Giovanni Berlinguer * 3.
QUEL MOSTRO DI BOLKESTEIN L’impegno delle sinistre nel Parlamento europeo Nel momento in cui scrivo, non so ancora se la Direttiva sui servizi, proposta nel 2004 dal Commissario (uscente) al mercato interno, sia ancora all’ordine del giorno del Parlamento europeo; se sia stata ritirata come ha chiesto in Italia un appello di sindacalisti e parlamentari 1 e in Francia il Presidente Chirac; oppure se verrà riproposta con sostanziali modifiche, come vorrebbe il presidente della Commissione europea Barroso. In questa incertezza penso che non sia utile commentare un testo che può diventare evanescente o scomparire nel nulla; e che sia preferibile invece parlare delle sue radici, delle sue giustificazioni, delle sue contraddizioni. Prendere cioè il problema alla larga, visto che non posso sapere se stiamo parlando di un vivo o evocando un fantasma che non si aggira più per l’Europa. L’Europa, appunto. La nascita dell’Unione europea, come ogni fecondazione omologa o eterologa, ha origine da due genitori. In questo caso uno è la spinta ideale, nata già nell’ottocento e riemersa con vigore drammatico alla vigilia e nel fuoco della seconda guerra mondiale. Il suo programma è stato il sogno di un’Europa pacifica e democratica. L’altro genitore è il mercato unico, da costruire per espandere la ricchezza nel continente e (se possibile) il benessere dei suoi cittadini. Il suo programma ha avuto al centro l’interesse ad assicurare la libera circolazione delle merci, delle persone e dei servizi. Si discute molto su quanto e come questi due programmi, spesso convergenti, a volte separati e persino antagonisti, abbiamo contribuito al progresso dell’Europa. È indubbio però che questo progresso c’è stato, come mostra da un lato il livello di vita e dall’altro la forza di attrazione dell’Europa. Infatti, alle nuove dieci adesioni si aggiungono ora altre candidature, e l’esempio europeo (sia come modello sociale, sia come aggregazione di nazioni) suscita in altre parti del mondo il desiderio di muoversi su percorsi analoghi. Una libera circolazione c’è stata, ma con tre problemi. Primo, non si è accompagnata a un uguale accesso al benessere; anzi, negli ultimi anni le differenze di reddito, di conoscenze e di potere sono aumentate. Secondo, i tre soggetti-oggetti della libera circolazione sono stati regolati in modi diversi: uno – le merci – ha avuto il via libera quasi ovunque all’interno (in un’Europa spesso sbarrata ai rapporti esterni da dogane e sovvenzioni pubbliche); un altro – le persone – è stato intralciato nella mobilità, come mostrano le moratorie al movimento dei lavoratori dai nuovi paesi orientali verso quelli centrali e occidentali; quanto ai servizi, essi sono rimasti in una zona confusa tra pubblica utilità, privatizzazioni, strettoie corporative, piraterie e armonizzazioni. Terzo problema: la crescita e la capacità competitiva dell’economia europea sono divenute più basse rispetto agli Stati Uniti, e ancor più nei confronti delle grandi nazioni asiatiche in espansione. L’affanno dell’Europa in questa rincorsa era già stato percepito nel tornante del secolo, e fu perciò lanciata nell’anno 2000 la Strategia di Lisbona 2, che prevedeva uno sviluppo più accelerato basato sul privilegio dell’economia della concorrenza, sulla maggiore occupazione e sulla coesione sociale (che implicherebbe, ma spesso lo si dimentica, minori disuguaglianze), da raggiungere entro dieci anni. Verso la metà di questo percorso, l’Europa ha preso coscienza che nessuno di questi obiettivi è stato raggiunto o avvicinato, e le sue istituzioni hanno avviato un processo di revisione della strategia di Lisbona. Nel 2004 il commissario Bolkestein (con l’accordo della Commissione) propone che possa basarsi soprattutto su di un’arma: la liberalizzazione totale dei servizi. Il ragionamento è di estrema semplicità: il 70% degli europei lavora nei servizi, i quali producono il 70% della nostra ricchezza: se ciascuna entità, persona o impresa, potesse agire e muoversi ovunque nel continente senza impacci o restrizioni, la produttività e l’efficacia del loro lavoro crescerebbe con grande rapidità; ne trarrebbero quindi vantaggio l’economia, i lavoratori e anche i consumatori. Il 12 gennaio Barroso, nuovo presidente della Commissione, ha affermato categoricamente nel suo programma che la direttiva Bolkestein «rappresenta una necessità assoluta di crescita, sopravvivenza e preservazione della prosperità europea».
