Carlo PODDA – Relazione introduttiva
CD FP CGIL - Roma 3-4 ottobre 2006

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Il nostro Comitato Direttivo si svolge con una certa tempestività rispetto all’evoluzione della legge Finanziaria e rappresenta per tutti noi un’occasione importante per costruire e consolidare un orientamento sui contenuti della legge stessa, da far vivere nel dibattito con le lavoratrici ed i lavoratori, con i nostri iscritti. Questo, anche per evitare il rischio di essere travolti dalla campagna mediatica che in queste ore si sta incentrando sulla questione fiscale, e che parte da un punto vista che, ovviamente, differisce non poco dal nostro e che, in qualche caso, addirittura vi si contrappone.

Il nostro sforzo in questa fase deve essere quello di aiutare le persone che rappresentiamo a farsi una idea chiara e a costruirsi un giudizio sereno sui contenuti della Finanziaria, valutando sia gli aspetti positivi e innovativi che la contraddistinguono,sia quelli per noi giudichiamo invece meno positivi.

Questo deve essere frutto di una nostra attenta lettura dei testi, senza fare sconti , ma anche senza drammatizzare oltre misura questioni che tradizionalmente emergono nel momento in cui si scrive una legge Finanziaria.

Ora, bisognerà che noi, almeno come gruppo dirigente, teniamo conto che questa legge è, ovviamente, il frutto delle dinamiche politiche esistenti all’interno della coalizione di Governo, composta da forze contrassegnate da una ispirazione politica, da una visione della società e , quindi,da una rappresentanza di interessi, molto diverse e composite.
Del resto, basta pensare ai ministri. E’ del tutto evidente che la rappresentanza di interessi che esprime Mastella è diversa da quella, per esempio, di Ferrero piuttosto che di Damiano.

Questa dinamica esiste, non si può far finta che non abbia pesato nel raggiungimento di un equilibrio, ovviamente temporaneo, che ha consentito la definizione dei testi che sono sotto i nostri occhi e che continuerà a pesare nel corso del dibattito parlamentare e sui voti che, di volta in volta, verranno espressi sui singoli articoli. Dobbiamo sapere che questo costituisce un elemento con il quale dovremo costantemente fare i conti e che non faciliterà di certo il nostro lavoro, anzi, dal mio punto di vista, lo complicherà ulteriormente .

Io credo che sarebbe un errore da parte nostra sottovalutare le condizioni in cui versa la finanza pubblica, a partire dalla nota questione del rapporto deficit/Pil, che di fatto collocava il nostro Paese fuori dall’Europa e che, prima della manovrina di giugno e senza l’intervento correttivo della legge Finanziaria, veniva stimato al 4,6-4,8%.

E’ poi noto a tutti che l’avanzo primario è scomparso e che l’indebitamento del Paese è cresciuto.

Ora, il fatto che questi dati – a differenza di quanto è avvenuto durante il Governo di Silvio Berlusconi – siano stati drammatizzati dalla Commissione Europea e dai tecnici che vigilano sull’andamento della finanzia italiana, non toglie nulla alla necessità oggettiva, che noi condividiamo, di rispettare i vincoli.

Negli ultimi cinque anni abbiamo avuto un Governo del tutto estraneo alla costruzione dell’Europa, che ha svolto un ruolo nella politica internazionale del tutto schiacciato sulla politica dell’Amministrazione repubblicana degli Stati Uniti d’America.

Se è vero ciò che ci siamo sempre detti, e cioè che stare nell’Unione Europea ha messo i cittadini italiani e, in primo luogo, gli strati più deboli, quelli che noi rappresentiamo, al riparo dai rischi di “sindrome argentina”, lo è più che mai oggi. Non si può essere europeisti a giorni alterni, e cioè essere europeisti quando si parla del multilateralismo in politica estera, quando si riconosce lo straordinario lavoro fatto dal governo italiano sulla vicenda della missione in Libano, quando si apprezza il ritorno ad un ruolo centrale dell’Europa in tutta questa ultima fase, almeno per quel che riguarda le zone del Medio Oriente che tanti squilibri hanno determinato negli ultimi cinque anni nello scenario internazionale; occorre esserlo anche quando si guarda all’Europa nella sua dimensione sociale ed economica.

