Nell’ambito di un
mutato quadro normativo e contestualmente al processo di
modernizzazione e semplificazione dell’azione amministrativa, si
pone l’esigenza di rendere più incisiva l’attività di vigilanza
in materia di pari opportunità. Dall’esame dei dati statistici
relativi all’attività ispettiva, infatti, non si riscontrano,
sostanzialmente, casi di discriminazione basati sul sesso ovvero
relativi all’accesso al lavoro e ciò talora fa sorgere dubbi se si
relaziona il dato al numero delle denunce che pervengono presso gli
uffici del Consigliere di Parità.
Pertanto, al fine precipuo di realizzare in toto il principio di
tutela reale nei confronti delle lavoratrici e dei lavoratori tramite
una puntuale e consapevole azione di prevenzione e repressione, si
reputa indispensabile sensibilizzare l’ispettore del lavoro verso la
rilevazione di tutte quelle discriminazioni, attuate in ambito
lavorativo, che di fatto impediscono " il pieno sviluppo della
persona umana" nonché la realizzazione di pari opportunità fra
uomini e donne.
L’azione di
vigilanza, pertanto, deve essere rivolta in modo significativo all’accertamento
di tutti quegli atti o comportamenti discriminatori, posti in essere
dal datore di lavoro, che costituiscono il presupposto per l’applicazione
della sanzione.
E’ opportuno in questa sede ribadire che dall’analisi della
normativa vigente si evince una precisa competenza, per la materia in
questione, delle direzioni regionali e provinciali del lavoro.
Pertanto, in sede di vigilanza ordinaria, realizzata nell’ambito di
tutti i settori merceologici, sarà cura dell’ispettore non solo
indirizzare la propria indagine verso la corretta applicazione della
normativa in tema di pari opportunità, ma anche rivolgere la propria
sensibilità e la propria ricerca verso tutte quelle ipotesi, spesso
di non facile individuazione, che possano integrare gli estremi di una
discriminazione .
Nel contempo le direzioni regionali e provinciali del lavoro si
adopereranno al fine di realizzare un fruttuoso rapporto di
collaborazione con gli organismi istituzionalmente preposti alla piena
realizzazione delle pari opportunità fra uomini e donne, anche in
virtù delle più recenti innovazioni normative. A tale proposito si
sottolinea che l’intento primario della presente circolare è
finalizzato all’approfondimento dell’aspetto sanzionatorio.
Alla luce di quanto
sopra, d’intesa con la Direzione generale dei Rapporti di lavoro e
la Consigliera Nazionale di Parità, si reputa necessario richiamare i
principali riferimenti normativi inerenti la materia di cui in
oggetto, al fine di fornire un agile strumento di consultazione per il
regolare svolgimento dell’attività ispettiva.
2. Divieto di
discriminazioni e uguaglianza: art.3, art.37 della Costituzione e
art.15 legge 20 maggio 1970 n.300 (Statuto dei lavoratori).
La materia relativa
alla parità di trattamento tra uomini e donne affonda le proprie
radici nell’art. 3 della Costituzione ove viene per la prima volta
codificato il principio di uguaglianza. Detto articolo, riconoscendo a
tutti i cittadini pari dignità sociale e dichiarandone l’uguaglianza
" davanti alla legge, senza distinzione di sesso ,di razza, di
lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e
sociali", si rivolge a tutti i cittadini in quanto tali e non
già in relazione all’attività lavorativa svolta. Tuttavia è
proprio da tale norma che deriva, per il datore di lavoro, il dovere
di rispettare il principio di uguaglianza professionale tra i
lavoratori dipendenti della sua azienda. Principio che trova precisa
codificazione nell’art. 15, comma 2, della legge 20 maggio 1970
n.300 ( statuto dei lavoratori).Esso, infatti, testualmente specifica
che : è nullo qualsiasi patto o atto diretto a "fini di
discriminazione politica, religiosa, razziale di lingua o di
sesso".
L’esigenza di prevenire e sanzionare ogni discriminazione basata sul
sesso era, d’altronde, già stata sentita e formalizzata dall’Assemblea
Costituente per la tutela di una categoria, quella della
donna-lavoratrice, considerata "debole" e, come tale,
particolarmente bisognosa di tutela. L’art. 37 della Costituzione,
infatti, riconosce alla donna lavoratrice gli stessi diritti e, a
parità di lavoro, le stesse retribuzioni che spettano al lavoratore.
Tale moderno intendimento, che garantisce alla donna l’ uguaglianza
professionale, è stato oggetto di tutta la normativa prodotta in tema
di parità e che si indirizza sostanzialmente su tre fronti:
- divieto di discriminazione sul
lavoro e fissazione degli strumenti di azione giuridica per
garantire il rispetto di tale divieto;
- promozione e assunzione delle
iniziative volte a realizzare concretamente la parità tra i
sessi;
- imposizione alle imprese di
determinati obblighi allo scopo di controllare il rispetto delle
disposizioni sulle pari opportunità.
3. Legge n. 903
del 9 dicembre 1977 : divieto di discriminazione.
La legge n.903 del 1977
è intesa a realizzare la parità di trattamento fra lavoratori e
lavoratrici sia sotto il profilo retributivo, sia con riferimento agli
altri aspetti del rapporto di lavoro, in attuazione dell’art.37 e di
tutta la normativa in materia di tutela del lavoro femminile.
L’art.1, comma 1, sancisce il divieto di discriminazione
"fondata sul sesso per quanto riguarda l’accesso al lavoro
indipendentemente dalle modalità di assunzione e qualunque sia il
settore o il ramo di attività, a tutti i livelli della gerarchia
professionale".Il comma 2, vieta altresì "qualsiasi
discriminazione realizzata con riferimento allo stato matrimoniale, di
famiglia o di gravidanza" o, in modo indiretto, attraverso
meccanismi di preselezione ovvero a mezzo stampa o con "qualsiasi
altra forma pubblicitaria che indichi come requisito professionale l’appartenenza
all’uno o all’altro sesso".
