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Care compagne e cari compagni, gentili ospiti, siamo alla conclusione della campagna congressuale, che ha visto impegnata la nostra Categoria. Per la prima volta, dopo 15 anni, la CGIL si presenta al congresso con un documento unitario, un scelta questa di straordinaria importanza, considerata la grave situazione in cui versa il Paese. Abbiamo fatto un buon lavoro: in una fase difficile quale quella attuale, abbiamo coinvolto circa 1500 iscritti su 2850 in oltre 40 assemblee di base, in un rapporto dialettico vero. Siamo stati in grado, in questi anni, di mantenere alta la tensione sulle numerose vertenze, di essere presenti a tutte le iniziative e, contemporaneamente, senza risentire di alcun contraccolpo, di effettuare un rinnovamento di tutta la segreteria. Questo è stato possibile grazie alla disponibilità e a quanto costruito negli anni dai compagni che ci hanno preceduto alla guida di questa grande categoria, il compagno Polese e la compagna Galeone. Ringrazio tutti i compagni e le compagne per il lavoro svolto ed i compagni della Segreteria che hanno ben gestito questa fase, non dimenticando il ruolo svolto recentemente dalla compagna Tempesta. L’ultimo congresso della FP, quattro anni fa, si è svolto mentre il nostro paese viveva un momento difficile dal punto di vista economico e destava notevole preoccupazione la situazione in cui versava il mondo del lavoro, ma, nonostante tutto, era ancora possibile cogliere delle importanti opportunità per una ripresa sostanziale. Dopo oltre quattro anni ci troviamo a celebrare il nostro 8° congresso nel pieno di una crisi profonda e generalizzata e il nostro paese si trova in pieno declino economico e sociale. La situazione politica internazionale continua a destare notevole allarme. Il mondo è segnato da eventi sconvolgenti che ben si adattano al quadro di Goya: il sonno della ragione genera mostri. Continuano le guerre, l’escalation della violenza e del terrorismo internazionale, i conflitti etnici e religiosi, lo scontro di culture. La crescita delle disuguaglianze tra paesi ricchi e poveri; i conflitti per l’accesso all’acqua e per il controllo delle fonti energetiche caratterizzano questa epoca. Il terrore, la guerra e lo scontro di civiltà sono tratti caratterizzanti dei fondamentalismi, quelli espliciti del terrorismo e quelli celati nell’arroganza di chi si sente detentore di valori morali superiori, espressi con la pretesa di imporre la democrazia attraverso la guerra. La politica internazionale dell’amministrazione Bush, a cui il governo Berlusconi continua ad essere subalterno, si fonda sulla logica del più forte, ed è finalizzata all’acquisizione di un vantaggio competitivo globale sul resto del mondo attraverso il controllo delle aree strategiche, in particolare quelle ricche di fonti energetiche. La guerra preventiva e continua è lo strumento di questa politica, grazie alla quale l’Iraq continua ad essere un paese scosso quotidianamente da stragi terroristiche e militarmente occupato. Le armi chimiche, inesistenti in quel paese, sono, fuori da ogni convenzione internazionale, utilizzate da chi si è avvalso di quella falsa motivazione per scatenare una guerra devastante che ha superato, attraverso il terrorismo, i confini dell’Iraq. Nella società irakena è comunque presente un’attesa di democrazia, rappresentata anche dalla partecipazione al voto, e di resistenza all’occupazione. È responsabilità della comunità internazionale aiutare questo popolo ad appropriarsi del proprio destino, anche attraverso il ritiro delle forze militari occupanti. Fortunatamente le cose stanno cambiando, il vertice internazionale convocato da Clinton a Settembre ha registrato la crisi della leadership di Bush, decretando il fallimento della dottrina dell’uso preventivo della forza, della guerra unilaterale, dell’esportazione della democrazia. Il disegno delle destre sta miseramente naufragando e la scelta dei progressisti di rafforzare i rapporti transnazionali su principi quali il multilateralismo, la lotta alla povertà, lo sviluppo sostenibile, si dimostra vincente. Tale situazione determina una preoccupante delegittimazione del ruolo internazionale dell’Unione Europea ed il suo graduale allontanamento dal modello sociale europeo desta notevole inquietudine. Dal suo trattato costituzionale emergono l’assenza del ripudio della guerra e gravi reticenze sul lavoro, che rischiano di contraddire le affermazioni della Carta di Nizza. Il modello sociale europeo affida allo stato e ai poteri pubblici un ruolo regolatore e redistributivo, con l’obiettivo di coniugare libertà e solidarietà. Un modello che tende all’eguaglianza delle persone, basato sull’idea che esse non sono solo portatrici di diritti individuali ma anche di diritti collettivi come il diritto alla salute, all’istruzione, al lavoro, alla casa. Solo le funzioni pubbliche sono la garanzia di questi diritti e le carte costituzionali sanciscono il ruolo e il valore del lavoro e delle organizzazioni sindacali. La globalizzazione liberista mette a rischio il modello sociale europeo, il GATS ( accordo generale sul commercio dei servizi) prevede, sul modello americano, la liberalizzazione dei servizi e la possibilità della loro privatizzazione. Da questa logica nasce anche la Direttiva Europea sui servizi, la Bolkestein, che prevede la libera concorrenza e la privatizzazione di servizi essenziali quali sanità, istruzione, servizi sociali. La Bolkestein limita i poteri degli Stati membri sulla politica economica e sociale;introduce il principio del “Paese