Aggiungo che io credo si debba riprendere con coraggio un cammino interrotto dal referendum francese sul Trattato per la Costituzione Europea. Da quel voto negativo è necessario trarne le conseguenze, dando di nuovo fiato alla ricostruzione del processo di unificazione dell’Europa, privilegiando le ragioni di un’Europa sociale un po’ meno attenta alle ragioni della moneta e della internazionalizzazione dell’economia.

Lo sforzo di risparmiare per rientrare in Europa non può essere considerato, dal nostro punto di vista, un atteggiamento regressivo. Il risparmio è la premessa per una crescita eco-compatibile che si faccia carico dei limiti dello sviluppo di cui tante volte in questi anni abbiamo parlato.

Una crescita che vada oltre il 2% in ragione d’anno, dal mio punto di vista non è affatto auspicabile, se vogliamo essere coerenti con ciò che abbiamo sostenuto nel corso di questi anni.

Contenere il deficit è, dunque, giusto, ed è giusto farlo a cominciare dal taglio agli sprechi.

Non possiamo, infatti, accettare la versione caricaturale che, a volte, si fa delle nostre posizioni, in particolare del lavoro pubblico, e cioè che noi saremmo meno attenti alle questioni del rigore rispetto ad altri. Anzi, io credo che il nostro sforzo debba essere quello di rivendicare questa scelta e di indicare gli strumenti con i quali portarla avanti. L’obiettivo può essere centrato se il contenimento della spesa si realizza tenendo conto che vi sono interessi confliggenti dentro la composizione della rappresentanza sociale e politica del Governo, che vi sono interessi confliggenti nella società italiana e che, dunque, non è indifferente scegliere uno strumento piuttosto che un altro.

In particolare ho avuto modo, anche nella discussione si è sviluppata nella nostra Confederazione, di contestare che sia una politica straordinariamente innovativa affrontare la questione del contenimento della spesa nel nostro Paese, intervenendo per quattro grandi capitoli che costituiscono la base della nostra spesa primaria: pubblico impiego, Enti locali, sanità e previdenza.

E’ del tutto evidente che se per risparmiare occorre equi-ripartire i tagli tra questi quattro grandi capitoli, non è necessario essere il professor Tommaso Padoa Schioppa, ma basta un modesto funzionario della Ragioneria Generale dello Stato per indicare una strada come questa.

Era ed è tuttora lecito, dal mio punto di vista, aspettarsi qualche sforzo di fantasia in più, qualche capacità di elaborazione in più e, soprattutto, una scelta dal sapore politico diverso.

Non è ancora chiaro nell’attuale stesura della Finanziaria, se prevale una logica pura e semplice di taglio della spesa, se si passa con la falce e si taglia tutto quello che c’è, quello che è giusto tagliare, ma anche quello che, forse, sarebbe meno giusto tagliare, oppure se si mette in campo una feroce politica di lotta agli sprechi. Ciò che ci pare positivo è che l’aumento delle entrate, la lotta all’evasione, insieme ad una manovra fiscale - che è la parte più convincente della Finanziaria – rimettono in campo, finalmente, un’idea della redistribuzione del reddito nel nostro Paese che va incontro a quelle ragioni dell’equità che abbiamo più volte richiamato. Così come giudichiamo positivo che sia stata accolta una richiesta, più volte avanzata da noi e dalla Confederazione, di ricostruire un meccanismo di programmazione, monitoraggio, governo e controllo delle spese per l’acquisizione di beni e servizi, almeno per le Amministrazioni centrali.

Lo dico perché questa partita vale contabilmente, dentro le leggi di spesa del nostro Paese, ben 7 miliardi di euro e se davvero questo meccanismo dovesse essere rimesso in moto e cominciare a funzionare, si possono drenare risorse consistenti per la lotta agli sprechi.