La norma,poi, dopo aver
esteso l’applicazione di tale divieto anche a tutte le iniziative in
materia di orientamento e formazione professionale, individua alcune
deroghe legate alle ipotesi in cui il riferimento al sesso rappresenta
una condizione determinante per l’esecuzione del lavoro o della
prestazione.Si tratta di situazioni tassative: a) per le attività
della moda, dell’arte, dello spettacolo per le quali non costituisce
discriminazione il fatto di condizionare l’assunzione all’appartenenza
ad un determinato sesso; b) per mansioni lavorative considerate
particolarmente pesanti dalla contrattazione collettiva. In sede d’ispezione
si dovrà verificare che il datore di lavoro abbia avuto la necessità
e non la mera convenienza o opportunità, di assumere un uomo o una
donna in rapporto al contenuto del lavoro o alle condizioni del suo
svolgimento. Inoltre, l’accertamento deve basarsi su elementi
oggettivi prescindendo il più possibile dalle intenzioni o dalle
opinioni dell’autore della condotta.
3.1.Discriminazione
diretta e indiretta e Legge n. 125 del 10 aprile 1991.
L’art.1 della legge
n.903/77, introduce l’ importante nozione di discriminazione diretta
la quale consiste in tutti quegli atti o comportamenti lesivi che
producono un effetto pregiudizievole per i lavoratori in ragione del
sesso. Si tenga presente che i differenti modi di selezione e
valutazione del personale sono discriminatori quando non vengano
adeguatamente motivati in relazione alla professionalità o alle
prestazioni richieste. In tali situazioni, infatti, si potrà
riscontrare che la preclusione ai posti di lavoro avvenga nei
confronti della globalità delle donne, oggettivamente impossibilitate
a soddisfare la richiesta di determinati requisiti.
Fattispecie classica di
discriminazione diretta fondata sul sesso è la sottoposizione delle
aspiranti lavoratrici a test-gravidico. Lo stato di gravidanza non
può essere oggetto di indagine da parte del datore di lavoro, perché
non rilevante, ai sensi dell’art. 8 della legge 20 maggio 1970 n.
300, ai fini della valutazione delle attitudini professionali del
soggetto da assumere (Sentenza Corte di Cassazione n.2365/1997).
La tutela accordata dal legislatore in attuazione dei principi
costituzionali realizza la libertà di scelta della maternità e non
solo il principio di parità fra i sessi in quanto, se la donna fosse
discriminata per il suo stato, sarebbe indotta al rifiuto della
maternità o ad altri comportamenti conseguenziali.
Pertanto, nessun
ostacolo può frapporsi all’assunzione della lavoratrice in stato di
gravidanza e il principio è operativo con riferimento a tutte le
situazioni che possono in concreto verificarsi:
1.nel caso in cui al
momento dell’assunzione non esista alcun divieto legale;
2.nel caso in cui la
lavoratrice si trovi in periodo di astensione obbligatoria ex art. 4
L.1204/71;
3.nel caso in cui il
rapporto da costituire riguardi lo svolgimento di mansioni che si
rivelino incompatibili fin dall’inizio con la gestazione ai sensi
degli artt. 3 e 5 della L.1204/71 e dell’art. 5 del D.P.R. 25
novembre 1976, n.1026 (Sentenze Corte di Cassazione Sez. Lavoro n.
4064/91 e n.8971/95).
Rientrano nel concetto
di discriminazione diretta anche le forme di cosiddetta
discriminazione occulta che colpiscono tutti gli appartenenti ad un
sesso i quali vengono esclusi globalmente da alcuni benefici od
opportunità. A titolo di esempio si cita l’ ipotesi, individuata
dalla giurisprudenza, in cui il datore di lavoro rifiuti in modo
aprioristico qualsiasi candidatura femminile per l’accesso ad un
determinato posto di lavoro o a determinate mansioni senza alcun tipo
di giustificazione ( Pret. Pomigliano d’Arco 22 luglio 1989) o
quando si chiede un requisito che le donne non possiedono quale l’aver
svolto il servizio militare ( Cons. di Stato sez. VI 24 settembre 1983
n.686). L’ispettore del lavoro potrà considerare sospetta , in sede
d’ispezione, una situazione di pressoché totale assenza femminile
all’interno di una azienda qualora la tipologia di lavoro non
richieda di per sé tale esclusione.
Diversa è, poi, la
nozione di discriminazione indiretta. Essa si realizza con l’adozione
di criteri che solo apparentemente possono definirsi neutri ma che,
invece, hanno un effetto diverso nella scelta o nella valutazione dei
lavoratori dell’uno o dell’altro sesso, senza peraltro riguardare
requisiti essenziali allo svolgimento dell’attività lavorativa. In
tale modo si potranno riscontrare svantaggi proporzionalmente maggiori
per i lavoratori dell’uno o dell’altro sesso. Tale definizione,
che si ricollega ad indicazioni già emergenti nella direttiva
n.76/207/C.E.E. e in alcune pronunce della Corte di Giustizia (sent.
31 marzo 1981, causa 96/80 e sent.13 maggio 1986, causa 170/84), fa
riferimento a quelle misure che, apparentemente neutre, creano
disparità di fatto idonee a pregiudicare le opportunità di lavoro
delle donne, in quanto esse sono in grado di soddisfare i requisiti
richiesti in numero minore degli uomini.