Nel frattempo, però, qualcosa è accaduto, che ha infranto la fiducia in questa ‘arma assoluta della prosperità’: un risveglio profondo della coscienza sociale e della sensibilità per i beni comuni e per gli interessi collettivi, accompagnato da molte iniziative politiche. Essenziale, in tale quadro, è stato il ruolo assunto dalla Ces e, in particolare, la combattività della Cgil, dei movimenti di cittadini e di consumatori, e la chiarezza con cui il gruppo parlamentare del Partito socialista europeo (dopo qualche oscillazione) ha espresso le sue critiche e la sua opposizione. A questo si sono aggiunte le perplessità sorte all’interno dell’altro grande schieramento (il Partito popolare europeo); il distacco critico mostrato verso questa direttiva dal primo ministro lussemburghese Juncker (presidente del Consiglio europeo nel semestre gennaio-giugno) e, infine l’esito imprevisto di una solenne audizione nel Parlamento europeo di esperti – soprattutto giuristi ed economisti – convocata per convalidare la Direttiva e finita con una valanga di critiche. Fra queste, il fatto che essa non garantisce le conquiste sociali e la qualità dei servizi pubblici, elementi vitali della strategia di Lisbona; al contrario, andrebbe a indebolirle. La natura stessa dei Servizi di interesse generale (Sig) – come la salute, l’istruzione, l’informazione, che presume l’universalità, la qualità, l’accessibilità e la tutela dei consumatori – viene pericolosamente minata dall’incoraggiamento intrinseco della Direttiva a uniformare al ribasso le legislazioni nazionali preposte a garanzia. A questo si aggiunge che, tra le prime incongruenze della Direttiva, c’è il problema della definizione e delimitazione del campo di applicazione. I criteri per distinguere e definire i Sig non sono chiari, i settori già coperti da Direttive europee settoriali, come i trasporti, o da legislazioni nazionali si confondono, creando una preoccupante incertezza giuridica, e insieme, come affermato da molti, si apre la via per un dumping giuridico e sociale di difficile risoluzione. La proposta di Direttiva prevede, inoltre, deroghe e zone grigie, ma non si impegna a definirle, creando, perciò, un’arbitrarietà preoccupante. I servizi alla salute o l’educazione dovrebbero essere esclusi, ma laddove essi sconfinano tra economico e sociale intervengono le zone grigie, e, nel caso specifico dei servizi sanitari, l’incertezza giuridica ne minerebbe qualità e accessibilità. Una delle proposte più gravi è l’introduzione di un principio secondo cui un servizio esportato non risponde affatto alle regole del paese in cui esso agisce, bensì a quelle del «paese di origine». Ciò riguarda gli standard, la qualità, i controlli tecnico-scientifici e la vigilanza pubblica, e si applica anche allo spostamento dei lavoratori. Si crea quindi la possibilità, per qualsiasi impresa, di impiegare forza lavoro in un paese y, sottostando alle regole del paese di origine, il paese x. Il lavoratore non vedrà più applicato il diritto del luogo in cui opera, come previsto attualmente da altri strumenti comunitari a garanzia dei lavoratori, bensì il diritto del paese dove il datore di lavoro ha deciso di costituire giuridicamente l’impresa. Ciò sottende l’invito a spostare la sede legale presso i paesi dove le norme fiscali, sociali e ambientali sono più permissive, e crea una forte pressione al ribasso sui paesi con standard che garantiscono e proteggono l’interesse generale. La mediazione al ribasso si crea anche per il diritto applicabile al controllo e al risarcimento del danno, che non è più determinato dal luogo del danno, ma dal luogo di stabilimento originale del soggetto che offre il servizio. In tal modo le disposizioni di uno Stato, più severe in materia di responsabilità, sarebbero facilmente eluse.
