CGIL:
Missione in Palestina (26 dicembre 2002-3 gennaio 2003)
Nota
di Gianfranco Benzi
La
delegazione della CGIL, che si è recata in Palestina e in Israele dal 26
dicembre al 3 gennaio 2003, ha potuto realizzare un ampio contatto con le due
realtà sociali, attraverso visite ed incontri nelle principali città dei
Territori occupati, oltreché a Gerusalemme, Tel Aviv e Nazareth per quanto
riguarda Israele.
Si
è cominciato con la partecipazione al World Social Forum sulla Palestina,
deciso a Firenze e promosso dalla rete delle organizzazioni non governative
palestinesi (PNGO), che ha visto a Ramallah la presenza delle sole
organizzazioni affiliate e delle delegazioni internazionali che erano riuscite a
superare i complessi controlli all’ingresso in Israele. La presenza di circa
200 persone, provenienti nella stragrande maggioranza dalle sole zone di
Ramallah e Gerusalemme, ha risentito della “normale” difficoltà palestinese
a muoversi sul territorio, ma anche di un limite più profondo dell’esperienza
associativa palestinese, frantumata e poco dialogante al suo interno, nonché
con scarse e difficili relazioni con quella israeliana. La discussione ha riflesso tale condizione e si è mostrata scarsamente innovativa, sia in termini di analisi che di proposta, ferma restando la riconferma della necessità di un’ampia solidarietà internazionale con la lotta per i diritti del popolo palestinese. A Gaza si sarebbe dovuta svolgere un’ulteriore sessione del Forum, al cui posto si è poi invece tenuto un corteo di alcune centinaia tra appartenenti alle Ong palestinesi della Striscia e alle delegazioni internazionali presenti.
Ciò
non deve stupire perché la situazione del conflitto israelo-palestinese è
sempre più caratterizzata dalla rottura tra le due società, che pur continuano
a convivere e a contaminarsi reciprocamente (è questo l’indissolubile legame
tra le vicende dei due popoli che costituisce anche il tratto peculiare del
conflitto), ma anche a contrapporsi frontalmente: il tema della sicurezza per
gli israeliani e quello dei diritti civili e politici per i palestinesi, a
partire dalla costituzione di uno Stato, sono le due facce della stessa
medaglia, quella della pace e dello sviluppo possibile in quella regione.
Tutto
questo ha prodotto nel contempo un profondo logoramento interno alle due società,
pervase da una crisi economica che attanaglia entrambe, seppur in modo
profondamente diverso: la miseria e la fame per più della metà dei palestinesi
dei Territori occupati, con punte oltre l’80% nella Striscia di Gaza, e una
riduzione della spesa sociale in Israele, conseguente alla crescita
incontrollata di quella militare dovuta all’occupazione, con effetti, per
entrambe le società, di sfiducia crescente verso le rappresentanze
istituzionali e verso la prospettiva di pace.
Esemplare
sotto questo profilo l’orientamento dell’opinione pubblica israeliana, che
nella sua maggior parte è per una soluzione di pace e, nel contempo, nel nome
della sicurezza, sostiene Sharon e la sua politica di annessione di fatto dei
Territori.
Non
diversamente, la reazione dei palestinesi alla perdurante occupazione militare e
all’aggravamento delle condizioni di vita, civili e materiali, finisce coll’inibire
la credibilità di qualsiasi volontà mediatoria e con l’allargare il consenso
alla violenza terroristica.
Dato
questo delicato scenario interno, riscontrato con il nostro viaggio, risulta del
tutto evidente che l’eventuale guerra all’Irak da parte americana è
destinata a produrre una radicalizzazione degli orientamenti nelle due
popolazioni e ad offrire a Sharon l’occasione per quella pulizia etnica,
destinata a provocare il cosiddetto “transfer dei palestinesi”, inteso come
vera e propria espulsione verso i paesi vicini e/o costruzione di aree ghetto,
sul modello dei bantustan di sudafricana memoria.
Basti
osservare la scatenata politica di costruzione di nuovi insediamenti, del tutto
sproporzionata per eccesso ai numeri dei flussi migratori verso Israele, che
finiscono con il circondare, da tutti i lati, le città palestinesi, a
cominciare dalla stessa Gerusalemme.
Se
questo è il disegno reazionario della destra politica israeliana, che si
prepara ad incassare un probabile successo elettorale a fine mese – nonostante
lo sforzo del candidato Amram Mitzna di costruire un nuovo profilo di proposta
laburista e fatta salva l’incidenza della pesante ondata di scandali che
investe il primo ministro e il Likud - è del tutto evidente che l’assenza di
una credibile prospettiva di pace, determinata anche dalla estrema debolezza
dell’attuale leadership di Arafat e dalla concreta difficoltà a
rileggittimarla, potrà offrire il destro per la
“pulizia” di Sharon e per una radicalizzazione
ulteriore del conflitto. Ne esistono già tutti i presupposti
nell’accresciuta pressione terroristica, ma soprattutto nella violenta
repressione militare che si esercita con il lungo elenco quotidiano di presunti
terroristi “eliminati” e con la distruzione delle case dei loro parenti, con
l’intensificazione delle missioni punitive nei Territori e nelle città, già
stremate dal quasi ininterrotto coprifuoco, con gravi ed evidenti danni sulla
vita economica, politica e sociale della popolazione, ma soprattutto con un
profondo solco di odio, che si scaricherà anche sulle future generazioni.
