I documenti per la
riunione del 16 luglio 2003-07-24 America
Latina e Caraibi - I processi di
integrazione economica: il MERCOSUD
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processi di integrazione economica: il MERCOSUD CGIL - Dipartimento
Internazionale
Luglio 2003 I processi
di integrazione in America Latina e Caraibi
Gli anni
’90 segnano per l’America Latina e i Caraibi (ALC) la ripresa
dei processi di integrazione economica regionale che si erano avviati già
negli anni ’60 e poi erano stati bruscamente interrotti dalle dittature.
Malgrado le
numerose crisi finanziarie che hanno attraversato il continente dal Messico
all’Argentina, i paesi dell’area hanno riaffermato nel corso del decennio
la loro volontà di proseguire nei programmi di integrazione e la
necessità di approfondirli, tenendo ben presente
che si tratta di progetti a lungo periodo. Nelle circostanza attuali
inoltre questo impegno risulta particolarmente importante a partire dalla
necessità di partecipare in forma simultanea alle negoziazioni commerciali in
ambito multilaterale – Organizzazione Mondiale del Commercio (OMC) , in ambito
emisferico – Area del Libero Commercio delle Americhe (ALCA) e tra differenti
regioni - con l’Unione Europea
(UE) e con la Cooperazione del Libero Commercio in Asia e nel Pacifico (APEC). Se ci
limitiamo ai paesi ALC i processi di integrazione regionali in corso sono:
il Mercato Comune del Sud (MERCOSUD), la Comunità Andina delle Nazioni
(CAN), il Mercato Comune CentroAmericano (MCCA), la Comunità dei Caraibi
(CARICOM). Se guardiamo alle
Americhe dobbiamo anche considerare l’Accordo di Libero Scambio dell’America
del Nord (NAFTA) In ambito
sindacale di fronte a cambiamenti epocali come quelli schematicamente appena
delineati il movimento sindacale latinoamericano ha manifestato una grande
compattezza .
La
politica della CGIL
1-La CGIL, in
coerenza con le sue politiche europee, ritiene
che per far fronte ai
processi di globalizzazione lo sviluppo di aree economiche integrate sia
fondamentale. In questa ottica da
anni segue l’evolversi di questi processi
, in particolare quello del Mercosud..
Esistono inoltre ragioni
di natura politico strategica che vanno individuate
nel rafforzamento delle relazioni tra l’UE e il Mercosud , e ragioni di natura sindacale, che vanno ricercate nei legami storici
che la CGIL ha sviluppato con i
sindacati più rappresentativi dell’area -,( la Cut del Brasile, la Cta in
Argentina, il Pit-Cnt in Uruguai). 2-Il
consolidarsi negli anni ‘90 delle relazioni tra UE e Mercosud
hanno confermato la Cgil nella opportunità
della sua scelta di sostenere i sindacati dell’area per far fronte al processo
di integrazione ( già negli anni ’90 con
la Cut in Brasile – si è
realizzato un progetto di ricerca DESEP/CUT Brasile+Ires/Progetto
Sviluppo CGIL, e con il Pit-Cnt Uruguai un progetto che avrebbe dovuto
finalizzarsi nell’avvio di un centro di ricerca e formazione sui temi
dell’integrazione). Attualmente l’avanzamento dei negoziati per l’avvio
dell’Accordo di Associazione si trova in una fase cruciale. Per questa ragione
la Cgil ha deciso di dare priorità nelle sue politiche di intervento in ALC
ai sindacati del Mercosud. Non ultimo, a rafforzare questa decisione,
il grande cambiamento nell’area con l’elezione di Lula. L’impegno
del nuovo governo del Brasile a istituzionalizzare il Mercosud sta
trascinando anche
l’Argentina, che con i passati governi tendeva piuttosto a cercare accordi
bilaterali con gli Usa. 3-La sfida
che affronta oggi il movimento sindacale del Mercosud
va sostenuta contemporaneamente a tre livelli: c’è innanzi tutto un
livello all’interno della Confederazione Europea dei Sindacati,
incalzandola a continuare nel ruolo
propositivo che ha cominciato a svolgere nell’ultimo periodo, per la
definizione delle politiche extraeuropee; esiste poi un secondo livello
bilaterale con i progetti di cooperazione che dovranno
vedere tutte le strutture della Cgil impegnate
a ricercare sempre un raccordo con sindacati
di riferimento dell’area in coordinamento con Progetto Sviluppo ed infine il
terzo livello che deve passare attraverso una sintesi operativa
delle attività del Segretariato Europeo e del Dipartimento
internazionale.
Inoltre
la Cgil continuerà a
sviluppare relazioni bilaterali , con la Cut del Cile paese che è membro
osservatore del Mercosud insieme
alla Bolivia e con il quale nel
2002 l’UE ha firmato un Accordo di Associazione. Guardando al futuro e al
processo di integrazione dei paesi andini (CAN)
si intende continuare a
consolidare i legami con la CGTP del Peru e la CUT della Colombia nonché
consolidare quelli con il FAT e
l’UNT del Messico, paese quest’ultimo con il quale l’UE ha già firmato un
accordo di cooperazione. Qui di
seguito un quadro sintetico degli aspetti sindacali e socio politici
dell’Accordo di Associazione UE-Mercosud
e le attività sindacali ad
esso connesse.