Da queste critiche appare chiaro che la Direttiva Bolkestein è stata concepita come un’ideologia esasperata del libero mercato. È stata proposta, perciò, senza procedere a quei passaggi tipici di ogni scelta che voglia essere al tempo stesso scientifica e democratica. Da un lato è mancata ogni valutazione di impatto, ogni modello teorico ed econometrico atto a considerarne le complesse e irreversibili conseguenze. Dall’altro non è stato aperto un dialogo sociale con i soggetti interessati: imprese, sindacati, ordini professionali, amministrazioni locali e regionali, società civile. Le critiche che vi sono state nascono anche da un deficit di democrazia in gangli essenziali dell’Unione europea. È anche per questo che, come ha scritto «Le Monde», la Direttiva incontra molte più resistenze di quel che la Commissione europea prevedeva. Per avere un quadro più ampio, tuttavia, propongo altre due considerazioni. La prima è che gli orientamenti fattuali in materia di servizi, in misura maggiore o minore, stanno già inglobando in molte realtà l’equazione ‘servizi = merci’, a volte con qualche effetto positivo ma spesso con svantaggi per i lavoratori e per i cittadini. La seconda è che in questo campo un cambiamento deve esserci: non possiamo essere conservatori e negare che nella gestione e nello sviluppo dei servizi vi sono impacci, resistenze corporative, sofferenze per le persone, oneri per le amministrazioni locali, aggravi per i cittadini, difficoltà per le imprese produttive. Mi ha molto colpito un dato sulle piccole e medie aziende che non gestiscono in proprio i servizi: per questi, esse spendono il 9% del loro bilancio, mentre all’energia consumata va solo il 3% e per il trasporto delle loro merci il 4%.
Ponendoci dalla parte delle attività produttive, del lavoro e dei cittadini, è corretto, quindi, porsi l’obiettivo di eliminare ingiusti ostacoli alla libera circolazione dei servizi, e di promuovere un’armonizzazione a livello comunitario (come si è già fatto per i trasporti). È questa una risposta alle resistenze coagulate negli albi professionali (dagli avvocati ai commercialisti, alle infinite specie di consulenti), che tanto pesano sul funzionamento della pubblica amministrazione come pure sui costi finali (pagati dagli stessi cittadini-utenti), a difesa di indifendibili privilegi corporativi. Liberalizzando il campo dei servizi e volendo superare in avanti le legislazioni nazionali di tipo restrittivo e corporativo, dovrebbero risultare ancora più rafforzate e rese stringenti le varie tipologie di comunicazione, cooperazione e assistenza tra gli Stati. Le regole attuali dovrebbero perciò essere integrate dall’indicazione prescrittiva di accordi e codici di condotta sottoscritti da istituti pubblici, nazionali e sovranazionali, che vedano presenti al proprio interno le associazioni degli industriali e degli artigiani, le imprese che erogano i servizi e quelle degli utenti e dei consumatori. Una serie di questioni quali la riconoscibilità del prestatore, l’assicurazione professionale, le garanzie per il cliente, gli obblighi d’informazione verso l’utilizzatore finale, la composizione delle controversie e il Foro competente – per fare degli esempi – assumono un rilievo di assoluta preminenza per valutare i principi espressi e le loro ricadute sulla vita di tutti i giorni. Definire, sia a livello comunitario che dei singoli paesi, forme di armonizzazione, relazione e integrazione tra le diverse autorità nazionali è la condizione preliminare per garantire un efficace controllo delle attività rese alla cittadinanza e una chiara definizione delle competenze e dei ruoli. Questo terreno coinvolge anche aspetti più propriamente politici e culturali di ridefinizione del Welfare europeo. Anziché agevolare, incentivare – verrebbe da dire incitare – gli operatori privati a spostare la propria sede legale nel paese dove riscontrano una maggiore convenienza economica, alla base di una nuova Direttiva sui servizi si dovrebbero porre normative in materia di diritto del