d’origine”, secondo il quale i fornitori di prestazioni e servizi non sarebbero più regolati da norme contrattuali e legislative che fanno capo al principio del trattamento di migliore favore, ma a quello del paese d’origine della ditta erogatrice del servizio. In nome della libera concorrenza ci troveremmo ad avere in uno stesso paese operatori che prestano lo stesso servizio con costi e qualità diverse. Grosso il rischio di delocalizzazione delle imprese verso paesi con normative sul lavoro e sistemi di protezione sociale meno onerosi e con meno garanzie. Assisteremmo ad una rincorsa verso il basso della soglia dei diritti dei lavoratori e della qualità dei servizi. Bisogna gridare forte il nostro no a questa direttiva e non dimenticare che fu Prodi nel suo semestre a promuoverla. Non è questa l’Europa che vogliamo, dobbiamo portare avanti con forza il tema della costruzione dell’Europa dei diritti, contro l’idea di un’Europa dei mercati. In questo contesto, la situazione del nostro Paese certo non ci tranquillizza, l’Italia si trova in pieno declino sociale ed economico. La politica del governo Berlusconi (che considera l’azione politica come marketing e i cittadini destinatari di pubblicità ingannevole), è stata, in modo irresponsabile, impregnata da un becero istinto di modernizzazione antisindacale e di estremismo populista che ha innescato un processo di cambiamento sociale e culturale preoccupante. Abbiamo assistito, in questi anni, ad una destrutturazione del sistema dei valori su cui si è retta la nostra democrazia, è stato disatteso il patto di cittadinanza sociale sancito dalla nostra Costituzione. Viviamo in un momento d’inquietante instabilità istituzionale. Il peggioramento delle condizioni del nostro paese è, quindi, il risultato di un’azione, di un progetto, perseguito con determinazione dal governo, a partire dal 2001. Nel 2001, prima e dopo la vittoria alle elezioni politiche della coalizione di centro destra, emersero e si contrapposero due idee totalmente alternative di società: da una parte, con l’assemblea di Parma della Confindustria, il manifesto del pensiero liberista, e dall’altra, con il social forum di Genova e il G8, una visione del mondo fondata sulla globalizzazione dei diritti, sulla pace ed il rifiuto della guerra e su un’idea di sviluppo sostenibile, equo ed eco-compatibile. Il manifesto liberista vince le elezioni con Berlusconi e, sul fronte opposto, i movimenti, per difendersi dall’offensiva più grave che i diritti abbiano mai subito nel nostro Paese, chiedono alla politica di assumere, a base della propria azione, valori fondamentali quali la pace, la partecipazione, i diritti, l’equità. La CGIL ha avuto il grande merito di essere stata capace di incrociare il movimento, contaminandolo e contaminandosi, abbiamo la consapevolezza che senza le nostre lotte, le azioni del governo sarebbero state ben peggiori. L’idea liberista è quella che assegna all’economia, alle compatibilità di al mercato il ruolo regolatore di tutte le scelte politiche, anche quelle in campo sociale. La contrapposizione tra Stato e mercato schiaccia anche la sinistra, che non è capace di proporre altro che forme di liberismo più temperato, anch’essa ha ritenuto, per anni, giusto che lo stato e il pubblico avessero solo un ruolo di regolazione o, al massimo, di programmazione e controllo, dimentica del fatto che il superamento del fordismo, imposto dalla globalizzazione dei mercati e dalla necessità di aziende più flessibili, avrebbe prodotto una liberazione dai tempi del lavoro e una diversa ripartizione fra tempi di vita e tempi di lavoro. Il risultato è stato un’inverosimile dilatazione dell’orario di lavoro giornaliero, settimanale, mensile ed annuale. Il governo di centro sinistra, inoltre, pur compiendo, anche grazie al nostro aiuto il risanamento finanziario, traccia, con “il pacchetto Treu”, i preliminari della precarizzazione del lavoro che il centrodestra porterà a compimento. Per ridare linfa a questo paese non sarà sufficiente il buon governo, l’efficacia e l’efficienza amministrativa, bisognerà riaffermare i valori dell’eguaglianza, dell’equità e della legalità. Una globalizzazione senza regole ha portato ad un aumento delle disuguaglianze. Le disuguaglianze, come dato strutturale dell’economia di mercato globalizzato, in Italia sono dimostrate dai numeri, che danno un quinto della popolazione ulteriormente arricchito, i 3/5 impoveriti ed il restante quinto ormai in caduta libera. Siamo finalmente giunti agli ultimi atti di un’avventura politica che rischia di travolgere sempre di più la credibilità del paese. Questo governo ci sta lasciando una devolution pericolosa, una legge elettorale ambigua, una finanziaria allo sbando. Il sistema istituzionale, con le ultime leggi approvate dal governo di centro destra, ha avuto un cedimento strutturale nei punti più delicati: le interconnessioni e le sue garanzie. La riscrittura costituzionale (riformati 55 articoli), della devolution, ha già prodotto importanti effetti dannosi. Ha dimostrato la fragilità delle garanzie procedurali a difesa della Costituzione e ha dato l’immagine di un paese a geometria variabile. Si è annullata ogni differenza tra indirizzo politico di legislatura e quadro istituzionale. Lo stravolgimento costituzionale ad immagine di maggioranza è una delle crisi più profonde che attraversa il paese, per la precarietà istituzionale che determina. Si sono messi in discussione i fondamenti dell’unità nazionale intesi come espressione di concreti vincoli di solidarietà fiscale e di coesione territoriale. Questa riforma e tutti gli