I concetti di
discriminazione diretta e indiretta introdotti con la legge n.903/77,
trovano una nuova collocazione nell’art.4, punto n.1 della legge 10
aprile 1991 n.125 come modificato dall’art.8 del D.Lgs.vo 23 maggio
2000 n.196. Esso specifica che costituisce discriminazione "
qualsiasi atto, patto o comportamento che produca un effetto
pregiudizievole discriminando anche in via indiretta le lavoratrici o
i lavoratori in ragione del loro sesso" e ancora, al punto n.2
" costituisce discriminazione indiretta ogni trattamento
pregiudizievole conseguente all’adozione di criteri che svantaggino
in modo proporzionalmente maggiore i lavoratori dell’uno o dell’altro
sesso e riguardino requisiti non essenziali allo svolgimento dell’attività
lavorativa". Il legislatore, quindi , di recente ha sentito l’esigenza
di rielaborare la materia al fine di porre sempre maggiori garanzie a
tutela della donna lavoratrice, tant’è che l’art.8 del citato
decreto n.196/2000, al punto n.3, impone ai datori di lavoro pubblici
e privati di specificare, con formule apposite, nei bandi di concorso
o nelle diverse forme di selezione, che la prestazione di lavoro viene
richiesta indifferentemente all’uno o all’altro sesso salvo i casi
in cui il sesso sia requisito essenziale per la natura del lavoro o
della prestazione.
3.2. Ambiti di
discriminazione previsti dalle leggi vigenti.
3.2.1.
Retribuzione.
L’art.2 della legge
n.903/77 riprendendo quanto già sancito dall’art.37 della
Costituzione, sancisce, per la lavoratrice, la stessa retribuzione del
lavoratore in caso di prestazioni uguali o di pari valore.
Sebbene esista una norma di rango costituzionale che sancisca il
principio della parità di trattamento economico a parità di
prestazioni, l’ispettore del lavoro, nel corso della propria
indagine, potrà trovarsi ad esaminare accordi collettivi (anche
aziendali) che contengano delle limitazioni relative al trattamento
giuridico ed economico, a sfavore del personale femminile, che non
trovino giustificazione all’interno della realtà aziendale
esaminata. In tali casi dovrà procedere comunicando il fatto alla
Consigliera di Parità competente territorialmente per gli ulteriori
accertamenti.
Si deve sottolineare,
preliminarmente, che la giurisprudenza della Corte di Cassazione ha
per lungo tempo escluso l’esistenza di un principio di parità
retributiva nel nostro ordinamento. Il cambiamento di indirizzo fu
iniziato nel 1982 (Cass.n.5773 del 3 novembre 1982) allorché si
ritenne discriminatorio il mancato riconoscimento alle lavoratrici, a
parità di mansioni, di benefici retributivi concessi agli uomini; in
tale occasione fu dichiarato nullo il provvedimento che, riconoscendo
la stessa qualifica a lavoratori di sesso diverso che abbiano svolto
le stesse mansioni, per le lavoratrici operi una limitazione del
trattamento giuridico ed economico senza alcuna razionale
giustificazione. Si dovrà arrivare al 1989, tuttavia, (Corte
Cost.n.103 del 9 marzo), per trovare definitivamente negata la
legittimità costituzionale degli artt.2086,2087,2095,2099 e 2103
Cod.Civ. nella parte in cui consentono all’imprenditore, a parità
di mansioni, di realizzare diversi livelli o categorie generali di
inquadramento; veniva, altresì, limitato in modo sostanziale, lo jus
variandi del datore di lavoro da una serie di norme e principi :
-
ex art.2103 del
Cod.Civ. (art.13 Statuto dei lavoratori) il datore di lavoro deve
adibire il lavoratore alle mansioni per le quali lo ha assunto,
ovvero a mansioni equivalenti (in tal caso senza diminuzione di
compenso), qualora lo adibisca a mansioni superiori non
occasionalmente, deve attribuirgli la relativa qualifica;
- il contratto collettivo è una
regolamentazione, che, in una data situazione di mercato,
rappresenta il punto d’incontro, di contemperamento e di
coordinamento dei confliggenti interessi dei lavoratori e degli
imprenditori;
- anche i contratti collettivi devono
rispettare i precetti costituzionali (artt.35,3,37 Cost.) ed i
principi di non discriminazione che sono trasfusi negli artt.15 e
16 dello Statuto dei lavoratori.
A tale proposito, si fa
presente che sebbene esistano norme- anche di rango costituzionale-
che sanciscano la parità di trattamento economico a parità di
prestazioni, l’ispettore del lavoro, nel corso della propria
indagine, potrà, talora, trovarsi ad esaminare accordi collettivi
(anche aziendali) che contengano limitazioni relative al trattamento
giuridico ed economico, a sfavore del personale femminile, non
giustificate all’interno della realtà aziendale esaminata. Tali
situazioni, una volta riscontrate, dovranno essere oggetto degli
approfondimenti del caso.
- la dignità sociale del lavoratore
è tutelata contro discriminazioni che riguardano l’area dei
diritti di libertà e l’attività sindacale, ma anche l’area
dei diritti di libertà finalizzati allo sviluppo della
personalità morale e civile; la dignità è intesa in senso
assoluto e relativo;
- notevolmente limitato è lo jus
variandi e in virtù del precetto costituzionale di cui all’art.41,
il potere d’iniziativa dell’imprenditore non può esprimersi
in termini di pura discrezionalità o addirittura di arbitrio, ma
deve essere sorretto da una causa coerente con i principi
fondamentali dell’ordinamento ed in ispecie non può svolgersi
in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno
alla sicurezza ed alla dignità umana.
3.2.2.
Risoluzione del rapporto di lavoro.
3.2.2.1. Licenziamento della
lavoratrice per matrimonio.
Il riferimento
normativo è dato dall’art.1 della legge n.7 del 1963 per il quale,
il licenziamento intimato nel periodo che va dalla pubblicazione di
matrimonio fino ad un anno dopo l’avvenuta celebrazione è nullo. In
tale caso spetterà al datore di lavoro provare che la causa di
licenziamento non è legata al matrimonio. Le uniche eccezioni sono
legate alla provata colpa grave della lavoratrice , alla cessazione
dell’attività dell’azienda, all’ultimazione delle prestazioni
per le quali la lavoratrice è stata assunta o alla risoluzione del
rapporto di lavoro per la scadenza del termine.
