerazione. Per noi il federalismo è un modo per riformare uno Stato
nazionale, non per dissolverlo; il federalismo è un modo per governare e
amministrare meglio; il federalismo è un modo per coniugare autogoverno e
cooperazione e per assicurare una più efficace azione sociale.
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