atti di questo governo ci dimostrano che la nostra è ancora una democrazia incompiuta, e, a chi si candida a governare il nostro paese bisogna chiedere soprattutto un progetto alternativo che dovrà basarsi sul proposito di completare la nostra democrazia. Il vero rinnovamento, come ci hanno dimostrato le primarie, è la riscoperta della “partecipazione all’organizzazione politica del paese” come elemento di costruzione istituzionale così come sancito dall’art. 3 della costituzione. La giustizia è l’altro punto dolente. Il CSM, per ben due volte, ha bocciato la legge ex Cirielli, legge che viola la Costituzione, perché introduce meccanismi che porteranno a un’irragionevole disparità di trattamento degli imputati, come nel caso del differente calcolo della prescrizione, non in base al reato, ma a seconda delle caratteristiche penali dell’imputato. Una legge che interviene sui termini di prescrizione, senza correggere le cause che producono la lentezza dei processi, è una legge sbagliata. Il governo delle destre è stato protagonista della riscrittura del Patto di stabilità e, in maniera irresponsabile, ne rimette continuamente in discussione il fondamento, ogni volta che dichiara che il tetto fissato dalla UE del 3% nel rapporto tra deficit/ Pil non ha più senso. I dati dicono che l’Europa accelera e l’Italia rallenta, la crescita economica, nel terzo trimestre è chiara, fra i paesi dell’euro il nostro fa da fanalino di coda. La media d’aumento del Pil è stata dello 0,6% in Europa e solo dello 0,3 in Italia, si è tornati alla crescita 0, raggelando gli entusiasmi della scorsa estate. Il dato dimostra che l’economia italiana fa fatica a tenere il passo con i partners europei e cade l’alibi che le difficoltà nascano soprattutto dalla sleale concorrenza dei paesi emergenti. L’Italia, in effetti, non regge il passo con la Francia e con la Germania. La credibilità del nostro paese sui mercati internazionali è ormai ridotta al minimo storico. All’interno della finanziaria certamente la parte più vergognosa ed inaccettabile è quella riguardante il capitolo dei cosiddetti aiuti alle famiglie, che, attraverso l’erogazione di bonus, tende a spostare sulle famiglie la responsabilità dell’assistenza, in mancanza di servizi, che, nel contempo, vengono tagliati o sottofinanziati. È una visione sbagliata, che molti danni sta producendo anche nel comune sentire: la famiglia come sostituto ai servizi che non ci sono; e, purtroppo, è un sentire che sta attraversando anche il centro-sinistra; che cos’è, infatti, la proposta di sostegno economico alle donne in gravidanza avanzata dalla Margherita in questi ultimi giorni di dibattito sulla 194, se non un bonus? Dal Decreto legge collegato alla finanziaria, infine, emerge per il 2006 una stangata senza precedenti su Regioni e Comuni che si tradurrà in un’ulteriore riduzione di servizi pubblici. Gli enti locali subiranno un taglio implicito, rispetto ai bisogni complessivi stabiliti di anno in anno, di oltre 2,5 miliardi. Il prossimo governo sarà investito di un duro compito, creare le condizioni per una ripresa vigorosa, per un recupero delle quote di mercato all’estero, per un rilancio della produttività. Saranno necessarie riforme radicali, nel commercio, nelle professioni e nella pubblica amministrazione, senza, al contempo, rincorrere false soluzioni attraverso le privatizzazioni, che noi osteggeremo con tutta la nostra forza. Il nuovo governo dovrà essere consapevole che la ripresa dell’economia è l’unico modo per risanare i conti pubblici. La crisi economica, la debolezza della domanda dei consumi, il peggioramento delle condizioni di lavoro e di vita di lavoratori e pensionati, il livello di disoccupazione e sottoccupazione- precariato- hanno raggiunto ormai un punto limite che può essere superato, solo se il governo che verrà metterà in campo politiche coraggiose e chiare. Visto il disastro nel quale navighiamo, per la ripresa del nostro Paese, occorre ridisegnare un nuovo progetto per il lavoro pubblico. Il fallimento della globalizzazione senza regole chiede con urgenza la riprogettazione del futuro, promuovendo l’idea di uno sviluppo capace di sostenibilità economica, generante un blocco sociale fondato sul valore di un nuovo patto di cittadinanza. Una società fondata su un nuovo spazio pubblico nel quale si identificano e si acquisiscono i beni collettivi e sociali. È indispensabile in questa fase, per la crescita del nostro paese, offrire un punto di vista alternativo sul lavoro pubblico. Le politiche attive di sviluppo hanno bisogno dell’intervento diretto del pubblico per far sì che le dinamiche di mercato non accentuino gli squilibri in campo. Il lavoro pubblico è la frontiera e il presidio della legalità, in quanto capace di coniugare lo sviluppo con la garanzia dei diritti fondamentali delle persone. Al lavoro pubblico è affidata la politica di welfare del nostro paese (istruzione, salute, previdenza) che sicuramente va riprogettato secondo la logica che il benessere è un diritto di ogni cittadino. Il welfare deve essere un welfare di cittadinanza e non un welfare caritatevole e inesigibile a causa della precarizzazione del lavoro. A noi spetta mettere in atto una contrattazione di qualità sull’organizzazione del lavoro, assumendo sempre più un maggiore ruolo nella contrattazione territoriale e sociale e producendo un confronto significativo riguardo all’innovazione da apportare all’organizzazione del lavoro. Il lavoro pubblico può, in una economia di servizi, produrre sviluppo, facendo crescere la quota dei servizi economicamente remunerativi, a condizione