lavoro e politiche fiscali, sociali e ambientali, in grado di indirizzare meglio la gestione e il controllo dei servizi erogati. Snellire le procedure amministrative e burocratiche fa parte di una società più avanzata, più attenta a garantire il benessere e la soddisfazione delle necessità dei cittadini. Una privatizzazione demolitoria, senza limiti né controlli, sarebbe invece un duro colpo alla stessa economia di mercato, perché è forte il rischio di ritrovarci nei fatti con 25 discipline diverse nell’erogazione dei servizi, una per ciascuno Stato e per ciascun ordinamento nazionale. Tutto ciò rende perciò la Direttiva stessa in contrasto profondo con la strategia di Lisbona, per quanto questa sia rimasta più enunciata che praticata. La creazione di un mercato interno più agile e competitivo può risultare assolutamente compatibile con la realizzazione di servizi più facilmente accessibili, a prezzi equi, liberi da inefficienze e distorsioni. Coltivare invece l’opzione della ‘deregulation totale’, la piena libertà di stabilimento, il superamento di ogni vincolo statale e sindacale, finisce per allontanare anziché favorire l’obiettivo di sviluppare nuove opportunità di lavoro e l’incremento dell’occupazione nel comparto dei servizi. Pur assumendo il punto di vista della competitività, aziende e servizi vanno orientate verso prestazioni la cui applicazione prescinda dalla regola del paese d’origine per assumere un livello e una qualità di tipo davvero europeo.
Riprendo, infine, quel che ho accennato all’inizio – cioè la difficoltà di commentare un progetto dalla sorte così incerta – aggiungendo alcune considerazioni più prettamente politiche. La proposta di Direttiva è partita come una carica di cavalleria, ma ora è in fase di decelerazione. La presidenza lussemburghese (gennaio-giugno) sta frenando il suo iter, ma è possibile che la presidenza successiva (luglio-dicembre), che sarà guidata da Blair, suoni nuovamente la carica. Esistono due possibilità. Una è che la campagna per il ritiro della Bolkestein si estenda e abbia successo pieno. Ciò può accadere, se alla mobilitazione in corso si associerà la critica di molti Stati sulla linea indicata dal presidente Chirac: «é necessario che in materia di servizi, come in tutti gli ambiti della Costituzione europea, non vengano mai persi di vista gli obiettivi di innalzamento del livello delle garanzie offerte ai lavoratori, come ai consumatori, nel quadro dell’armonizzazione progressiva delle regole europee». L’altra scelta è quella di emendare sostanzialmente il testo, a partire dalla cancellazione della devastante clausola che privilegia «il paese di origine» e dalla tendenza a inglobare sotto la voce ‘servizi’ situazioni eterogenee: in altre parole, a confondere surrettiziamente i servizi commerciabili con quelli di interesse generale (istruzione, sanità, assistenza sociale, cultura e così via). Nel testo della proposta di Direttiva si dice, con formule equivoche, che questi settori non sono compresi nel suo campo di applicazione. Ma c’è una clausola inclusiva, in base alla quale tutto rientra nella categoria ‘servizi’ quando la loro erogazione «è accompagnata da attività finanziarie», che in pratica sussistono ovunque. L’istruzione no? Eppure sappiamo che per accedervi si pagano tasse o contributi scolastici. La sanità no? Eppure è noto che in quasi tutti i paesi europei esistono i ticket sui medicinali (aboliti dal governo di centro-sinistra, e poi riapplicati). L’assistenza domiciliare no? Eppure accade, per la pochezza dei servizi rivolti agli anziani e agli handicappati, che questo lavoro sia svolto da badanti retribuite: benemerito impegno, anch’esso accompagnato da attività finanziarie. Non procedo oltre, perché tantissimi sono gli esempi in cui la Direttiva porterebbe allo straripamento del fiume dei servizi, tutti divenuti merce, e scatenerebbe un’alluvione di regole devastanti per quei Servizi di interesse generale che costituiscono, pur con molte lacune, una delle peculiarità del modello europeo.