Si menzionano qui di
seguito alcune ipotesi giurisprudenziali :
- il licenziamento
intimato nel periodo compreso tra il giorno della richiesta delle
pubblicazioni e l’anno successivo alla celebrazione del matrimonio
è nullo indipendentemente dal fatto che la lavoratrice non abbia
comunicato al datore di lavoro il costituirsi del suo stato coniugale
( Pret. Salerno 26 luglio 1989 ).
- la legge sulla
nullità del licenziamento per matrimonio è da ritenersi estensibile
anche al lavoratore, non potendosi ammettere un trattamento
discriminatorio tra le due posizioni ( Pret. Salerno 26 luglio 1989).
- non è sufficiente l’allegazione
datoriale di una presunta ristrutturazione con chiusura di una
divisione dell’impresa, non integrando quest’ultima la cessazione
dell’attività dell’azienda. Il datore di lavoro deve comunque
dimostrare l’impossibilità di utilizzare la lavoratrice in un altro
reparto (Cass.9 febbraio 1990 n.941).
3.2.2.2.
Dimissioni della lavoratrice per matrimonio
Al fine di evitare che
il licenziamento per causa di matrimonio venga mascherato con le
dimissioni della lavoratrice, la legge n.7/63 considera nulle le
dimissioni presentate dalla lavoratrice nel periodo intercorrente tra
la richiesta delle pubblicazioni ed un anno dopo la celebrazione delle
nozze, a meno che la lavoratrice non le confermi entro un mese presso
la direzione provinciale del lavoro. A tale proposito si ricorda che
la conferma alla direzione provinciale del lavoro deve avvenire per
tutti gli atti unilaterali della lavoratrice che comunque siano
efficaci ai fini della risoluzione del rapporto di lavoro ( Cass. 30
ottobre 1981 n.5734 ).Circa le modalità di conferma delle dimissioni
si richiama la circolare n.45 del 31 marzo 1964 di questo Ministero in
base alla quale si possono individuare tre ipotesi:
1) il datore di lavoro,
ricevute le dimissioni della lavoratrice, le comunica alla direzione
provinciale del lavoro competente ;
2) la lavoratrice,
presentate le dimissioni al datore di lavoro, esprime la volontà di
confermarle scrivendo alla direzione del lavoro competente;
3) la lavoratrice, depositate le
dimissioni al datore di lavoro, si presenta alla direzione del lavoro
per confermarle di persona.
Si sottolinea che la
convalida o la comunicazione delle dimissioni alla competente
direzione provinciale non deve essere una atto meramente formale di
"ricezione" bensì deve concretamente portare ad indagare la
reale volontà della donna dimissionaria.
In sede di accertamento ispettivo, per le ipotesi di nullità di
licenziamento o di dimissioni, si dovrà accertare che il datore di
lavoro abbia corrisposto alla lavoratrice allontanata dal lavoro, la
retribuzione globale di fatto fino al giorno della riammissione in
servizio.
E’ opportuno
richiamare l’attenzione su una deprecabile prassi instaurata da
alcuni datori di lavoro, per cui all’atto dell’assunzione viene
fatto firmare alla neo lavoratrice un foglio in bianco ovvero una
lettera di dimissione ove sia stata lasciata in bianco la data e ciò
al fine precipuo di garantire l’allontanamento immediato della
lavoratrice qualora dia notizia delle proprie nozze (ovvero venga a
trovarsi in stato di gravidanza). L’ispettore del lavoro avrà cura,
nella propria ricerca, di prestare particolare attenzione alle
indicate situazioni al fine di reprimere tali comportamenti
denunziandoli, senza ritardo, all’Autorità Giudiziaria competente.
In particolare, l’indagine dovrà essere rivolta al riscontro di una
manifesta volontà da parte della lavoratrice di risolvere
unilateralmente il rapporto di lavoro e alla verifica che la stessa
non sia stata indotta in tal senso, direttamente o indirettamente, da
cause poste in essere dal datore di lavoro ( a titolo di esempio le
dimissioni potrebbero scaturire da forme di mobbing).
3.2.2.3.
Dimissioni della lavoratrice madre
Durante il periodo di
gravidanza e puerperio la lavoratrice è libera di dimettersi ma, ai
sensi dell’art.11 del D.P.R. n.1026/76 "Regolamento di
esecuzione della L.1204/71", la risoluzione del rapporto è
condizionata alla convalida dell’atto da parte del Servizio
Ispezione del Lavoro. Lo scopo della norma è quello di preservare la
lavoratrice da eventuali pressioni del datore di lavoro e di accertare
la volontarietà delle dimissioni nel periodo tutelato dal divieto di
licenziamento (Circolari della Dir. Gen. RR.LL. n.83/95, n.36/96,
n.164/97).
L’art. 18, comma 2, della legge n. 53/2000 ha sancito l’obbligo
della convalida della richiesta di dimissioni presentate dalla
lavoratrice o dal lavoratore durante il primo anno di vita del bambino
o nel primo anno di accoglienza del minore adottato o in affidamento.
Alla lavoratrice ed al lavoratore dimissionari spettano, ai sensi dell’art.
12 della L.1204/71, le indennità previste da disposizioni di legge e
contrattuali per il caso di licenziamento.
3.3. Lavoro
notturno.
Relativamente al lavoro
notturno delle donne, al fine di adeguare la normativa nazionale a
quanto stabilito dalla Corte di Giustizia della Comunità europea (
C.Giust.CE 4 dicembre 1997 C-207/96), il legislatore ha apportato
alcune modifiche alla normativa interna le quali riguardano,
attualmente, solo le donne lavoratrici in stato di gravidanza. Ai
sensi dell’ art.5 della legge n.903/77 e dall’art. 17 della legge
n.25 del 5 febbraio 1999, l’ ispettore del lavoro, in sede di
accertamento, dovrà verificare che una lavoratrice, (impiegata in
qualsivoglia settore), dal momento in cui viene accertato lo stato di
gravidanza fino ad un anno di età del bambino, non svolga attività
lavorativa dalle ore 24 alle ore 6. La stessa legge, peraltro, prevede
che l’eventuale adibizione, anche occasionale, al lavoro nell’intervallo
di tempo sopra indicato, è condizionata al consenso della lavoratrice
o del lavoratore nel caso in cui debba essere prestato:
- dalla lavoratrice madre di un figlio
di età inferiore a tre anni o, alternativamente, dal padre
convivente con la stessa;
- dalla lavoratrice o dal lavoratore
che sia l’unico genitore affidatario di un figlio convivente di
età inferiore a dodici anni;
- dalla lavoratrice o dal lavoratore
che abbia a proprio carico un soggetto disabile.