di investire in formazione, reclutamento di personale professionalizzato. Lo slogan “minore spesa pubblica = maggiori risorse per lo sviluppo” è una bufala; è vero il contrario, a più spesa corrisponde più sviluppo. Difficile è la situazione dei rinnovi contrattuali: per tutti i comparti si sono registrati ritardi senza precedenti che, nel corso di questi ultimi anni, hanno portato praticamente tutte le categorie a scioperare per vedersi garantito il giusto diritto al rinnovo contrattuale, dai medici ai metalmeccanici, dai giornalisti ai controllori di volo. Particolarmente grave è la situazione del pubblico impiego: i CCNL dei vari comparti, sono stati rinnovati con circa due anni di ritardo, e, nonostante la lunga ed estenuante vertenza per il rinnovo economico del biennio 2004/2005, caratterizzata da numerose iniziative di lotta e terminata poi con l’accordo del maggio ultimo scorso, ad oggi sono stati sottoscritti soltanto i rinnovi economici per la Scuola ed i Ministeri, trascurando, manco a farlo apposta, Autonomie Locali e Sanità. Ancor più preoccupante si prospetta poi la situazione per il futuro: nella proposta di legge finanziaria 2006, le risorse messe a disposizione per il biennio contrattuale 2006/2007 costituiscono una voce che non copre neanche interamente l’indennità di vacanza contrattuale. Una situazione del genere non si era mai verificata nella storia dei rinnovi contrattuali. Tutto questo, unito ai tentativi del Governo, tanto cari a Confindustria, di decontrattualizzare i rapporti di lavoro attraverso interventi legislativi, mina alla base il CCNL. Il livello nazionale di contrattazione dev’essere confermato nel suo ruolo di difesa del salario reale e di garanzia dei diritti uguali per tutti i lavoratori, senza distinzioni territoriali. Non è il sistema contrattuale esistente, fondato sui due livelli di contrattazione, nazionale e decentrata, a dover essere messo in discussione, ma è il sistema di adeguamento salariale alle dinamiche inflattive che va rivisto ed adeguato per difendere il potere d’acquisto dei salari. Non rinnovare i contratti rientra nella strategia di attacco al ruolo dello stato e delle funzioni pubbliche. Se l’attacco all’art. 18 era finalizzato a mettere in discussione l’art. 1 della costituzione, l’attacco al lavoro pubblico mira a svuotare il principio di uguaglianza sostanziale sancito dall’art. 3. L’attacco al lavoro pubblico si è spostato ai lavoratori, costano troppo? Dal 2000 al 2003 la crescita della spesa per retribuzioni nei comparti pubblici è stata inferiore agli incrementi nominali dei rinnovi contrattuali e all’inflazione dello stesso periodo. Nello stesso periodo abbiamo invece assistito ad una crescita del 54% della spesa per acquisto di beni e servizi ( comprese consulenze e collaborazioni) . Inoltre, la percentuale dei dipendenti pubblici è distribuita per il 42, 6% nelle regioni del nord contro il 19,6 del sud ed il 12 delle isole, evidenziando la diversa distribuzione territoriale dei servizi pubblici e del welfare. Accanto all’aumento delle spese per consulenze, sono aumentati i lavoratori precari. Negli ultimi anni il termine stabilizzazione ha assunto un significato taumaturgico per migliaia di lavoratori precari impiegati nella Pubblica Amministrazione. Essa viene percepita come la possibile liberazione da una condizione di perenne instabilità della propria esistenza . Un esistenza inserita in una società dove la precarietà aggredisce le nostre vite non solo dal punto di vista lavorativo ma sociale e culturale. Oltre a non avere un lavoro sicuro , precario è chi non riesce ad avere un abitazione stabile, precario è chi non ha possibilità di sostenere o creare una famiglia, precario è chi non può avere un'istruzione o un assistenza sanitaria adeguata, precario quindi non è solo il rapporto di lavoro ma precario diventa il nostro stesso modo di pensare, l’essere costretti a pensare “ a tempo determinato” nell’impossibilità di progettare un futuro che vada oltre la scadenza di un contratto, precaria diventa la nostra stessa cultura foraggiata da un sistema d'informazione che fa di tutto per alimentare paure e insicurezze atte poi a giustificare processi di militarizzazione delle nostre vite. Rispetto a dieci anni fa, dove il fenomeno precarietà nel settore pubblico era pressoché inesistente, ora raggiunge livelli allarmanti. È quello che si evince dall’ ultimo rapporto sulla flessibilità del lavoro nel Pubblico Impiego stilato dal Dipartimento della Funzione Pubblica. Risulta addirittura che il settore della pubblica amministrazione presenta un livello di flessibilità superiore alla media totale ( 19,5 % ), e, se a questo settore aggiungiamo una cosiddetta quota pubblica rappresentata dalla scuola e dalla sanità, il gap risulterà ancora più ampio rispetto ad altri settori, come l’industria , i servizi o l’agricoltura. Considerando tutte le tipologie di flessibilità presenti oggi, che vanno dalle collaborazioni coordinate continuative agli LSU e, per finire, ai lavoratori a tempo determinato, si contano circa 300.000 lavoratori precari , più del 10% del bacino complessivo di occupati nel pubblico impiego . Ciò significa che, invece di perseguire una politica attiva del lavoro e dell’occupazione, che si fondi su una programmazione delle assunzioni per soddisfare le reali esigenze delle amministrazioni e della loro capacità finanziaria di bilancio, si è agito sul blocco indiscriminato delle assunzioni e sulla proroga dei contratti atipici, da quelli a tempo determinato ai co.co.co., a quelli a “convenzione”, per finire ai contratti di lavoro