Documento della Segreteria Nazionale CGIL sulla situazione internazionale
(15 settembre 2004)

 1)    Il terrorismo

Mai come oggi il panorama internazionale è stato segnato da eventi traumatici che, letti tutti insieme, compongono il quadro degli interrogativi aperti per la comunità internazionale, la sensazione di rischio per le persone e interrogano sull’efficacia, la volontà e la possibilità delle istituzioni sopranazionali esistenti nel fronteggiarli. Dai più eclatanti, il terrorismo, la guerra in Iraq, il conflitto israelo-palestinese, il Kosovo, la Cecenia, la strage dell’Ossezia; ai più invisibili, le tante facce delle disparità tra Nord ricco e Sud povero del mondo; dai conflitti poco conosciuti per l’accesso all’acqua in molte parti del Sud del mondo, a quelli più noti per il controllo delle risorse energetiche, fino alla tragedia dell’Aids del continente dimenticato, l’Africa. Moltissimi di quegli eventi hanno come epicentro il Mediterraneo, mare di pace e prosperità secondo il progetto europeo di Barcellona, oggi banco di prova della capacità dell’Europa e dell’Italia di progettare il proprio futuro, per ragioni generali e per la stessa contiguità geografica.

L’insistenza con la quale, prima e durante tutti gli sviluppi della guerra irachena abbiamo sempre sottolineato la necessità di tenere fede sia alla Carta dell’ONU, che non prevede la guerra preventiva, che alla Costituzione italiana e che l’ONU entrasse in campo ritirando le truppe italiane e straniere, non muoveva e non muove solo dall’invocare il ripristino di una condizione importante, quella della legalità internazionale, ma dalla convinzione che occorre battere ciò che è più che un rischio: il ritorno indietro, dopo la fine della guerra fredda, dal sistema stesso delle Nazioni Unite cioè dalla scelta fragilissima, contraddittoria, spesso inefficace, da riformare, ma così decisiva della comunità internazionale. Quindi dalla politica, come strumento di governo. Oggi più che mai, di fronte ai nuovi ricatti del terrorismo internazionale che minaccia ciascuno di noi perché minaccia la stessa possibilità della democrazia a livello globale: una democrazia non esportata alla maniera dell’amministrazione Bush, ma processo condiviso con al centro i diritti umani, del lavoro, dell’ambiente. La guerra, la paura, lo scontro tra civiltà come portato  della contrapposizione tra Bene e Male sono l’obiettivo del ricatto terrorista; sono anche il linguaggio di tutti i fondamentalismi, tali anche quando si nascondono dietro l’assolutezza dei valori morali dei neo-conservatori americani da esportare militarmente e il capitalismo compassionevole di Bush. La cultura del dialogo e della pace, la politica, la collaborazione solidale dell’intelligence dei diversi paesi debbono essere la risposta comune della democrazia ai nuovi terrorismi. Una risposta comune, che non cancella la differenza tra soggetti istituzionali, partiti, forze sociali ma sceglie un terreno, una condizione di premessa a che le differenze possano liberamente esprimersi: il rifiuto del ricatto del terrore.
 

 2)  La democrazia globale

L’enormità delle differenze tra Nord e Sud del mondo si avvia alla insostenibilità politica, mentre la sostenibilità ambientale è già al limite e di per sé richiederebbe di rivisitare il senso di uno sviluppo che espone l’umanità a crescenti rischi e problemi. Anche nei paesi economicamente avanzati crescono precarietà sociale e insicurezza, come risultato dell’impoverimento del lavoro dipendente. Siamo convinti che le nuove interdipendenze e differenze rischiano di trasformarsi in conflitti esasperati, se non in acqua di coltura del terrorismo e guerra, se non vengono composte sulla base del riconoscimento reciproco, principio di laicità democratica.

Il sindacato italiano in primavera ha chiamato allo sciopero le lavoratrici e i lavoratori italiani, con uno slogan impegnativo “costruire il futuro” e una proposta per lo sviluppo del paese diversa e alternativa a quella che ha ispirato la politica economica e sociale del governo.

Quella proposta non avrebbe fiato se non dovesse prevalere a livello europeo e globale un’idea di sviluppo che assuma come profilo la qualità e come limite invalicabile i diritti umani, i diritti del lavoro, la sostenibilità ambientale.