Gli
aspetti socio sindacali Il
Coordinamento delle Centrali Sindacali del Cono Sud (CCSCS)
1- Con l’avvio dei
processi di democratizzazione e l’applicazione di modelli economici neoliberisti
in tutti i paesi dell’area i sindacati del Cono Sud si sono trovati ad
affrontare problemi identici: riduzione della presenza dello Stato,
privatizzazioni, flessibilizzazione del mercato del lavoro. Il fatto di trovarsi
di fronte a processi economici interdipendenti ha creato nei sindacati i
presupposti necessari per superare o almeno tentare di superare le strette
visioni nazionali. 2 - Molto
probabilmente poiché la
costruzione del Mercosud si è realizzata in mezzo ad un processo di apertura
commerciale generalizzato, di internazionalizzazione dei mercati nazionali e di
una profonda ristrutturazione dei processi di produzione, l’agenda sindacale
, espressa dal Coordinamento delle Centrali Sindacali del Cono Sud (CCSCS)
si è sviluppata non solo a difesa del modello preesistente di relazioni
industriali ( regolato e protettivo) ma
anche in forma propositiva favorendo l’inserimento dei sindacati nella
definizione delle politiche macro del modello di integrazione. 3 - Questa
strategia partecipativa ha portato alla creazione , nella struttura
istituzionale del Mercosud ,di
organismi sociolaborali per garantire la dimensione sociale dell’integrazione.
Si tratta di organismi con funzioni consultive che affiancano quelli decisionali
( il Consiglio del Mercato Comune, il Gruppo del Mercato Comune e la
Commissione del Commercio) Tra i principali organismi consultivi il Foro
Consultivo Socio Economico (FCES) , tripartito , paragonabile al Comitato
Economico e Sociale Europeo (CESE) . La Commissione Sociolaborale, tripartita,
che ha il compito di applicare la Dichiarazione Sociolaborale ( una specie di
Carta Sociale). I Sottogruppi di
Lavoro (SGT) tra questi il SGT 11
per il “ Lavoro, Occupazione e Sicurezza Sociale” e un gruppo delle
politiche di genere (REM) 4 - Il CCSCS
che rispetto alla struttura istituzionale del Mercosud è allargato anche
ai sindacati del Cile e della Bolivia,
e che nasce per iniziativa della CISL/ORIT, è composta da 8 centrali sindacali
(1) che rappresentano circa 20 milioni di lavoratori
e lavora per gruppi sui seguenti temi a- Carta
Sociale: La Dichiarazione Sociolaborale non garantisce uguali condizioni di
lavoro per le lavoratrici e i lavoratori dei quattro paesi. Inoltre l’aumento
del flusso frontaliero , creato dall’aumento delle richieste di mano d’opera
da parte delle imprese, richiede una regolamentazione dei loro diritti.
L’impegno è di arrivare a redigere una Carta Sociale e alla creazione di
Comitati di Frontiera per
implementare progetti specifici per lo sviluppo integrato delle zone di
frontiera e la elaborazione di uno statuto
specifico per i diritti di questi lavoratori. b- Lavoro
Infantile : si propongono azioni positive ( p.e.: borse di studio) per
allontanare i minori dalla strada, per monitorare a livello decentrato il
problema con i l coinvolgimento degli enti/governi locali. c-
Osservatorio del Mercato del Lavoro: studia
politiche e misure per generare nuovi posti di lavoro e per incrementare la
formazione professionale d-
Sviluppo Produttivo : vuole definire una strategia di sviluppo produttivo
sostenibile ( la nuova presidenza brasiliana può essere di incentivo ).
In particolare si afferma la
necessità di studiare i seguenti temi:
a-
i processi di occupazione da parte di collettivi di lavoratori di unità
produttive dismesse. Si sottolinea che si tratta di generazione di posti di
lavoro reali e produttivi e si raccomanda lo studio e l’appoggio a queste
imprese.
b-
lo studio per lo sviluppo
delle infrastrutture del Mercosud ( energia, telecomunicazioni e
trasporti) e la necessità di studiare il comportamento delle imprese
transnazionali della regione, sia per quanto riguarda le
relazioni industriali, lo sviluppo dei diritti e la contrattazione
collettiva e-
Politiche delle donne: la disuguaglianza fra donne e uomini sta aumentando a
seguito anche della crescita del settore informale / passato dal 47 al 50% negli
ultimi anni e accompagnato da una bassa rappr4sentatività delle donne nel
sindacato, malgrado l’aumento relativo della partecipazione delle donne nella
forza di lavoro femminile. Stenta ancora ad avanzare una trasversalità delle
politiche di genere f- Istituti
di ricerca dei sindacati del Mercosud: esiste uno scambio sui temi della
formazione, ricerca,sui temi di diritto del lavoro, sociologia del lavoro e
problemi organizzativi, salute e sicurezza e politiche di genere. Gli istituti
inoltre sono collegati nelle loro attività con l?osservatorio del Mercato del
Lavoro. L’idea è di puntare alla creazione di un Centro Regionale di Ricerca
che si specializzi nei temi dell’integrazione socio economica e anche
per elaborare proposte nel
merito. Gli
aspetti politico strategici Le
relazioni tra UE e Mercosud 1.-
All’inizio degli anni novanta, con
il riavvicinamento di Argentina e Brasile e la firma del trattato di
Assunzione (1991) si costituisce il Mercato Comune del Sud ( MERCOSUD). I paesi
del nuovo blocco (Argentina Brasile Uruguai e Paraguai) manifestano fin
dall’inizio un grande interesse per l’esperienza di integrazione europea. La
Commissione Europea, anche per ragioni storiche e culturali, concede fin
dall’inizio l’appoggio tecnico, istituzionale , finanziario e politico al
Mercosud che si concretizza nel
1992 nell’Accordo di Cooperazione Interistituzionale
e che si consoliderà nella sua forma attuale, di Accordo di Associazione
Interregionale , nel 1995. Questo accordo
si inscrive nel quadro più ampio dell’Associazione Strategica biregionale”
tra Europa America Latina e Carabi che solo dal 1999 con
il Summit dei Capi di Stato a Rio avrà ricadute politiche. 2.- La scelta
lungimirante della Commissione e dello stesso Parlamento Europeo di favorire
l’Accordo UE/Mercosud era dettata anche dalla necessità di istituzionalizzare
la presenza europea nel continente latinoamericano in vista della creazione
dell’Accordo di libero commercio delle Americhe (ALCA) che Bush padre lancia
proprio nel 1995, con il roboante slogan “Libero mercato delle Americhe
dall’Alaska alla Terra del
Fuoco”. Fin
dall’inizio appare evidente che l’Alca e l’Associazione UE-ALC e più in
particolare UE/Mercosud, sono due progetti contrapposti
Nell’ottica USA i negoziati per la costruzione dell’Alca debbono
procedere in forma bilaterale, per giungere poi a integrare il Trattato di
Libero Commercio dell’America del Nord (NAFTA) che comprende USA, Canada e
Messico firmato nel 1994. E’ chiaro che gli altri schemi sub regionali (Mercosud,
Can, Caricom ) sono un intralcio per le ambizioni Usa.