a progetto, utilizzati in modo strumentale, per sopperire alla carenza di personale, sconfessando nel contempo le finalità della legge stessa, che prevede questa tipologia di contratto legata a progetti di lavoro definiti e limitati nel tempo. Il lavoro pubblico, la sua tutela e lo sviluppo della professionalità, unitamente alla programmazione di un rafforzamento e di un ricambio generazionale e qualitativo degli addetti, è stato puntualmente ostacolato nelle leggi finanziarie emanate da questo Governo, con misure così contraddittorie e scoordinate che fanno pensare ad una precisa strategia tesa a “demolire” la Pubblica Amministrazione o, quanto meno, a disconoscerne l’importanza e l’ attualità per la vita democratica e lo sviluppo del Paese. La lotta alla precarizzazione del lavoro, il contrasto alle esternalizzazioni di funzioni e il contrasto alle privatizzazioni, assumono un grosso significato sul quale è possibile costruire una progettualità ed un blocco sociale ampio, che veda protagonisti il Sindacato, il mondo del lavoro, le associazioni, i movimenti, le istituzioni, la cultura, la ricerca. La battaglia per stabilizzare i lavoratori precari non risponde solo ad una esigenza di questi lavoratori di avere finalmente un lavoro stabile, è anche il modo di difendere e dare stabilità alle funzioni pubbliche. Stabilizzare il lavoro precario significa difendere il nostro lavoro e i diritti di tutti. È indispensabile una legge nazionale per la stabilizzazione di tutti i lavoratori precari del pubblico impiego, per chiudere definitivamente una fase e riaffermare la centralità del rapporto di lavoro subordinato e la garanzia dei diritti ad esso connessi. In questo quadro di continui ritardi nei rinnovi contrattuali e di precarizzazione dei rapporti di lavoro, in una situazione di forte vertenzialità che ha impegnato tutta la nostra Categoria, siamo comunque riusciti, con forza ed impegno, a chiudere i contratti decentrati in buona parte delle aziende sanitarie e degli enti locali della provincia, ponendo al centro della contrattazione l’organizzazione del lavoro, nella ferma convinzione che solo agendo sulla qualità e la valorizzazione del lavoro si può incidere positivamente sull’efficienza e l’efficacia dei servizi. Forte è stata in contrattazione l’attenzione posta agli aspetti relativi all’avanzamento professionale e di contrattazione del salario di produttività. Numerosi sono stati infatti gli accordi sottoscritti per progressioni orizzontali, recuperando così anche parte del potere d’acquisto delle retribuzioni, non garantito attraverso il puntuale rinnovo contrattuale; diversi accordi sono stati sottoscritti per l’applicazione dell’istituto delle progressioni verticali. Nel corso di questi anni, contestualmente all’attività di contrattazione siamo stati partecipi e protagonisti dei momenti politici più alti della nostra Organizzazione, sia a livello nazionale che regionale (dall’imponente manifestazione di Roma a difesa dell’art. 18 - e la relativa raccolta di firme, che ha visto la Funzione Pubblica fortemente impegnata sul territorio regionale - alla manifestazione per la pace di Milano, dagli scioperi per il rinnovo contrattuale del pubblico impiego alla manifestazione contro la direttiva Bolkestein ) attraverso un forte coinvolgimento di tutte le compagne ed i compagni, l’organizzazione di iniziative su temi di interesse confederale quali: l’iniziativa sul diritto alla Salute, gli incontri dibattito sulla sanità pubblica e privata e sulle problematiche dei ministeri, le iniziative sulle Agenzie Fiscali e per la isituzione dell’Ufficio delle Dogane in Basilicata, l’indagine conoscitiva sull’organizzazione dei lavoratori del San Carlo - che hanno fortemente connotato la nostra categoria. Particolare attenzione abbiamo posto alla formazione delle RSU con corsi sulla contrattazione, nella convinzione che più efficace è la tutela dei propri diritti se si ha la padronanza degli strumenti per esercitarli. Lo storico risultato ottenuto nelle ultime elezioni per il rinnovo delle R.S.U. è stato sicuramente determinato dal forte coinvolgimento di tutti i lavoratori e dal processo di rinnovamento avviato. L’altissima percentuale dei votanti nelle elezione delle RSU che, non era certamente un dato scontato, dimostra come il sindacato abbia ormai radicato questa consuetudine democratica, dimostra quanto i lavoratori del Pubblico Impiego tengano ad esprimere, attraverso il voto, il diritto di scegliere liberamente i propri rappresentanti. La grande affermazione della Funzione Pubblica è stata eccezionale; basti considerare che il vantaggio di oltre mille voti che la CISL FPS aveva registrato nelle elezioni del 2001 si è ridotto a poche decine di voti. La Categoria ha incrementato il proprio consenso, rispetto alla scorsa tornata elettorale, di circa 500 voti, registrando una crescita di circa il 6% a livello provinciale e del 4,2% a livello regionale. Il risultato positivo conseguito, sicuramente ascrivibile all’impegno ed al lavoro della segreteria e delle compagne e dei compagni che, ai vari livelli, hanno dimostrato responsabilità e capacità di costruire consenso e partecipazione, ha offerto l’occasione di valutare il livello di percezione della FP CGIL tra le lavoratrici ed i lavoratori del pubblico impiego e permette di analizzare positivamente la visibilità ed il senso di appartenenza ad una categoria sviluppatasi e consolidatasi all’interno della stagione di iniziative e di mobilitazione propria di questi anni. L’attività capillare svolta dalle compagne e dai compagni è riuscita a far vivere