Tuttavia, insieme a tutto ciò,dentro la legge Finanziaria e il decreto fiscale, vivono atti assolutamente contraddittori. Mentre si propone, giustamente, di diminuire del 10% le posizioni dirigenziali, nello stesso tempo il ministero dei Beni Culturali bandisce un concorso per dirigenti, riservando il 50% dei posti per la stabilizzazione di quei dirigenti ai quali è stato affidato privatamente un incarico in base al 6° comma dell’articolo 19 del decreto 165.

Così come – e mi spiace citare un ministro, la cui opera abbiamo apprezzato tante volte, compresa questa Finanziaria – il viceministro Visco non può, da una parte, affermare che intende ridurre le consulenze e dimezzare la spesa per la Scuola superiore dell’economia e delle Finanze, e dall’altra proporsi di utilizzare il 50% delle risorse che si liberano per le consulenze.

Per questo insisto sul fatto che non è ancora chiara quale sia la strada presa attualmente, se prevalga la logica dei tagli oppure quella virtuosa del risparmio, alla quale anche noi diamo la nostra convinta adesione.

Nel frattempo è stata messa in campo la “balla” sul ceto medio. Come ci ha recentemente segnalato l’IRES, i 2/3 delle persone hanno una pensione o un salario sotto 1.200,00 Euro al mese; Vincenzo Di Biasi,sulla base di dati dell’ARAN e della Ragioneria, ha rielaborato una tabella, che è stata considerata convincente anche dal ministero dell’Economia, che stima che l’84,37% delle persone che rappresentiamo è sotto i 27 mila Euro, ed il 50,46% è sotto i 25 mila Euro, che rappresentano la grandezza sulla quale normalmente stimiamo i nostri aumenti contrattuali.

Per questo io penso che il primo giudizio vada speso con grande forza nei confronti della manovra fiscale, riconoscendo che finalmente è stato cancellato il secondo modulo della riforma Tremonti e la sua odiosa teoria dello “sgocciolamento”; cioè la teoria per la quale aumentando i consumi dei più ricchi, qualche cosa poi sgocciola anche a livello inferiore.

Quindi, noi dovremmo prendere le gocce che tracimano dal lusso dei piani superiori e contribuire, così, a far crescere il livello dei nostri consumi. Per fortuna, l’andamento dell’economia e la curva dei consumi si sono incaricati di dimostrare che le cose non stanno tuttora così.E questo sarà bene che lo ricordino anche quelli che ci governano ora, perché la ripresa inaspettata del Pil e del gettito delle entrate, che sono andate molto oltre quanto era stato preventivato dal Dpef, non hanno comportato la risalita della curva dei consumi interni che, anzi, è in calo come prima delle elezioni.

Più complesso è il discorso che riguarda specificamente noi. Il giudizio complessivamente positivo che noi diamo nasce dal fatto che c’è una scelta generale di redistribuzione del reddito nella società.

Si poteva, forse, fare di più? Io penso di sì, penso che sulla rendita si poteva fare più, così come sulla patrimoniale. In questo modo si sarebbe dato il segnale di un intervento che non riguardava solo il lavoro dipendente ed autonomo, di una grande redistribuzione solo all’interno del lavoro, prestando in questo caso il fianco a qualche critica che si è sentita. Tuttavia, bisogna riconoscere che è la prima volta, da molti anni a questa parte, che si prova ad invertire la tendenza.

La verità è che in passato si è tolto a chi aveva di meno per dare a chi aveva di più, se sono vere tutte le elaborazioni sul primo e secondo modulo della riforma Tremonti; se sono veri gli assegnini da 1 euro, frutto del guadagno realizzato dal lavoro dipendente con l’ultima riforma fiscale, che mi hanno rimandato affinché li restituissimo al Governo. Questo vale per la gran parte delle persone che noi rappresentiamo, perché ci sono anche quelli che qualche cosa hanno guadagnato.

C’è, dunque, il mantenimento di un impegno serio preso durante la campagna elettorale, a gran voce richiesto e reclamato anche da noi.