3.4. Azioni in
giudizio.
A fronte di una
presunta discriminazione la legge offre alla lavoratrice la
possibilità di agire in giudizio sia direttamente sia delegando la
Consigliera o il Consigliere di Parità per la tutela dei propri
diritti. Oltre all’azione in giudizio a carattere individuale
esperita ex art.4, comma 4, della legge n.125/91 come modificato dal
D.lgs.vo n.196/00, per la tutela di situazioni discriminatorie la
legge consente un’azione di tipo collettivo: "qualora le
Consigliere o i Consiglieri di parità regionali e, nei casi di
rilevanza nazionale, il Consigliere o la Consigliera nazionale,
rilevino l’esistenza di atti, patti o comportamenti discriminatori
diretti o indiretti di carattere collettivo" (art.4, comma 7,
legge n.125/91 modificato dall’art.8, comma 7, del D.lgs.vo n.196/00
).
L’art. 4 , comma 4,
citato statuisce che "chi intende agire in giudizio per la
dichiarazione delle discriminazioni di cui ai commi precedenti, deve
promuovere un tentativo di conciliazione stragiudiziale ai sensi dell’art.410
del c.p.c. o, rispettivamente, dell’art.69-bis del D.lgs.vo 3
febbraio 1993 n.29, anche tramite la Consigliera o il Consigliere di
Parità provinciale o regionale territorialmente competente".
Se tale tentativo di conciliazione non ha esito positivo, la
lavoratrice potrà esperire l’ordinaria azione giudiziaria.
Un ulteriore rimedio
per reprimere le discriminazioni in materia di accesso al lavoro e di
lavoro notturno, è previsto dall’art.15 della legge n.903/77. Si
tratta di un’azione speciale in base alla quale, su ricorso del
lavoratore o per sua delega alle organizzazioni sindacali," il
Pretore – rectius Giudice Unico – del luogo ove è avvenuto il
comportamento denunziato, in funzione di Giudice del lavoro, nei
giorni successivi, convocate le parti e assunte sommarie informazioni,
se ritenga sussistente la violazione, ordina all’autore del
comportamento denunziato… omissis…la rimozione del comportamento
illegittimo e la rimozione degli effetti".
E’ d’uopo
ricordare, infine, che il Consigliere di Parità ha facoltà di agire
in giudizio per conto della lavoratrice ovvero di intervenire nei
giudizi individuali promossi da quest’ultima.
Relativamente all’azione
collettiva, di cui al menzionato art.4, comma 7, modif. dal D.lgs.vo
n.196/00, il Consigliere o Consigliera di Parità, prima di promuovere
l’azione in giudizio ai sensi del successivo comma 8, possono"
chiedere all’autore della discriminazione di predisporre un piano di
rimozione delle discriminazioni accertate …omissis…sentite le
rappresentanze sindacali. Se il piano è considerato idoneo alla
rimozione, la Consigliera o il Consigliere di Parità promuove il
tentativo di conciliazione ed il relativo verbale , in copia
autenticata, acquista forza di titolo esecutivo…omissis…" .
Il comma 8, sancisce
altresì, nel caso in cui il Consigliere o la Consigliera non
ritengano di avvalersi della procedura di conciliazione, la facoltà
di proporre ricorso davanti al Giudice del Lavoro, il quale (comma 9)
accertata la discriminazione, avrà facoltà di predisporre un piano
di rimozione delle discriminazioni fissando i " criteri, anche
temporali, da osservarsi ai fini della definizione ed attuazione del
piano" . E’ prevista, poi, una procedura d’urgenza davanti al
Tribunale in funzione di Giudice del Lavoro ai sensi dei commi 10 e
11.
3.5. Sanzioni.
Fermo restando che a
sensi dell’art.19 della legge n.125/77 "sono abrogate tutte le
disposizioni legislative contrarie alla presente Legge e sono nulle le
disposizioni dei Contratti collettivi o individuali, dei regolamenti
interni delle imprese e degli statuti professionali in contrasto con
la stessa", nel caso di inadempienza a quanto stabilito dal
Giudice, il datore di lavoro è sanzionato penalmente con l’arresto
fino a 3 mesi o con l’ammenda fino a £.400.000 ( art.650 c.p. ).
La legge 9 dicembre
1977 n.903 all’art.16, comma 1,prevede, poi, per le discriminazioni
attuate relativamente all’ accesso al lavoro, alla parità
retributiva, alle qualifiche, alle mansioni e alla carriera, nonché
all’età del pensionamento la sanzione dell’ammenda da £. 200.000
a £. 1.000.000.
La violazione, poi,
delle norme relative al lavoro notturno delle donne in stato di
gravidanza, di cui all’art.5 della legge n.903/77,comma 1,come
modificato dall’art.17, comma 1, della legge n.25 del 5 febbraio
1999, sono sanzionate con l’arresto da 2 a 4 mesi o con l’ammenda
da £.1.000.000 a £.5.000.000, ai sensi dell’art. 16 della legge
n.903/77 come modificato dall’art.26, comma 49, del D.lgs.vo 19
settembre 1994 n.758 ( si veda per tale materia anche la circolare
n.86 del 6 dicembre2000 "Modifiche al sistema sanzionatorio in
tema di part-time, tutela della maternità e paternità, lavoro
notturno e lavoro minorile. Chiarimenti operativi").