Per la UE invece essi rappresentano
una opportunità per arrivare ad esercitare un peso
sui mercati mondiali e aumentare
così il suo potere di negoziazione con gli Usa. e
servono anche a confermare che la logica del building block del modello
di integrazione europeo sia quella più valida.
4-
L’accordo interregionale del 1995 si fonda su tre pilastri. Il primo
prevede il dialogo politico (
tra i temi oggetto del dialogo la promozione e protezione dei diritti umani, lo
sviluppo sostenibile e la difesa
delle democrazia e dello stato di diritto). Il secondo riguarda
la cooperazione economica, finanziaria e tecnica. Il terzo la
liberalizzazione degli scambi commerciali. Questo tema
che nella fase attuale
rappresenta l’ostacolo maggiore è
vincolato alla finalizzazione della
ronda dell’Organizzazione Mondiale del Commercio (OMC). Il punto più
controverso è rappresentato dalla Politica Agricola Comune (PAC) e al
protezionismo in materia dell’UE. Tra il
2001 e il 2003 il Comitato
Negoziatore biregionale ha svolto 9
riunioni. Un ulteriore ostacolo è rappresentato dal fatto che il Mercosud
considera che l’accordo debba essere un single under taking, ovvero
l’accordo non può entrare in vigore prima della fine dei negoziati di
tutti i capitoli dell’accordo stesso.
6-
In tema di cooperazione per il periodo 2000-2006 l’UE ha stabilito con
il Mercosud e con ciascuno dei suoi stati membri degli Accordi Globali
( Documenti d’intesa) dove vengono definite le grandi priorità della
cooperazione per una somma di circa 250 milioni di euro, che dovrebbero venire
destinati , tra l’ altro , allo sviluppo della dimensione socio laborale,
all’appoggio alla società civile e allo sviluppo sostenibile dell’ambiente
( in particolare le foreste tropicali e amazzoniche. Il
coordinamento sindacale Europa-Mercosud 1.La
crescente partecipazione della società civile
alle sedi multilaterali di governance mondiale si concretizza anche nelle
negoziazioni UE-Mercosud, attraverso la “Consulta alla Società Civile” una
serie di incontri patrocinati dall’UE. Tra queste le organizzazioni dei
lavoratori di entrambe le regioni. Per l’Europa la Confederazione Europea dei
Sindacati (CES) e per i paesi del Mercosud
la CCSCS/ CISL.I -ORIT e il Consiglio dei lavoratori del Cono Sud /CMT-CLAT
. La CGIL ha fin dall’inizio partecipato al lavoro di questi coordinamenti,
sostenendo in particolare la necessità di un impegno più attivo della stessa
CES, inizialmente rallentato dalla necessità di trovare un accordo con la CISL
Internazionale, cosa che poi effettivamente è avvenuta nel 2001 con la
costituzione di un gruppo formale di lavoro CES-CISL I.-CMT. 2. Obiettivo
principale del gruppo è quello di intervenire nel processo di negoziazione per
promuovere ed esigere un commercio giusto e equo tra i paesi delle due regioni e
per richiedere che gli accordi garantiscano espressamente il rispetto dei
diritti umani e sociali e preservino le libertà democratiche. Per poter
avanzare in questo senso si è richiesto di costituire un Comitato Congiunto tra
il CES europeo e il FCES/Mercosud e la costituzione di un Foro Laborale anche in
considerazione del fatto che è già in funzione un corrispondente Foro
Imprenditoriale. 3. Il Foro
Laborale Ue-Mercosud si propone la
formazione di sindacalisti per il dialogo sociale e il coordinamento delle strutture sindacali tra i due blocchi.
La struttura del Foro sarà
formata da una Presidenza a turno tra le tre organizzazioni costituenti
( CES,CCSCS eCTCS) e invitati il gruppo lavoratori del CES -UE e il
corrispondente FCES del Mercosud In
particolare l’analisi dei processi di delocalizzazione delle imprese
multinazionali e degli investimenti
europei nell’area .
4. A questo
fine la CES ha deciso di presentare un progetto ( nel 2003) che prevede vari
tipi di azioni: tra questi seminari
di scambi per lo sviluppo del dialogo sociale, diritti sociali, lavoro minorile,
formazione sindacale per dirigenti intermedi e per i comitati settoriali, studi
comparativi sul diritto del lavoro. Il Progetto prevede un Comitato di
accompagnamento al quale la CGIL ha gia confermato la sua partecipazione .
Luglio 2003 L’area
mediterranea si è confermata in questi mesi come ambito paradigmatico delle
dinamiche tra Nord e Sud del mondo per quanto attiene gli equilibri energetici,
i modelli di crescita e sviluppo, i flussi migratori e, anche in rapporto con
essi, il ricorso alla guerra quale strumento regolatore dei conflitti.