Richiamerò spesso il dato della campagna elettorale e del programma dell’Unione perché il problema del nostro rapporto con questo Governo non può essere risolto con la classica coppia dicotomica amico/nemico; c’è però un punto che riguarda le persone che noi rappresentiamo e, tra queste, tutte quelle che hanno votato per questo Governo, affidandogli un mandato. E’ chiaro che nel rapporto tra elettore ed eletto, il mandato che viene conferito rappresenta la base di una qualsiasi democrazia; un Governo che si appresta ad esercitare un mandato diverso da quello che ha ricevuto, è un Governo che mette in discussione in radice il nucleo della democrazia rappresentativa.

Questo è il punto per me fondamentale, e non quello di richiamare il Governo ad un comportamento “amico” nei nostri confronti. Il governo deve essere innazitutto fedele al mandato che ha chiesto e che ha ottenuto, e poiché tante persone tra quelle che noi rappresentiamo – secondo gli studiosi dei flussi elettorali, 2/3 dei pubblici dipendenti, una percentuale che cresce tra gli insegnanati, ha votato per il Governo dell’Unione, variamente inteso – occorre che questo Governo sia fedele a ciò che ha promesso e noi saremo tra quelli che glielo ricorderanno in tutti i modi in cui è necessario, possibile e consentito ad un sindacato.

Per questo io penso che il discorso che ci riguarda direttamente sia un po’ più complicato. La prima questione riguarda i contratti nazionali di lavoro.

Abbiamo riconquistato il contratto nazionale di lavoro il 28 di settembre, perché il 27 di settembre il contratto nazionale del lavoro pubblico non c’era, in quanto il Governo, a quella data, considerava ancora scontato che le risorse a disposizione fossero pari ai 300 milioni circa già stanziati dal Governo Berlusconi, a cui si sarebbero aggiunti 800 milioni, per un totale di un miliardo e 100 milioni, il che avrebbe comportato un incremento dei salari delle lavoratrici e dei lavoratori pubblici di circa 20 euro medi pro-capite. Dico con buona approssimazione alla realtà che solo 48 ore prima del varo della legge Finanziaria il Governo ha scoperto, grazie all’iniziativa delle organizzazioni sindacali, in particolare della nostra Confederazione, di Paolo Nerozzi e di Guglielmo Epifani e, per quel poco che abbiamo potuto fare, anche grazie a noi, che il tema dei contratti nazionali del pubblico impiego non poteva essere eluso.

A quel punto ed in quelle ore si è aperta una fattiva ed effettiva discussione su come questo tema poteva essere affrontato. Come? Innanzitutto trovando le risorse pari – secondo alcune stime addirittura un po’ più “abbondanti” delle nostre richieste - a quelle che noi avevamo individuato, che tenevano conto dell’inflazione programmata stabilita dallo stesso Governo per il 2006-2007, più un recupero dello 0,5% per il biennio precedente per lo scarto tra inflazione reale e programmata, più una quota per la contrattazione integrativa.

Ma è giusto che sia così, perché questo avviene mantenendo formalmente il biennio – e, io aggiungo, anche sostanzialmente dal punto di vista delle risorse che vengono recuperate – e conferendo al 31 dicembre del 2007 l’intero ammontare del rinnovo contrattuale con decorrenza, però, gennaio 2007, cioè con decorrenza retroattiva. Quindi,non solo la decorrenza è fatta salva, ma non si ripeterà la questione degli scaglionamenti, né quella, odiosa, dei trascinamenti che abbiamo impiegato ben tre cicli contrattuali per risolverla: dal primo Protocollo Ciampi del 1994 fino al biennio 2000-2001, quando riuscimmo ad allineare il calendario sindacale e contrattuale con quello reale, stabilendo cioè le decorrenze gennaio/gennaio.

E’ un risultato importante per il contesto dentro al quale è maturato: importante per l’entità delle risorse che mette a disposizione per i contratti pubblici che sono, grosso modo, i 3,4/3,5 dei 33,5 miliardi della manovra della Finanziaria. Quindi, un risultato da non sottovalutare, considerate le condizioni generali di contesto in cui questa discussione è avvenuta, il livello di confronto con il Governo e il fatto che non tutti all’interno della delegazione sindacale hanno sostenuto con la stessa forza lo stesso orientamento. Non parlo delle categorie, ovviamente, ma delle Confederazioni, all’interno delle quali si è manifestato qualche problema unitario.