Ai sensi dell’art.8,
comma 12, del D.lgs.vo n.126/00, inoltre, "ogni accertamento di
atti, patti, o comportamenti discriminatori, posti in essere da
soggetti ai quali siano stati accordati dei benefici ai sensi delle
vigenti leggi dello Stato, ovvero che abbiano stipulato contratti d’appalto
attinenti all’esecuzione di opere pubbliche, di servizi o
forniture"( per tali casi troveranno applicazione le circolari
n.26 del 21 aprile 2000 in tema di "Appalti d’opera pubblica.
Strumenti di tutela per i dipendenti dell’appaltatore e del
subappaltatore" e la n.8 del 12 gennaio 2001 su "Sicurezza
sociale nelle pubbliche forniture e negli appalti pubblici e privati
di servizi"), viene comunicato immediatamente dalla direzione
provinciale del lavoro territorialmente competente ai Ministri nelle
cui amministrazioni sia stata disposta la concessione del beneficio o
dell’appalto. Questi adottano le opportune determinazioni, ivi
compresa, se necessario, la revoca del beneficio e, nei casi più
gravi o nel caso di recidiva, possono decidere l’esclusione del
responsabile per un periodo di tempo fino a due anni da qualsiasi
ulteriore concessione di agevolazioni finanziarie o creditizie…".
Ad ogni buon fine si
rammenta che le disposizioni sopra richiamate non troveranno
applicazione qualora sia stata raggiunta la conciliazione.
4. Promozione e
assunzione di iniziative volte a realizzare la parità fra i sessi:
art.1 legge n.125 del 10 aprile 1991 modificato dall’ art.7 D.lgs.vo
n.196/00.
Al fine di garantire la
parità effettiva tra uomo e donna nei luoghi di lavoro, nonché
favorire l’occupazione femminile, è stata emanata nel 1991 la legge
n.125 denominata, per l’appunto, "Azioni positive per la
realizzazione della parità uomo-donna nel mondo del lavoro". Con
tale legge si prevedono misure apposite, dette azioni positive, poste
" al fine di rimuovere gli ostacoli che di fatto impediscono la
realizzazione di pari opportunità". L’art.1 della legge 125/91
modificato dall’art.7 del D.lgs.vo n.196/00 prevedendo le azioni
positive intende incoraggiare la partecipazione delle donne in ogni
settore e livello lavorativo e ciò:
- eliminando le disparità di cui le
donne sono oggetto nella formazione scolastica e professionale;
- favorendo la diversificazione delle
scelte professionali delle donne anche per quanto riguarda il
lavoro autonomo;
- superando condizioni, organizzazioni
e distribuzione del lavoro che producono effetti diversi a seconda
del sesso;
- favorendo il miglior contemperamento
fra le responsabilità familiari e professionali grazie anche ad
una migliore ripartizione fra i sessi.
Le azioni positive
possono essere effettuate su base volontaristica ai sensi dell’art.2,
comma 1, modif.dall’art.7 del D.lgs.vo n.196/00, e in tale caso i
progetti vengono ammessi, su richiesta, al rimborso totale o parziale
dei relativi oneri finanziari da parte del Ministero del Lavoro
oppure, se si tratta di azioni positive realizzate mediante la
formazione professionale, vengono finanziati dal Fondo sociale
europeo; ovvero su base autoritativa e ciò avviene regolarmente nel
pubblico impiego. Infatti ex art.2, comma 6, citato "entro un
anno dall’entrata in vigore della presente legge le amministrazioni
dello Stato, le Regioni, le Province, i Comuni e tutti gli Enti
pubblici non economici, nazionali, regionali e locali…omissis…
adottano piani di azioni positive tendenti ad assicurare, nel loro
ambito, la rimozione degli ostacoli che, di fatto, impediscono la
piena realizzazione di pari opportunità di lavoro e nel lavoro tra
uomini e donne".
5. Imposizione
alle imprese di determinati obblighi allo scopo di controllare il
rispetto delle disposizioni sulle pari opportunità : art.9 legge
125/91.
L’adozione di piani
di azioni positive risulta sollecitata dall’obbligo, ex art.9 della
legge n.125/91. Esso testualmente recita " le aziende pubbliche e
private con oltre cento dipendenti sono tenute a redigere un rapporto
ogni due anni sulla situazione del personale maschile e femminile in
ognuna delle professioni ed in relazione allo stato delle assunzioni,
della formazione, della formazione professionale, dei livelli, dei
passaggi di categoria o di qualifica, o di altri fenomeni di
mobilità, dell’intervento della Cassa integrazione Guadagni, dei
licenziamenti, dei prepensionamenti e pensionamenti, della
retribuzione effettivamente corrisposta.". Tale rapporto è
trasmesso alle r.s.a e al Consigliere regionale di Parità il quale
potrà agire in giudizio qualora ritenga che sussistano
discriminazioni di carattere collettivo". Si fa presente che nel
rapporto devono essere esaminati gli aspetti essenziali della gestione
del personale, trattando separatamente le informazioni per lavoratori
e lavoratrici. Ai sensi della circolare ministeriale del 6 aprile 1992
n.48, poi, si ricorda che nel computo dei 100 dipendenti deve essere
considerata tutta la forza lavoro a qualunque titolo occupata in
azienda, compresi gli apprendisti e i lavoratori assunti con Contratto
Formazione Lavoro.
In sede di ispezione,
sarà opportuno coadiuvare i Consiglieri/Consigliere di Parità,
verificando la mancata presentazione del rapporto di cui sopra e
diffidando le aziende ad ottemperare; in tale caso ne verrà data
notizia per conoscenza agli stessi Consiglieri/Consigliere .
6. Sanzioni.
6.1. Mancata
attuazione dei progetti di azioni positive.