Progettare l’iniziativa sindacale utile comporta assumere tali questioni nella
costruzione e nel consolidamento di un sistema di relazioni bilaterali o
multilaterali. La scelta di
privilegiare l’estensione delle prime, attraverso il lavoro di contatto in
corso, supportato da scambi e iniziative di formazione (Algeria, Croazia), da
veri e propri progetti di cooperazione in materia di estensione delle tutele
(vedi il progetto con PGFTU e Histadrut, in attesa di approvazione), non fa
venire meno l’importanza di un nostro impegno anche sul fronte della
dimensione multilaterale, con riferimento all’iniziativa CES e CISL, oggi
inadeguata nello stimolare e sostenere tale approccio, particolarmente per il
Medio Oriente. In tale direzione, l’iniziativa verso il Mediterraneo e i
Balcani necessita di un raccordo con la dimensione europea e internazionale
della nostra iniziativa. Questo per tre fondamentali ragioni:
-l’area mediterranea è oggettivamente luogo di incrocio tra l’azione
europea e quella internazionale in senso lato; -l’azione della UE è comunque decisiva per connotare il futuro di
questi paesi; -i rapporti intersindacali, nell’ambito della UE e con il Nord America,
sono utili al rafforzamento e all’efficacia della nostra azione in
quest’area. Il nostro
assetto interno, pertanto, non può essere separato rigidamente in aree di
competenza, soprattutto nell’elaborazione delle politiche e nelle scelte delle
priorità d’azione: dai processi di integrazione europea, all’orizzonte
seppure differenziato dei paesi dell’ex-Yugoslavia, a quelli di risoluzione
dei conflitti in corso quali l’Iraq e la situazione Israelo-Palestinese
(vedi nota in allegato).
Nel merito,
la nostra azione va mirata ad una reale cooperazione con le strutture sindacali
nazionali, tesa a: -consolidare il ruolo delle organizzazioni sindacali quale fattore di
democratizzazione delle società che, ad Est come a Sud, manifestano, se pur per
ragioni diverse, un deficit in tal senso; -favorire, coerentemente, la democratizzazione interna delle diverse
organizzazioni e la loro effettiva autonomia dalla politica e dai governi,
condizione essenziale per una loro forte rappresentatività sociale; -rafforzare le pratiche e i modelli di relazione con le controparti,
collocabili nella grande maggioranza dei casi nel settore pubblico o in quello
privato informale; -privilegiare la dimensione di scambio e comunicazione delle esperienze
nella cooperazione intersindacale; -favorire un approccio comune ai processi migratori tra le due sponde,
attraverso la cooperazione tra il Dipartimento internazionale e quello delle
Politiche sociali, preposto all’iniziativa politica e di sostegno pratico ai
lavoratori immigrati. L’importanza
della cooperazione tra i sindacati comporta un nuovo approccio condiviso
rispetto alle azioni da intraprendere, alle loro priorità e alla loro verifica
di efficacia. Si tratta di evitare il moltiplicarsi e il sovrapporsi delle
iniziative tra l’ambito nazionale e quello locale o regionale, privilegiando
invece un’effettiva sinergia tra gli interventi, nonché l’efficacia, la
credibilità e la chiarezza degli impegni assunti con i diversi partner. Le prossime
scadenze riguardano: -una missione in Marocco di contatto con le diverse realtà sindacali; -un bilancio dell’azione di cooperazione nella ex-Yugoslavia e la
definizione delle linee di suo ulteriore sviluppo, rapportato all’intera
regione balcanica; -preparazione nell’ambito sindacale dell’imminente riunione del
vertice informale (5+5 – Nord e Sud del Mediterraneo occidentale) previstoa
Tunisi per il prossimo autunno riguardante essenzialmente il tema
dell’immigrazione; -un’iniziativa multilaterale di riflessione e di rilancio della
cooperazione nell’ambito del Trattato Euromed, soprattutto alla luce
dell’allargamento dell’UE. Il summit di
Aqaba indica la possibilità di un nuovo tentativo di approccio alla questione
mediorientale, nella consapevolezza largamente condivisa che la sua soluzione
passi necessariamente dal negoziato tra le parti e che nessuna soluzione
militare sia possibile. La novità non sta tanto nel merito dei contenuti
discussi, che peraltro rinviano a semplici premesse, quanto nella condizione con
cui i diversi interlocutori arrivano a tale appuntamento. Vi è innanzi
tutto l’obbligo per gli Stati Uniti, dopo l’occupazione dell’Iraq
dimostratasi del tutto estranea alle ragioni che pubblicamente la sostenevano
(le cosiddette armi di distruzione di massa), di giustificare la propria
presenza nell’area mediorientale con motivazioni più nobili e meno
utilitaristiche. Ma, e qui sta la novità, sono israeliani e palestinesi,
entrambi pur se in diverso grado, che sono obbligati al tavolo delle trattative
perché allo stremo delle forze, politiche, economiche e soprattutto sociali.