L’alternativa principale consiste nel fermare o rallentare o modificare la Direttiva Bolkestein, facendola precedere da un’altra Direttiva che la Commissione ha già anticipato in un apposito Libro bianco, che riguarda i Servizi di interesse generale. La Commissione europea, purtroppo, ha capovolto, con la proposta Bolkestein, l’ordine delle priorità logiche, sociali e politiche, sicché si deve ora lavorare con impegno per rimettere in piedi una terra già arata e poi dimenticata o trascurata. Il rapporto presentato nel novembre 2004 dal Partito socialista europeo, intitolato Un’Europa di progresso: prosperità, uguaglianza, solidarietà, indica chiaramente (dopo molte esitazioni) questa alternativa. Vale la pena citarne un lungo brano.
I Servizi di interesse generale sono un elemento cardinale del modello sociale europeo. Essi sono strumenti essenziali per affrontare le ineguaglianze in una società frammentata. Come socialdemocratici, dobbiamo riconoscere che le liberalizzazioni settoriali promosse in questi ultimi anni hanno creato preoccupazione tra i cittadini. Esse pongono in questione la missione dell’interesse generale incorporato in questi servizi (accesso uguale per tutti, stessa qualità, costo basso), come pure la loro relazione con le regole della competizione. La tutela dell’interesse generale deve quindi essere rafforzata preoccupandoci al tempo stesso che ciò non sia un ostacolo al raggiungimento di un mercato unico dei servizi. Lo scopo delle liberalizzazioni già lanciate è di permettere ai consumatori e alle imprese di avvantaggiarsi con le economie di scala generate dal mercato unico. Ma l’indirizzo di agire settore per settore non ha realizzato il pieno potenziale di giovamento per i cittadini comuni. Dobbiamo occuparci delle loro preoccupazioni, e il Libro bianco è stato un passo avanti nella direzione giusta. Come anticipazione del Trattato costituzionale europeo, è necessario uno Statuto europeo per i Servizi di interesse generale. Questo quadro legislativo potrebbe soprattutto assicurare che la futura Direttiva sui servizi non vada a detrimento dei Servizi di interesse generale e della loro missione e perciò sollecitare un consenso politico a favore di quella Direttiva. La proposta, da parte della Commissione, di una Carta dei servizi di interesse generale porterebbe a pavimentare il cammino verso una Legge quadro europea: inclusione dei principi generali di uguale accesso, qualità dei servizi, finanziamento degli obblighi collettivi verso i servizi pubblici.
L’espressione ‘servizio’, associata a ‘interesse collettivo’ suscita ora una risonanza politica e morale, per il suo rapporto con i diritti umani fondamentali, anche come ponte di collegamento verso il territorio dei ‘beni comuni’, che negli ultimi decenni sono stati saccheggiati dal liberalismo selvaggio e deprezzati nella considerazione dei cittadini. Beni comuni, come ci ricorda sempre il saggio militante Riccardo Petrella 3, sono quelli che: 1. sono essenziali per vivere insieme; 2. non sono sostituibili con altri beni; 3. implicano una responsabilità collettiva e personale; 4. richiedono un’integrazione della proprietà, della gestione e del controllo. Beni comuni materiali (come l’acqua, l’aria, le foreste) e beni comuni immateriali (come la conoscenza, la salute, la pace, la solidarietà), vengono spesso posti in secondo piano rispetto alla merce, e perfino disprezzati, ma possono anche divenire simbolo e obiettivo di una politica per la vita. È in questo quadro che può essere collocata la discussione in corso. E solo in questo quadro le proposte alternative al ‘mostro Bolkestein’ possono risultare vincenti.
NOTE BERLINGUER
* Professore emerito nella facoltà di Scienze presso l’Università La Sapienza di Roma, presidente onorario del Comitato nazionale di bioetica (già presidente dal 1999 a 2001), Giovanni Berlinguer è parlamentare europeo, membro della Commissione per la cultura e l’istruzione e della Commissione per l’ambiente, la sanità pubblica e la sicurezza alimentare (NdR). 1 V. in questo fascicolo, pp. 239-243. 2 V. anche in «Quale Stato» 1/2, 2000, Il Consiglio europeo di Lisbona, pp. 363-430. 3 Cfr. in questo stesso fascicolo, Riccardo Petrella, Beni comuni dell’umanità, pp. 150-158.
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