l’appuntamento elettorale della RSU come un momento di confronto e di partecipazione democratica. Lo testimonia la capacità di aver costruito con i lavoratori, attraverso numerosissime assemblee, liste anche negli enti più piccoli e periferici, dimostrando l’efficacia dell’idea che ha sotteso tutto il lavoro preparatorio alle elezioni: costruire i programmi, coniugando le questioni di ordine generale, l’organizzazione del lavoro ed i diritti con le questioni specifiche dei luoghi di lavoro. L’esito elettorale ci ha ampiamente ripagato del forte impegno sostenuto, permettendo alla Funzione Pubblica di accrescere il suo ruolo ed il suo peso politico sia all’interno che all’esterno della CGIL. La consapevolezza del nostro ruolo ci impone di non limitare la nostra azione alla sola attività contrattuale, ma di esercitare un nuovo protagonismo che affronti le questioni che attengono alla crisi del sistema produttivo della nostra regione ed alla funzione centrale della Pubblica Amministrazione. La nostra regione è giunta ad uno punto cruciale del suo ciclo di crescita ed è prossima alla fuoriuscita dall’area dell’Obiettivo 1, vale a dire, sta per varcare il confine che divide le regioni in espansione da quelle in ritardo di sviluppo. La rappresentazione dello stato in cui versa l’economia lucana è sintetizzabile nella frase: “Basilicata: una regione da guinness negli anni 96/2001 al declino”. Siamo di fatto, ormai, ad una fase di forte recessione, che sta mettendo a dura prova la capacità di tenuta dell’intero sistema regionale. Non si tratta di analizzare gli indicatori, con più o meno propensione al catastrofismo, quanto, piuttosto, di saper leggere nel profondo, cercando di comprendere le ragioni, le cause, le influenze dei fattori esogeni ed endogeni per tentare di costruire una risposta concreta di media lunga prospettiva alla fase che stiamo attraversando. Una risposta che non può e non deve riguardare solo la ricerca di soluzioni finalizzate a bloccare la deriva, quanto piuttosto di immaginare un progetto più ampio delle semplici ricette di sostegno ai singoli comparti; e, quindi, costruire una proposta alta, in grado di guardare all’insieme delle dinamiche che intervengono sui fattori di sviluppo. Tenere insieme le politiche di sostegno con quelle della formazione, l’innovazione, la qualificazione, la modernizzazione del sistema produttivo, della P.A. e dell’offerta di servizi con la salvaguardia del lavoro, della sua qualità ed ampliamento. Far percepire alla società di Basilicata l’esistenza di un progetto, un modello di sviluppo, un’ idea di società in grado di coniugare crescita, sostenibilità ambientale, diritti. In una parola, bisogna essere vissuti, le forze progressiste ed in primo luogo il sindacato, come soggetti veri di cambiamento, piuttosto che come gestori di processi indotti o, peggio ancora, decisi da altri. Dobbiamo esser fortemente preoccupati, se dopo un fase positiva, siamo di fronte ad indicatori (utilizzo degli impianti, produttività) che hanno raggiunto punte negative mai registrate negli ultimi anni; se ad un forte processo di infrastrutturazione informatica, accompagnato dalle strozzature che conosciamo (assenza della larga banda), corrisponde il più basso uso di questa rete da parte delle pubbliche amministrazioni nella fornitura di servizi. Ciò significa che non siamo di fronte, come dicono molti, alla convergenza di fattori congiunturali e strutturali, bensì alla emersione di una vera e propria difficoltà del territorio a venir fuori da una condizione di marginalità rispetto ai nuovi processi di globalizzazione dei mercati. Una condizione questa che è sicuramente anche il frutto di una difficoltà della Pubblica Amministrazione, degli stessi operatori dei nostri comparti a considerarsi protagonisti di un nuovo processo di sviluppo; ma che non può non essere in primo luogo legata ad una cultura, un fare dei privati e del loro modo, ormai superato, di intendere le relazioni con il sistema politico. Abbiamo insomma l’impressione che sono molti a non comprendere un dato ormai innegabile, e cioè che siamo di fronte ad un nuovo ciclo, alla revisione delle politiche di coesione europea, alla ricollocazione dell’area del sud d’Italia nello scacchiere internazionale, in particolare nel Mediterraneo, che richiede, anche a noi, un approccio diverso ai temi ed alle questioni dello sviluppo. Dobbiamo avere consapevolezza che quello che sta davanti a noi, in Basilicata, è un periodo assai difficile: - si è chiusa la fase degli anni ’80 – ’90 della politica di delocalizzazione al sud di produzioni e quindi di attività dalle aree del nord; - ci avviamo alla fase della fuoriuscita dall’Obiettivo 1 senza aver modificato in positivo gli indicatori più significativi (tasso d’infrastrutturazione, produttività, efficienza P.A., rapporto addetti fra settore primario – secondario e servizi); - si amplia la forbice delle esigenze fra vecchie e nuove generazioni e si avverte la necessità di adeguare e rafforzare il welfare locale. È una Basilicata, la nostra, che rischia di non utilizzare tutte le sue risorse (acqua e petrolio) che altri, nel sud, non hanno, se non è capace di aggiornare e riorientare la spesa e la sua visione di sviluppo. Voglio significare insomma che il tema delle politiche di sviluppo deve viaggiare di pari passo con quello delle politiche sociali e di sostegno alle fasce più deboli; e, pertanto, assume valore strategico il modello delle relazioni, la qualità dell’azione di governo ai diversi livelli, nonché la definizione puntuale delle priorità. Tutti elementi, questi, indispensabili