Per i due
protagonisti del processo di pace, infatti, la crisi è sempre più drammatica:
disoccupazione ai massimi storici, oltre la metà della popolazione palestinese
sotto la soglia di povertà, paralisi dei trasporti e delle comunicazioni, senso
di insicurezza diffuso, e quindi in sintesi assenza di prospettive di sviluppo e
di futuro. Questa crisi pretende un nuovo approccio ai problemi sul tappeto: lo
stesso Sharon ha denunciato al Parlamento israeliano l’insostenibilità della
presenza militare nei Territori Palestinesi Occupati e apre un aspro conflitto
nella sua stessa coalizione di governo, legato soprattutto al prezzo pagato dal
contribuente israeliano per il mantenimento di circa 200.000 coloni in
Cisgiordania e nella Striscia di Gaza e ai vantaggi elettorali acquisiti dalla
destra propria con al difesa della campagna forsennata di occupazione. Lo stesso
sindacato israeliano, l’Histadrut, che è alla testa di massicce mobilitazioni
contro la politica economica del governo, ammette per la prima volta il nesso
tra crisi e costo dell’occupazione. In campo
palestinese, la stessa crisi politica dell’Autorità e delle sue istituzioni
è fondamentalmente legata all’impossibilità-incapacità di offrire soluzione
e risposte alla drammatica condizione di vita della popolazione, che fronteggia,
oltre alla paralisi dell’economia, una progressiva perdita di identità e di
senso di cittadinanza (fortissimo solo 10 anni fa), tanto da lasciare spazio
soltanto ai richiami più irrazionali del fanatismo religioso. Per tali ragioni,
ogni gesto che alimenti ulteriormente l’iniquità della condizione
dell’essere palestinese e dei rapporti tra i due popoli, a cominciare dal
rifiuto israeliano-americano a riconoscere il ruolo di Arafat, regolarmente
eletto, umiliando così l’intero popolo, finisce con il sospingerlo sempre più
in un vicolo cieco. Questo si aggiunge alla quotidiana impossibilità a vivere,
a studiare, a lavorare, a muoversi su un territorio costellato di check point,
di coprifuochi, di demolizioni di case, di violenze e di umiliazioni gratuite. Il viaggio
compiuto in maggio dalla delegazione della CGIL, che ha toccato tutte le
principali città palestinesi, ad esclusione di Gaza perché preclusa agli
stranieri, e dedicato principalmente all’incontro con le strutture sindacali
del PGFTU (Palestinian General Federation of Trade Unions), ha confermato la
drammaticità del quadro sopra richiamato ed il bisogno di iniziative atte ad
alleviare la condizione quotidiana della popolazione, in concreto forme di
solidarietà materiale per contrastare la condizione sempre più diffusa di
estrema miseria, anche in settori un tempo più che autosufficienti: questo è
sicuramente il problema che ci è stato posto con più immediatezza e su cui
occorre in questa fase concentrare gli sforzi.
Il confronto
con l’Histadrut, allo stesso modo, ci ha consentito di registrare una nuova
consapevolezza del nesso pace-diritti dei lavoratori, sollecitandoci ad
un’iniziativa politica che interrompa il processo di impoverimento che si sta
diffondendo anche nella società israeliana, in miscela esplosiva con il diffuso
sentimento di insicurezza legato al terrorismo. Per tutte
queste ragioni, dobbiamo considerare la road map (vedi scheda a lato) come
estrema opportunità di riattivare il processo di pace, senza commettere
l’errore che già fu fatto dalla comunità internazionale con il processo di
Oslo, di darlo per acquisito e di lasciarne l’attuazione ai due soli
protagonisti, con gli Stati Uniti come arbitro poco imparziale e l’Europa
marginalizzata. Nonostante l’invenzione del “Quartetto” (Usa, UE, Russia e
ONU), che è stata l’unica iniziativa internazionale concreta e credibile
degli ultimi anni, dalle prime mosse dell’amministrazione americana,
purtroppo, sembra si voglia tornare al ruolo esclusivo di quest’ultimo come
arbitro e garante. Il tessuto di
contraddizioni e di tensioni su cui si innesta la road map, nonché la sua
fondamentale caratteristica di successione di fasi (la realizzazione di ognuna
delle quali deve essere certificata da tutti i partner), ne fanno un meccanismo
delicatissimo, di cui è molto facile si determini la paralisi. Ciò è tanto più
vero perché proprio la prima fase del processo – l’eliminazione del
terrorismo di parte palestinese – sconta la conquista al processo di un ampio
consenso nella popolazione, senza tangibili ed immediati riscontri nella loro
condizione di vita quotidiana. Sappiamo infatti, come avvenuto in questi giorni,
che una fragile tregua di fatto delle principali fazioni militari
palestinesi può essere immediatamente spazzata via dalle incursioni israeliane
per omicidi mirati e dal blocco delle città con il coprifuoco. In questo
contesto, la voglia di pace – che secondo i sondaggi interessa almeno il 70%
delle due popolazioni – coinvolge il movimento sindacale palestinese e
israeliano e pretende innanzi tutto un lavoro da parte nostra, mirato non tanto
al dialogo tra le parti come in passato, bensì teso a facilitare la
ricostruzione di punti di aggregazione politica e sociale, atti a rivitalizzare
e ricostruire il tessuto di identità e di iniziativa civile. Non è un caso
che, dagli incontri realizzati durante la missione, emerga una voglia di
discussione e articolazione politica interna alla società palestinese, mentre
in Israele comincia a manifestarsi il rifiuto del processo di militarizzazione,
che da tempo schiaccia ogni vita civile. Dobbiamo
quindi lavorare perché il sindacato torni ad essere tale nei due campi e
piegare anche la molteplicità di iniziative diffuse in Italia e in Europa alla
realizzazione di una forte pressione civile, di cui lo stesso “movimento” di
questi mesi non è stato del tutto consapevole, sul governo e sulle istituzioni
europee perché svolgano fino in fondo un compito che non possono più delegare. Premessa Dopo la fine
della guerra fredda e la caduta del muro di Berlino i conflitti per procura fra
Urss ed Usa sul suolo Africano sono finiti, l'apartheid e stato sconfitto ed in
Sud Africa un nuovo gruppo dirigente, con il consenso della maggioranza ed
attraverso una rivoluzione pacifica e democratica. Da molte
parti e non a torto si è parlato di " rinascimento africano ",
richiamando alla memoria il 1960, il cosiddetto anno dell'Africa, quando
diciassette paesi africani, liberatisi dal colonialismo, furono ammessi alle
Nazioni Unite. L'obbiettivo
più urgente era cancellare guerre, distruzioni ed uccisioni di massa dalla
realtà quotidiana dell'Africa, combattere la fame, le malattie ed il crescente
degrado economico.