Relativamente alle
azioni positive, si è detto che determinati soggetti individuati dall’art.2
della legge n.125/91, possono essere ammessi a benefici finanziari. Ai
sensi dell’art.10, comma 1, del D.lgs.vo n.196/00, " la mancata
attuazione del progetto comporta la decadenza dal beneficio e la
restituzione delle somme eventualmente già riscosse. In caso di
attuazione parziale, la decadenza opera limitatamente alla parte non
attuata…" A tale proposito si fa presente che gli uffici
saranno tenuti ad effettuare i relativi controlli anche in sede di
verifica amministrativo-contabile (in particolare nelle due fasi in
itinere ed ex post). In merito, si evidenzia che secondo il disposto
del citato art. 10,comma 1, del D.Lgs.vo 196/00, è in corso di
emanazione un decreto interministeriale che, nell’individuare una
competenza specifica in capo alle direzioni provinciali del lavoro
relativamente alle suddette verifiche, stabilisce le modalità di
presentazione, valutazione e finanziamento dei progetti di azione
positiva per la parità uomo-donna. Esso, indicando le modalità di
erogazione dei finanziamenti e delle procedure di verifica, prevede
(salvo emendamenti futuri) che il beneficiario dell’erogazione di
fondi, debba dare immediata notifica dell’avvio dell’iniziativa
alla direzione provinciale del lavoro competente ; inoltre, viene
specificato che l’erogazione della prima quota è subordinata all’esito
positivo di una verifica ispettiva (amministrativo- contabile) che
dovrà essere trasmessa, sempre a cura della direzione provinciale,
alla Segreteria tecnica del Comitato Nazionale di Parità. Tale
verifica ispettiva dovrà accertare la veridicità dei dati contenuti
nella domanda di finanziamento, nonché l’effettivo avvio entro due
mesi dall’autorizzazione e dovrà, altresì, essere effettuata entro
i 30 giorni successivi dalla notifica di cui sopra. La normativa
precisa che a conclusione di tutte le azioni programmate, prima dell’erogazione
a titolo di saldo dell’ultima percentuale della quota assegnata,
dovrà essere svolta, una ulteriore verifica amministrativo-contabile.
Si fa , infine, presente che il Comitato Nazionale di Parità, salve
le verifiche iniziali e finali di cui sopra, potrà in ogni momento
disporre ulteriori visite ispettive.
6.2. Violazione
dell’obbligo di trasmissione del rapporto.
Per ciò che concerne,
poi, l’obbligo di trasmissione del rapporto sulla situazione del
personale è previsto , sempre dall’art.9 della legge n.125/91, che
l’ispettorato regionale del lavoro- rectius direzione
regionale-S.I.L. , su segnalazione delle rappresentanze sindacali
aziendali o del Consigliere/ Consigliera regionale di Parità, inviti
le aziende a provvedere entro 60 giorni. Si ricorda, a tal proposito,
che tale diffida ha carattere obbligatorio e non già facoltativo,
pertanto costituisce condicio sine qua non (condizione di
procedibilità) per l’applicazione della sanzione. In riferimento a
quanto disciplinato con la precedente circolare n.119 del 15 ottobre
1992 avente per oggetto l’applicazione della legge n.125/91, nel
caso di inottemperanza alla diffida entro il termine dei 60 giorni ,
la direzione regionale del lavoro- S.I.L provvederà a segnalare il
fatto alla direzione provinciale del lavoro la quale avvierà le
procedure previste dalla legge n.689/1981 per l’irrogazione della
sanzione amministrativa consistente, ex art. 11, comma 1, della legge
n.758/94, nel pagamento di una somma compresa fra le £. 200.000 e
£.1.000.000. Nei casi più gravi, infine, come ad esempio il
persistente inadempimento dell’azienda, può essere disposta, da
parte degli organi erogatori e su segnalazione della direzione
regionale del lavoro, la sospensione per un anno dai benefici
contributivi eventualmente goduti dall’azienda. Sebbene la legge
attribuisca la competenza ad effettuare gli accertamenti di cui sopra
solo alla direzione regionale del lavoro, si ritiene, tuttavia, che
gli stessi possano essere effettuati anche dalle direzioni provinciali
nell’esercizio della propria funzione di vigilanza e di controllo.
7. Gli organi
amministrativi preposti alla gestione e al controllo della politica
delle pari opportunità.
La legge n.125/91
modificata dal D.lgs.vo n.196/00, si preoccupa di creare una struttura
amministrativa idonea a gestire e controllare la politica delle pari
opportunità.
Si tratta di organismi
composti da persone in possesso di documentate conoscenze di mercato
di lavoro, di normative specifiche sul lavoro femminile e di normative
sulla parità.
- Comitato nazionale per l’attuazione
dei principi di parità di trattamento ed uguaglianza di
opportunità tra lavoratori e lavoratrici.
Tale organismo, che è
istituito presso il Ministero del Lavoro al fine di "promuovere
la rimozione dei comportamenti discriminatori per sesso e di ogni
altro ostacolo che limiti di fatto l’uguaglianza delle donne nell’accesso
al lavoro e sul lavoro e nella progressione professionale e di
carriera " (art.6) ha compiti molto ampi: formula proposte,
informa e sensibilizza l’opinione pubblica, formula ogni anno un
programma-obiettivo nel quale vengono indicate le tipologie di
progetti di azioni positive, esprime pareri sui finanziamenti, elabora
codici di comportamento, verifica lo stato di applicazione della
legislazione, propone soluzioni alle controversie collettive, può
richiedere alle direzioni provinciali del lavoro di acquisire, presso
i luoghi di lavoro, informazioni sulla situazione occupazionale
maschile e femminile etc...
- Collegio istruttorio e segreteria
tecnica.
Si tratta di organi di
supporto per l’istruzione di atti relativi alla individuazione e
rimozione delle discriminazioni e per la redazione di pareri al
Comitato.
- Consiglieri e Consigliere di
Parità.
Il citato D.lgs.vo
n.196/00 ha apportato numerose modifiche alla materia delle pari
opportunità e, in particolare, ha dato alla figura del Consigliere di
Parità nuovi contorni al fine di valorizzarne e potenziarne il ruolo.