alla definizione di una nuova strategia, tesa a far uscire la Basilicata dalla stagnazione economica. Lavorare tutti per collocarla dentro quello che Viesti, nel suo libro “abolire il Mezzogiorno” chiama “il nuovo contesto geopolitico” per il fatto che “i nostri vicini sono tornati”. Sarebbe fatale essere esclusi da questa che a molti pare, me compreso, essere l’ultima opportunità. Ridefinire quindi, avendo chiaro il contesto, le priorità settoriali, territoriali, sociali, sapendo che, come è inopportuno parlare della necessità di una nuova fase di industrializzazione, è altrettanto riduttivo rilanciare l’idea dello sviluppo autopropulsivo, ancorato alla sola valorizzazione del patrimonio ambientale, storico e paesaggistico. In questo quadro, particolare rilievo assume la necessità di maggiori tutele alle persone più deboli attraverso la riorganizzazione del sistema del welfare regionale. Sarà necessaria una nuova stagione di programmazione socio – sanitaria che inneschi un processo di razionalizzazione della spesa connesso ad una ottimizzazione della qualità dei servizi. Il processo di razionalizzazione dovrà innanzitutto tener conto della riduzione del numero delle ASL, della razionalizzazione della rete ospedaliera e dell’implementazione dei servizi territoriali: data l’esiguità della popolazione di Basilicata, non è giustificabile il mantenimento di cinque ASL, due ospedali regionali (CROB e San Carlo) e 17 ospedali che offrono tutti gli stessi servizi, spesso di qualità mediocre, sottraendo risorse alla innovazione tecnologica ed alla qualità. È indubbia la necessità di razionalizzare la spesa spostando maggiori risorse sul territorio e di dare nuovo impulso al piano sanitario regionale, ormai scaduto da sette anni e non ancora attuato. Una grossa attenzione deve essere poi posta ai profondi cambiamenti che stanno investendo il sistema delle autonomie locali, per effetto dei mutamenti legislativi. Spesso sembra prevalere la scorciatoia della deresponsabilizzazione, sulla qualificazione dei servizi resi ai cittadini. Alla maggiore competenza e professionalità richieste ai lavoratori non corrisponde la loro valorizzazione economica e professionale; aumentano le privatizzazioni, incentrate sulla riduzione del costo del lavoro e sulla rinuncia alla gestione diretta dei servizi pubblici, che rischiano di snaturare e ridurre il ruolo delle autonomie locali nella promozione e nella realizzazione di politiche di sviluppo e di coesione sociale. Siamo convinti che le autonomie locali debbano esercitare direttamente i compiti loro assegnati, e garantire la fruibilità dei servizi. Perché ciò avvenga è necessario ripensare e riorganizzare il sistema pubblico regionale, attualmente costituito da circa 170 soggetti, tra enti territoriali e locali ed organismi strumentali, abbandonando, nella progettazione di tale sistema, logiche legate a gruppi di potere, per dare esclusivo spazio ai bisogni di cittadinanza. I portatori di interessi finali, i cittadini, i territori, in un’ottica di sussidiarietà, devono essere in grado di incidere su comportamenti politico-amministrativi, che devono essere programmati ed attuati con l’obiettivo di salvaguardare ed incrementare, nel tempo, la disponibilità dei “beni pubblici” ed il relativo “valore pubblico”. Il processo di razionalizzazione dovrà innanzitutto tener conto dei Comuni, principali fornitori di servizi e veri e propri front-office delle istituzioni, in un contesto di crescenti difficoltà operative. I Comuni hanno sempre maggiori difficoltà a garantire un livello accettabile nella gestione dei servizi e delle funzioni amministrative di loro competenza. Un ruolo rilevante dovrà essere svolto dalla Regione, nel favorire i processi di aggregazione. La Regione deve impegnarsi nell’attuazione dell’innovazione rappresentata dal processo associazionistico. In quest’impegno devono convivere innovazione ed identità. La capacità di cambiare, per offrire servizi migliori, e la capacità di conservare valori e risorse proprie delle comunità locali, come elemento di identificazione e di coesione. Questa capacità di sintesi è decisiva per indicare un futuro ai nostri comuni e alla nostra regione. Non è più eludibile un intervento legislativo regionale diretto alla riorganizzazione delle Comunità Montane ed alla incentivazione della costituzione delle Unioni di Comuni, enti locali di livello intermedio per l’esercizio associato su scala sovracomunale di funzioni e servizi e per la territorializzazione delle politiche regionali di sviluppo, previste dal Decreto Legislativo 267/2000. Bisognerà pensare ad un nuovo profilo di Ente intermedio che, oltre ad esercitare le funzioni attualmente attribuite alle Comunità Montane, dovrà occuparsi,nel rispetto dei piani regionali e provinciali ed in stretto coordinamento con gli altri enti locali, di pianificazione territoriale ed urbanistica, edilizia residenziale pubblica, gestione del trattamento dei rifiuti, promozione turistica, attività produttive, gestione dei servizi sanitari e socio-sanitari. Nell’individuazione del numero e della collocazione territoriale di tali Enti, si dovranno respingere piccoli egoismi che incarnano richieste puramente campanilistiche, badando esclusivamente alle reali esigenze territoriali; a tal proposito è inimmaginabile di poter mantenere 14 Comunità Montane con funzioni praticamente inesistenti, si deve ipotizzare un numero pari a circa la metà ; ogni Comunità Montana dovrà ricomprendere gruppi di comuni aventi, in totale, almeno 50.000 abitanti. La spinta all’associazionismo come metodo per superare le