Contemporaneamente
appariva sempre più chiaro che la mancata istituzionalizzazione della politica
era la ragione fondamentale dell'incapacità di forme di stato , ereditate dai
processi di decolonizazzione e di ispirazione europea, a regolare conflitti
sociali e tribali, a combattere la corruzione. La politica
non è stata e non è nella maggioranza dei paesi africani in grado di
assicurare il funzionamento dello stato, fondato sul buon governo ed un modello
di democrazia pluralistica, in grado di assicurare la rappresentatività delle
diverse realtà politiche ed etniche, di garantire parità di diritti e di
opportunità, di attivare forme adeguate di partecipazione ed autonomia della
società civile, Questa situazione si traduce nell'incapacità
di garantire l'unità e l'autonomia di nazioni che il processo di
decolonizzazione ha fatto coincidere con i vecchi confini coloniali, proprio con
l'intento di mantenere stabilità. Molto grandi
sono le responsabilità delle classi dirigenti, delle forze politiche e delle
elite culturali africane ma ancora più pesanti sono le responsabilità dei
paesi ricchi che hanno voluto mantenere la loro egemonia ed il controllo delle
ricchezze naturali utilizzando contraddizioni e contrasti. Non si deve
dimenticare che per quanto riguarda i conflitti che travagliano l'Africa (
secondo l'ONU le trenta guerre combattute nel continente da 1970 ad oggi hanno
provocato neve milioni e mezzo di profughi e più della metà di tutte le morti
per conflitto registrate nel mondo ) le decisioni relative al divieto di vendere
armi e mezzi di distruzione assunte dalle Nazioni Unite non sono mai state
rispettate dai paesi sviluppati produttori di armamenti. Senza nuovi
sistemi di controllo ed uso razionale delle risorse, di gestione delle terre e
di qualificazione delle produzioni agricole, di servizi e di infrastrutture e
senza nuove forme di interscambio e di maggiore partecipazione all'economia
mondiale non è possibile procedere in modo efficace ad una più equa
redistribuzione delle ricchezze e l' Africa rischia di non poter cambiare il suo
stato intollerabile di povertà e di emarginazione. La
responsabilità di questa situazione va ricondotta a due ragioni principali : -
un debito estero insostenibile che soffoca le economie locali e sottrae
risorse a piani di sviluppo, effetto perverso delle politiche neoliberiste del
Fondo Monetario Internazionale e della Banca Mondiale; -
le politiche protezionistiche e di restrizione ai commerci realizzate dai
paesi sviluppati e dallo stesso WTO, che rendono impossibile l'accesso dei
prodotti dei paesi in via di sviluppo ai mercati delle aree più ricche del
mondo Inoltre i
processi di globalizzazione che si realizzano senza regole e controlli
producono, in una esplosiva sinergia con i principi del Fondo Monetario
Internazionale, scelte di privatizzazione delle risorse e delle ricchezze
naturali , di deregulation , di rinuncia ad investimenti sociali ( sanità,
.istruzione ecc.) per pagare il debito ed i suoi interessi che fanno a pezzi
quel poco di organizzazione statale che era stata costruita, pur con tutte le
profonde inefficienze. Invece di migliorare si preferisce distruggere, per
togliere ogni controllo ed ogni ostacolo al potere delle aziende multinazionali. L' AFRICA
di oggi L'Africa
continua ad essere in preda alla fame ed alle malattie , l'aspettativa di vita
è mediamente di 47 anni, la diffusione della piaga dell'Aids e di molte
malattie trasmissibili, come ad esempio la malaria , si espande fuori controllo
ed in molti paesi il 30/40 % della popolazione è siero positiva, anche per
effetto delle guerre, della fame e della malnutrizione aumentano. I paesi
africani non hanno risorse economiche per un efficace programma di prevenzione e
per l'acquisto dei costosi medicinali necessari e le promesse di aiuto dei paesi
ricchi, ribadite anche nelle ultime riunioni dei G8, restano senza esiti
significativi. Si delinea uno scenario nel quale l'Africa, come è avvenuto ai
tempi dello schiavismo, rischia di essere depauperata persino delle sue risorse
umane. La crescita
economica per alcuni paesi è addirittura in regresso e sanguinosi conflitti
restano irrisolti come ad esempio in Burundi, Somalia, Costa d'Avorio,
Sudan, Liberia, Repubblica Democratica del Congo e tanti altri. Per meglio
capire la situazione è utile rifarsi al rapporto 2003 dell' UNDP sullo sviluppo
umano. I paesi
classificati a basso sviluppo umano ( un indice che tiene conto di diversi
fattori come tasso d'istruzione, reddito pro-capite, aspettativa di vita ecc.)
che si trovano in fondo alla graduatoria Undp sono quasi tutti dell'Africa
sub-sahariana, trenta sugli ultimi trentaquattro. Gli obbiettivi del nuovo
millennio, fissati dalle Nazioni Unite e rilanciati anche al vertice di
Johannesburg, e che prevedevano la riduzione della metà del numero delle
persone oltre la soglia di povertà ( meno di 1 dollaro al giorno),il
dimezzamento di morti per fame,la riduzione della mortalità infantile e per
Aids, la riduzione dell' analfabetismo sono
sostanzialmente falliti.