In
questo nostro viaggio abbiamo avuto la possibilità di incontrare numerosi
esponenti di associazioni e forze palestinesi e israeliane, tra cui il Meretz e
le organizzazioni non governative della popolazione araba di Israele, il cui
ruolo nella società dello stato di Israele e è in cre4scita, come dimostra il
tentativo di bloccare la loro rappresentanza politica, attraverso
l’eliminazione, per fortuna non riuscita, dei loro principali rappresentanti
dalla competizione elettorale. Molla del loro impegno è soprattutto il divario
nei diritti, in tutti i campi, con i cittadini ebrei di Israele, non solo
perdurante, ma in netta crescita. Dall’insieme di questi incontri, è emersa
tutta la drammaticità e l’emergenza della situazione attuale, oggi
soprattutto della condizione palestinese, ma nel prossimo futuro e in
prospettiva di entrambe le società, unita alla consapevolezza della necessità
e insostituibilità dell’intervento della comunità internazionale, a
cominciare dalla oggi balbettante Europa, che non può rinunciare ad essere
protagonista di una concreta prospettiva di pace nell’area.
In
tale direzione si colloca il ruolo delle organizzazioni sindacali, palestinese
ed israeliana.
Va
premesso che l’attuale contesto produce profonde alterazioni nella
tradizionale fisionomia sindacale. Infatti, mentre il PGFTU palestinese è
costretto a surrogare l’assenza di strutture dell’Autorità nello svolgere
il ruolo di tessuto connettivo di una popolazione allo stremo, l’Histadrut
appare impotente a rappresentare l’insieme del mondo del lavoro di fronte ad
una crisi economica e sociale che ha nella guerra la sua prima ragione, e
rispetto alla quale non riesce ad esprimere un giudizio coerente ed un’azione
di contrasto cosneguente. Manifesta, in questo caso, la sua incapacità di
connettere questione sociale e questione della pace e della sicurezza, incapacità
che è propria di tante forze israeliane e dovuta al ruolo che esse hanno avuto
nella nascita e nella costruzione dello Stato di Israele.
Per
queste ragioni, trova conferma la nostra iniziativa nei confronti dell’Histadrut,
tesa a costruire un dialogo effettivo in tema di condizioni sociali e civili dei
lavoratori israeliani e di effettiva uguaglianza di tutti gli altri lavoratori,
sia nei luoghi di lavoro, sia nelle condizioni di cittadinanza.
In
tale direzione si colloca l’iniziativa che la CGIL ha assunto, attraverso un
progetto in fase di approvazione da parte dell’Unione Europea, mirato alla
tutela dei lavoratori arabo-isareliani e dei palestinesi che lavorano in
Israele.
Il
tratto significativo di tale proposta è rappresentato dalla
corresponsabilizzazione, nella sua realizzazione, sia del sindacato israeliano
che di quello palestinese.
La
missione che abbiamo realizzato, quindi, si è mossa in piena continuità con i
caratteri consolidati della nostra iniziativa di sostegno e solidarietà che
pretendono, da parte dei nostri interlocutori, Histadrut e PGFTU, l’impegno ad
un dialogo coerente tra di loro, quale parte della costruzione di un dialogo più
ampio tra le due società civili.
Da
queste considerazioni - e in piena coerenza con la stessa sollecitazione che il
presidente Arafat, nell’incontro con la nostra delegazione, ci ha rivolto a
lavorare perché l’Europa si muova conseguentemente a sostegno del progetto di
pace in Medio Oriente e contro qualsiasi ipotesi di guerra nell’area - abbiamo
confermato e ribadiamo il nostro impegno di mobilitazione nei confronti sia del
governo italiano che delle istituzioni europee, perché l’Europa diventi
finalmente protagonista attiva della ricerca della pace.
Questo
comporta la conferma della nostra richiesta di un’azione immediata tesa a
realizzare, da parte della comunità internazionale, un’interposizione
efficace tra le parti, al fine di rendere impraticabile ogni violenza contro le
popolazioni civili, e favorire così lo sviluppo del negoziato per la
costituzione di due stati per due popoli. A tal fine, la CGIL rimane impegnata in tutte le sedi internazionali, dalla CES alla CISL Internazionale, nel sollecitare prese di posizioni e iniziative concrete che si muovano in questo quadro di riferimento. Appare altresì importante che tale iniziativa si collochi nel contesto di una forte mobilitazione europea da parte di tutte le forze sociali e politiche che intendono affermare la via del negoziato come unico strumento di prevenzione dei conflitti e, così, richiamare tutte le sedi internazionali, a cominciare dall’ONU, ad essere soggetti di pace e non strumenti di legittimazione di nuovi conflitti.
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