difficoltà in cui versano i singoli Comuni, accompagnata da una organizzazione capace di assicurare la qualità dei servizi offerti, è la giusta ricetta per minare alle fondamenta qualsiasi processo di esternalizzazione dei servizi e per dar vita ad un nuovo spazio pubblico. L’obiettivo della semplificazione e riduzione degli Enti sarà, per la prossima stagione, al centro della nostra battaglia e su quest’obiettivo chiediamo alla CGIL regionale di impegnarsi insieme a noi. Oltre alla razionalizzazione degli enti occorre rimettere al centro del dibattito politico un’etica valoriale della Pubblica Amministrazione che, negli anni purtroppo è stata svilita dall’eccessiva discrezionalità. Da tempo assistiamo all’abuso nel ricorso alle consulenze esterne da parte di tutte le pubbliche Amministrazioni lucane. Il continuo e discrezionale ricorso a consulenze e incarichi esterni contravviene al principio della separazione della responsabilità amministrativa da quella politica e dequalifica l’azione della pubblica amministrazione, che rinuncia al compito di selezionare e formare le proprie classi dirigenti, in base all’unico criterio valido, quello della competenza, l’unico modo per rendere più efficiente la Pubblica Amministrazione, fondamentale fattore di sviluppo della società. Coniugare i diritti del lavoro con i diritti di cittadinanza significa, per la Cgil, riportare al centro dell’interesse il territorio e la partecipazione, che è stato il fulcro del movimento che ha portato alle grandi riforme, dal quale ci ha allontanato il furore liberista. Ed è proprio di partecipazione che ha bisogno la società italiana. Bisogna invertire la tendenza a delegare, contrastando un’idea di “democrazia plebiscitaria” fatta propria in questi anni dal governo di centro – destra. Più partecipazione significa anche più contrattazione. Più contrattazione territoriale e sociale, non solo per tutelare e difender meglio le condizioni di vita di lavoratori e pensionati, ma anche per incidere con efficacia sugli assetti economici, sociali e ambientali di un territorio. Nei luoghi di lavoro democrazia e partecipazione rappresentano l’asse strategico per definire i nuovi assetti di potere. Chiaro è che se l’obiettivo da raggiungere è la valorizzazione del lavoro, l’accrescimento del potere dei lavoratori nei luoghi di lavoro, se libertà ed uguaglianza passano anche dalla conquista del diritto alla formazione permanente ed alla totale accessibilità di tutti i lavoratori ai processi di acquisizione di nuovi saperi, se la disarticolazione del mercato del lavoro ci impone di lottare per l’affermazione di nuovi diritti e tutele, è indispensabile affermare il valore della democrazia ed allargarne gli spazi. Occorre pertanto che il sindacato definisca le forme della partecipazione degli iscritti e dell’insieme dei lavoratori e dei pensionati alle scelte che compie. È improcrastinabile la definizione di un quadro di regole certe ed esigibili che permetta, per tutto il mondo del lavoro, l’eguale esercizio della democrazia sindacale. L’esperienza della nostra Categoria, dopo tre elezioni delle RSU, ci dimostra l’efficacia di queste sia in termini di verifica della rappresentatività delle OO.SS. che della rappresentatività dei lavoratori e della titolarità nei due livelli contrattuali. La presenza delle RSU in tutti i luoghi di lavoro dei comparti pubblici si è dimostrata fondamentale per il consolidamento e l’estensione della contrattazione decentrata, nel contempo però sono emersi i limiti delle attuali regole relativamente alla partecipazione delle RSU alla validazione degli accordi nazionali. Oltre al rafforzamento del ruolo delle RSU, è necessario ampliare le forme di partecipazione democratica dei lavoratori, regolamentando anche il ricorso al referendum. L’esperienza del pubblico impiego rafforza l’esigenza di una legge a sostegno della rappresentanza e della rappresentatività per tutto il mondo del lavoro. L’adozione di questo provvedimento legislativo, che dovrà recepire i contenuti condivisi con le OO.SS. , è di fondamentale importanza per l’affermazione della centralità del lavoro .
Credo che la strada che abbiamo percorso in questi ultimi ed intensi anni di impegno, di lotte, di coinvolgimento e partecipazione democratica ci consegna un patrimonio di valori, e una pratica che non và dispersa, in un futuro che dev’essere ancora costruito. A noi la responsabilità di continuare, con la stessa coerenza, perché in gioco non c’è solo il presente, un presente difficile, di difficoltà grandi, di disuguaglianze, di precarietà, di una pericolosa cultura autoritaria e liberista che và profondamente contrastata con il lavoro di tutti, attraverso l’impegno delle tante e dei tanti delegati che, quotidianamente, nei luoghi di lavoro sono impegnati a difendere i diritti di tutti. Agire nel presente per migliorare il futuro.
Mi piace concludere con le parole di Josè Ernesto Bologna che, nella prefazione del libro “non c’è progresso senza la felicità” dice: “vi è grande ansia di cose pratiche. Questa smania di fare invade le aule, le case, i bar, gli uffici dei responsabili dell’educazione, le imprese, i governi, le chiese. Ma quest’ossessione per gli atti presenta limiti e rischi. Privilegiando la pratica rispetto all’etica, l’utilità rispetto alla bellezza, la convenienza rispetto al bene, si sviluppa la compulsione che divora noi stessi e il mondo, perché i gesti dissociati dai valori, illusoriamente sostenibili nel tempo personale, si dimostrano insostenibili in quello sociale”.
Grazie a tutti.
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