Infatti il
rapporto Undp prevede che, restando invariato il ritmo di crescita attuale,
l'Africa sub-sahariana raggiungerà gli obbiettivi sulla povertà non prima del
2.147 e quelli della mortalità infantile nel 2.165 anziché nel 2.015 come
previsto Non mancano
tuttavia segnali positivi ed eccezioni rappresentati dalla crescita democratica
di paesi importanti come Sud Africa e Senegal, dalla fine della lunga guerra
civile in Angola e dall'evoluzione in positivo della situazione in Ghana ed in
Zambia, Nello stesso
rapporto 2003 dell' UNDP viene registrato un miglioramento dell'indice di
sviluppo umano in Benin, Ghana, Ruanda, Senegal ed Uganda, le isole Mauritius,
unici paesi africani che hanno migliorato le proprie posizioni nella graduatoria
mondiale. Ma il segnale
più forte di speranza viene dalla riunione dell'Unione Africana tenutasi a
Maputo ad un anno dalla sua fondazione. All'ordine del giorno di questo vertice
di capi di stato la creazione di istituzioni africane finalizzate a garantire la
pace, promuovere la democrazia e la lotta contro la povertà e le malattie. Si
tratta di una nuova istituzione che, tenuti presente i limiti delle esperienze
precedenti, rappresenta la volontà dei leaders africani di riprendere nelle
proprie mani il destino del continente dandosi obbiettivi, percorsi e strumenti
in grado di realizzare istituzioni economiche, sociali e militari comuni per
riprogettare il futuro dell'Africa e nuovi rapporti paritari con il resto del
mondo. A questo
vertice ha partecipato il Presidente della Commissione della Unione Europea
Romano Prodi con un discorso, pieno di significative affermazioni di principio
sulla cooperazione Europa-Africa e di impegni solenni, che sarà tutto da
verificare anche perché in contraddizione con il peggioramento della situazione
registrata anche dal rapporto 2003 dell'UNDP.. 3Negli stessi
giorni il Presidente degli USA, G.W.Bush, ha realizzato una rapida visita in
Africa il cui esito è apparso incerto e privo di sostanziali novità,
condizionato da forti limiti propagandistici e dalla diffidenza di molti
interlocutori, in primo luogo il Sud Africa. E' probabile tuttavia che questo
viaggio evidenzi una nuova attenzione dell'Amministrazione USA alla realtà
dell'Africa,a partire dall'interesse per il petrolio della Nigeria ed dalla
utilità di bilanciare gli interventi europei con un contingente americano per
la pacificazione della Liberia. Africa ed
iniziativa sindacale Rimettere di
nuovo l'Africa al centro dell'interesse del mondo e dell'iniziativa dei paesi
sviluppati,a cominciare dall'Europa, togliendola da quel cono d'ombra in cui è
stata relegata , illuminata solo a tratti dai bagliori delle guerre, della fame
e delle stragi . Si tratta di
conoscere meglio l'Africa, per capirne potenzialità e problemi e per farla
conoscere meglio ad una opinione pubblica informata superficialmente od in modo
distorto. Occorre avviare un percorso più costante di collaborazione e di
impegno comune con il sindacalismo africano e con quanti nel mondo delle Ong e
della Chiesa sono interessati alla lotta per un diverso modello di sviluppo e più
efficaci strumenti di cooperazione. Questa iniziativa deve essere portata avanti
nelle istituzioni e nelle associazioni internazionali ed anche in Italia,
sviluppando i rapporti bilaterali con le organizzazioni sindacali africane più
rappresentative. Si tratta in primo luogo di rafforzare le relazioni con Cosatu
del Sud-Africa, la più importante organizzazione sindacale africana e fra le più
rappresentative nel mondo, dando seguito agli impegni assunti per un comune
progetto formativo rivolto ai quadri del sindacato, che sarà possibile definire
in occasione del prossimo congresso del Cosatu e della sua imminente visita in
Italia. La
collaborazione con Cosatu, che risale ai tempi della lotta all'apartheid di cui
è stato fra i principali protagonisti, si è avvalsa nel passato di importanti
progetti di cooperazione ed oggi può rappresentare uno strumento di grande
importanza per realizzare in Italia, anche attraverso seminari e pubblicazioni,
un approfondimento della conoscenza della realtà e del futuro dell'Africa, con
la partecipazione di studiosi italiani ed europei, rivolta in primo luogo al
sindacato italiano. Un'altra
realtà di interesse prioritario e rappresentata da Senegal, paese di grande
importanza nella storia Africana e dal quale proviene una delle prime e più
numerose comunità di immigrati in Italia. Il Senegal è
un paese dove esiste pluralismo politico e sindacale, con elezioni libere ed
alternanza politica al governo, una importante vita sociale e culturale, I
senegalesi in Italia hanno contribuito, in modo rilevante, a costruire i
coordinamenti dei lavoratori immigrati nel sindacato e a fare crescere le
iscrizioni ed il ruolo degli immigrati nella CGIL e nelle lotte sindacali e
democratiche. A livello
nazionale, regionale e locale molti senegalesi hanno ricoperto e ricoprono
incarichi di direzione, Per queste
relazioni e per l'importanza del flusso Migratorio l'INCA ha aperto in Senegal
una sede per garantire migliore assistenza ai lavoratori che rientrano e a
quanti intendono partire per l'Italia. Si tratta di
una esperienza pilota, la prima assieme alla sede di Casablanca in Marocco, che
rafforzerà certamente i rapporti fra sindacato e lavoratori e che va seguita
con grande attenzione per il valore che assume nel quadro di una diversa
politica dei flussi migratori, fondata su accoglienza e cooperazione. E'
intenzione del Dipartimento Internazionale della Cgil costruire più stretti
rapporti con le due principali organizzazioni sindacali senegalesi. Un altro