Abbiamo la percezione che quell’idea oggi non sia in campo con la nettezza che sarebbe necessaria, perché indebolita ed erosa dai totem della crescita senza limiti, peraltro smentiti dalla realtà; pensiamo che solo un’alleanza tra forze politiche progressiste, sindacato e società civile possa sostenerla.

Siamo altrettanto consapevoli che bisogna legare la costruzione della pace e il ripudio del terrorismo alla ricerca delle strade e delle politiche per costruire un nuovo ordine mondiale, una nuova democrazia globale in cui il valore del lavoro sia al centro dei valori condivisi e costitutivi. Dalla capacità di sostenere questa sfida passa la possibilità di arginare un senso comune pervasivo che, di fronte alle tante insicurezze determinate dalla globalizzazione senza regole, sceglie la rassicurante e peraltro illusoria certezza delle identità giocate contro altre identità, delle chiusure, dei nuovi nazionalismi e integralismi sostenuti dai conflitti tra le culture, degli antichi e nuovi protezionismi.
 

 3)  L’Europa

Al contrario l’esperienza dei paesi scandinavi e del modello sociale europeo dimostra che equità, giustizia sociale, protezione sociale, diritti, rispetto dell’ambiente possono essere volano di sviluppo e al contempo suoi limiti positivi scientemente praticati; le politiche pubbliche gli strumenti necessari per realizzarli. Perché se la libertà di mercato senza regole può essere efficace nel valorizzare beni individuali, è del tutto inefficace a valorizzare beni pubblici come l’ambiente, la salute, l’istruzione, la formazione e ciò dovrebbe far riflettere anche sui limiti e i criteri delle aperture al mercato di quei settori.

A loro volta le politiche pubbliche per realizzarsi hanno bisogno di risorse, garantite da un livello di tassazione equo, ma non minimo, perché il giudizio sulla loro adeguatezza sta negli obiettivi che la responsabilità pubblica assume. Tutto ciò vale e a maggior ragione se si volesse affrontare, come bisogna fare urgentemente, il capitolo dell’entità delle risorse a disposizione per gli aiuti ai paesi in via di sviluppo, quello 0,7% del Pil mai attuato neppure da lontano, l’estinzione del debito dei paesi poveri, a partire dall’Africa, le risorse per la cooperazione, la Tobin Tax.

 Non c’è dubbio che il profilo descritto delle tendenze generali e delle loro conseguenze sociali, si colloca in un quadro di assenza o di erosione anche in Europa di una cultura, quella che ha sostenuto storicamente l’idea del Welfare State.

L’Europa può fare molto, in tutti i terreni fin qui citati, decisivi per il futuro della comunità internazionale, se sarà in grado di andare avanti nella costruzione dello spazio pubblico europeo, valorizzando e non cancellando, come pure sta avvenendo diffusamente, le caratteristiche del proprio modello sociale.

Il giudizio che abbiamo dato sul Trattato Costituzionale, ha utilizzato una chiave di lettura netta, positiva ma non semplicistica. Ne abbiamo valorizzato l’aspetto più positivo, l’inclusione della Carta di Nizza, che favorisce la prospettiva dell’Europa e dell’Europa sociale e per questo un nuovo ordine mondiale. Si tratta di una scelta importante soprattutto se letta alla luce dell’attacco al modello sociale europeo aperto in molti paesi d’Europa. E’ bene però non tacere le contraddizioni del Trattato, peraltro già presenti nel testo consegnato dalla Convenzione alla CIG: l’assenza del ripudio della guerra; della cittadinanza di residenza per gli immigrati così importante per favorire quei decisivi processi di convivenza la cui centralità è tragicamente riemersa; quella terza parte che rischia di negare le affermazioni della Carta di Nizza. D’altra parte non tacere le contraddizioni ha il senso di tenere aperta una prospettiva, delineando i binari del percorso futuro, costruendo alleanze nella società per recuperare quel calo di consenso tra i cittadini, quell’assenza di partecipazione democratica, di senso comune e quindi di pressione sociale per orientare il profilo della nuova Europa. Il Trattato Costituzionale è per noi un passo avanti verso la costruzione dell’Europa, ma il cammino è ancora lungo: c’è bisogno di una cultura politica che sostenga e sviluppi l’insieme delle acquisizioni storiche in obiettivi e dunque in politiche per realizzarle oggi, nell’era della globalizzazione.