Si tratta dell’organismo più importante e la sua presenza ,
prevista sui tre livelli, (nazionale, regionale e provinciale)
garantisce un intervento immediato ove ve ne sia bisogno.
In base al disposto
dell’art.1 "essi svolgono funzioni di promozione e controllo
dell’attuazione dei principi di uguaglianza di opportunità e non
discriminazione per donne e uomini nel lavoro". Inoltre, "
nell’esercizio delle funzioni loro attribuite sono pubblici
ufficiali ed hanno l’obbligo di segnalazione all’autorità
giudiziaria per i reati di cui vengono a conoscenza.
Da quanto sopra, si
evince che il legislatore riconosce un ruolo delicato e di grande
rilievo alla figura del Consigliere di Parità in relazione alle
funzioni espletate, tant’è vero che, da un lato, per la loro nomina
la legge prevede il possesso di requisiti di specifica competenza ed
esperienza pluriennale, di documentate conoscenze di mercato del
lavoro e di normative specifiche sul lavoro femminile nonché di
normative sulla parità; dall’altro per l’esercizio delle loro
funzioni, ove si tratti di lavoratori dipendenti, è loro concesso di
assentarsi dal posto di lavoro fruendo di permessi speciali retribuiti
o non retribuiti.
L’ufficio del
Consigliere, che è ubicato rispettivamente presso le Regioni e presso
le Province, ovvero presso il Ministero del Lavoro per il Consigliere
Nazionale, è "funzionalmente autonomo, dotato di personale,
delle apparecchiature e delle strutture necessarie per lo svolgimento
dei loro compiti. Il personale, la strumentazione e le attrezzature
necessari sono assegnati dagli enti presso cui l’ufficio è ubicato
" (art.5).
L’art.3, inoltre,
chiarisce, poi, quali siano i principali compiti e funzioni dei
Consiglieri:
8. Rapporti fra
i Consiglieri di Parità e le Direzioni Regionali e Provinciali del
Lavoro.
In relazione al
rapporto di collaborazione di cui all’art.3 lett.f) del D. L.gs.vo
n.196/00 si coglie l’occasione per rammentare che le questioni
trattate dai Consiglieri di Parità richiedono spesso tempestività d’intervento,
pertanto gli uffici sono invitati a coadiuvare tali organismi al fine
di perseguire l’obiettivo comune della tutela del lavoratore. Si
richiama, a tale proposito, il punto n.4 dell’art.3 per il quale
"su richiesta delle Consigliere o dei Consiglieri di Parità, le
direzioni provinciali e regionali del lavoro territorialmente
competenti acquisiscono nei luoghi di lavoro informazioni sulla
situazione occupazionale maschile e femminile, in relazione allo stato
delle assunzioni, della formazione e promozione professionale, delle
retribuzioni, delle condizioni di lavoro, della cessazione del
rapporto di lavoro, ed ogni altro elemento utile, anche in base a
specifici criteri di rilevazione indicati nella richiesta".
Dal punto di vista più
prettamente operativo, si ricorda che le direzioni del lavoro sono
istituzionalmente preposte anche alla vigilanza e al controllo della
corretta applicazione della normativa sulle pari opportunità.
Pertanto, a fronte di una richiesta da parte dei Consiglieri di
Parità, gli uffici dovranno esaminare e affrontare le ipotesi di
discriminazione prospettate, con la dovuta urgenza inserendole nella
ordinaria programmazione e pianificando gli interventi a seguito di
una precisa comparazione fra i diversi interessi.
9. Indicazioni
operative.
Al fine di verificare
che sia stato rispettato il principio di non discriminazione diretta e
indiretta tra uomini e donne, sancito dalla normativa sopra
richiamata, gli ispettori dovranno accertare la composizione per
genere del personale dipendente dell’azienda. Per il raggiungimento
di tale scopo, sarà utile acquisire dati statistici distinti per
sesso in relazione all’accesso al lavoro, alle posizioni
professionali e retributive, alle progressioni di carriera, alle
cessazioni dei rapporti di lavoro e alle condizioni generali dell’ambiente
lavorativo. Gli eventuali squilibri nella posizione tra uomini e donne
dovranno essere segnalati alla Consigliera di Parità eventualmente
competente per le relative indagini.
In sede di verifica,
una attenta indagine dovrà, altresì, essere rivolta alle posizioni
professionali e delle condizioni ambientali nelle quali si trovano ad
operare le lavoratrici al rientro dei periodi di astensione
obbligatoria e/o facoltativa per maternità. Infatti, spesso esse
vengono adibite a mansioni diverse e, in alcuni casi inferiori,
rispetto a quelle precedentemente ricoperte o vengono private degli
strumenti idonei per lo svolgimento della loro attività o, ancora,
subiscono comportamenti vessatori. Ma non solo. Talora, al rientro in
seguito a maternità, potrà risultare sospetto anche un mutamento
dell’orario di lavoro: la lavoratrice potrà essere indotta al
part-time come alternativa al licenziamento ovvero potrà esserle
minacciato il licenziamento qualora richieda la fruizione di un orario
ridotto.
Qualora, infine, l’ispezione
scaturisca da una denuncia, particolare cura dovrà essere prestata
nell’acquisizione di tutti gli elementi utili (documentali o
informali ) a verificare l’esistenza della discriminazione stessa. L’ispettore
procederà ad acquisire le dichiarazioni della lavoratrice o del
gruppo di lavoratrici interessate, del datore di lavoro ovvero del
Comitato pari Opportunità aziendale (ove costituito) e di eventuali
testimoni provvedendo ad adottare, senza ritardo, tutti i
provvedimenti sanzionatori di cui si detto nei paragrafi precedenti.
Confidando nella piena
osservanza dei contenuti della presente circolare da parte di codeste
direzioni si rimane a disposizione per ogni eventuale chiarimento.
Si raccomanda,
altresì, la massima diffusione della direttiva a tutto il personale
ispettivo.
LA DIRETTRICE GENERALE
F.to Dr.ssa Paola CHIARI