impegno prioritario è rappresentato dal rafforzamento delle relazioni
con le organizzazioni sindacali della Nigeria, a cominciare dal maggio
sindacato il Nigeria Labour Congress (N.L.C.), per il ruolo del paese ( fra i più
popolosi dell' Africa e fra i maggiori produttori di petrolio e di gas naturale)
e per le caratteristiche di autonomia e di combattività di un movimento
sindacale capace di organizzare grandi momenti di lotta popolare contro
l'aumento dei prezzi , come è avvenuto anche nei giorni passati. Va inoltre
tenuto presente che l'interscambio fra i due paesi è in aumento, in particolare
le importazioni di petrolio e gas, e
che è in crescita i numero di lavoratori immigrati in Italia provenienti dalla
Nigeria. Dopo la resa
dell'Unita e l'avvio di un processo di pacificazione che mette fine ad una
guerra devastante, l'Angola deve riprendere il cammino della ricostruzione,del
ritorno degli sfollati e del reinserimento dei soldati smobilitati,dei mutilati
e degli orfani. Questo sforzo ha bisogno della collaborazione e del sostegno di
tutta la comunità internazionale per aiutare uno dei paesi potenzialmente pià
ricco dell'Africa a riprendere il cammino dello sviluppo senza essere ancora
saccheggiato dai paesi più ricchi che tanta parte hanno avuto nel sostenere la
guerra civile in quel paese. Relazioni pià strette con il sindacato dell'Angola
possono favorire la raccolta di risorse da impiegare in progetti di cooperazione
a sostegno dei lavoratori e della popolazione. Un'altra
organizzazione sindacale con la
quale è utile rafforzare rapporti che risalgono
alla lotta anticoloniale è la UMT del Mozambico, paese con il quale sono
stati realizzati numerosi e significativi progetti di cooperazione. Nell'Africa
dell'Est esiste il problema di ricostruire relazioni con i sindacati dell'
Eritrea, con cui esistono storici rapporti fin dal sostegno alla lotta di
liberazione, dell'Etiopia e con la difficile realtà della Somalia, rispetto
alla quale possono essere utili i buoni rapporti con la diaspora somala in
Italia, organizzata nel forum Italia-Somalia sostenuto da CGIL-CISL-UIL.. In tutto il
corno d'Africa, in particolare per la pacificazione della Somalia, l'Italia può
e deve assolvere ad un ruolo importante, coinvolgendo anche l'Unione Europea in
funzione di sostenere la pacificazione dell'area e la ricostruzione dello stato
somalo e della sua economia. Molto grande
è l'interesse per la situazione della Repubblica Democratica del Congo,
devastata da una guerra civile che ha origine nella volontà di mettere le mani
sulle immense ricchezze di quel paese, in particolare per i tentativi di
consolidare una tregua ed avviare un processo di pacificazione interna e nei
rapporti con i paesi vicini. Anche nel
Sahara Occidentale devono continuare il sostegno al riconoscimento del diritto
di autodeterminazione per il popolo Sarawi e le relazioni con il sindacato
Ugtsario, rafforzando la azione di solidarietà con i profughi nei campi a Sud
dell'Algeria. Nell'ambito
delle priorità individuate, con alcuni sindacati è possibile realizzare
rapporti di reciproca collaborazione e di partnership politica, in altre
situazioni la presa di contatto con quelle realtà richiede un intervento di
cooperazione e di solidarietà per rispondere ad emergenze in atto. In tutti i
casi la Cgil , ai diversi livelli, deve muoversi secondo priorità ed obbiettivi
condivisi dentro una comune strategia per ottenere, in situazioni spesso
difficili e complesse, risultati positivi. Per questo
occorre maggiore circolazione delle informazioni ed un percorso meglio
organizzato di elaborazione e definizione delle scelte di lavoro, aperto al
contributo di tutte le strutture. Solidarietà
- Cooperazione allo Sviluppo In molti
paesi africani la CGIL è stata presente con progetti di cooperazione realizzati
da Progetto Sviluppo, che è l’Istituto che è chiamato a tradurre in
cooperazione la politica internazionale della CGIL. Da tempo poi, insieme a CISL
e UIL, si realizza una collaborazione con Intersos ed altre organizzazioni che
agiscono sull’emergenza umanitaria in Africa ed altrove. Si tratta di
Sud Africa, Mozambico, Angola, Ruanda, Burundi, Niger, Capo Verde, Eritrea,
Sahara Occidentale. Attraverso
questi strumenti può realizzarsi la politica di aiuto umanitario e di
cooperazione di tutte le strutture sindacali, avendo chiaro che la scelta della
Cgil non si deve limitare all'utilizzo dei finanziamenti pubblici
ma deve raccogliere risorse finanziare ed umane aggiuntive da impiegare a
questi fini. Per quanto
riguarda la politica di cooperazione occorre denunciare che l'Italia, assieme
agli Usa, è il paese industrializzato che destina a questo scopo la percentuale
più bassa del proprio prodotto interno lordo ( 0,2%), molto lontano dallo 0,7%
di altri paesi ed inferiore , in termini, assoluti da quanto viene speso da
paesi molto più piccoli come Svezia e Danimarca. L'Europa destina ad aiuti allo
sviluppo lo 0,34% del Pil, mentre gli Usa soltanto lo 0,12%, cioè un cittadino
europeo paga 76 dollari annui mentre un cittadini Usa ne paga 43. In
questi ultimi mesi nella politica del governo italiano si assiste al vergognoso
tentativo di stornare fondi dalla cooperazione per il finanziamento delle
spedizioni militari, spesso decise senza l'avvallo dell'Onu, mentre risorse
finanziarie ingenti vengono destinate al controllo congiunto dei flussi
migratori, pattugliamento dei mari e controllo delle coste, di conseguenza
l'unica cooperazione con molti paesi in via di sviluppo è quella di finanziare
il controllo e l'arresto dei clandestini.
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