Si tratta di un giudizio positivo determinato anche dalla forza con cui sono state avanzate queste richieste, fino al punto che la CGIL ha minacciato di cambiare il segno del giudizio complessivo sull’intera manovra se questo problema non fosse stato affrontato e risolto. Questo ha senza alcun dubbio aiutato tutti a mettersi al lavoro ed a trovare una soluzione.

Il fatto di essere riusciti a passare per la cruna dell’ago, portando a casa un risultato che sarà certamente complicato da spiegare, ma se riusciremo a far comprendere in quale quadro, in quale modo questa soluzione è stata costruita e qual è il risultato finale dal punto di vista delle quantità, io penso che le lavoratrici e i lavoratori saranno in grado di apprezzare il lavoro fatto.

Dove sta, secondo me, il punto che davvero non va? Nell’approccio complessivo che il Governo mostra di avere nei confronti del lavoro pubblico, un approccio orientato alla riduzione, al taglio dell’occupazione, degli organici, dei finanziamenti.

Ma se si mette un monetarista a fare il ministro dell’Economia, alla fine i risultati non possono che essere questi.

Da questo punto di vista, altro che valorizzazione del pubblico, altro che “pubblico è meglio”, altro che “intervento del pubblico in economia”. Del resto la stessa vicenda Telecom, con tutto quello che ha scatenato, con gli insulti che si è preso un sociologo come De Rita, per aver semplicemente detto che nello sviluppo ordinato di una società e delle sue dinamiche economiche ci deve essere qualcuno che si candida a rappresentare un interesse collettivo e che quel qualcuno non può che essere lo Stato, e che, dunque, senza rimpiangere o riproporre carrozzoni come l’IRI, soprattutto nella sua ultima fase, si deve pur pensare che lo Stato abbia una modalità di intervento per governare l’economia, la dice lunga.

Del resto, sempre il ministro dell’Economia ha scritto in un articolo su “Repubblica” che lui sente come suo mandato il problema di ridurre il peso delle strutture nello Stato, nei servizi e nell’economia.

Questo, dunque, è il livello vero delle difficoltà. La stessa cosa capita con l’articolo 32 della legge Finanziaria che descrive come si ristrutturano i ministeri: entro 60 giorni bisogna passare ad una organizzazione su base regionale, se non lo si fa si fanno gli uffici territoriali di Governo ed entro 30 giorni se non li si fa, lo fa con atto sostitutivo la Presidenza del Consiglio.
Il sindacato dove sta in questa vicenda? Se si scorre l’articolo in questione si scopre che quando si parla di riallocazione e di esuberi, a quel punto il sindacato è chiamato a gestire le conseguenze - non il fenomeno - ma in maniera anche abbastanza sbrigativa.

Lo stesso discorso vale a proposito dell’idea di ridurre il back office, cioè tutto ciò che sta nelle funzioni di supporto, che deve essere rapidamente ridotto al 15% del totale. Sarà interessante vedere come farà la Guardia di Finanza, che ha il 75% del personale che fa back office. Poiché si dice che questa nuova formula vale anche per le forze armate, per i corpi di polizia, sarà altrettanto interessante vedere come sarà applicata.

Tra l’altro, questo articolo è anche molto ambiguo perché, a un certo punto, parla della necessità di fare i piani di riallocazione del personale. Se i piani di riallocazione del personale servissero a utilizzare più gente nel front office, sarebbe una cosa che vale la pena di affrontare ; se invece non si chiarisce questo punto e i piani di riallocazione vogliono dire processi di mobilità generale, io dico che il problema è diverso. E mentre si dice questo,vengono rimessi in vita i Provveditorati su base provinciale; anzi, il ministro Fioroni nel suo disegno gli affida compiti, strutture ed importanza che i Provveditorati non hanno mai avuto. Quindi, da una parte si afferma che lo Stato si riorganizza su base regionale, dall’altra un singolo ministero procede in maniera del tutto difforme dal disegno generale.

Ci sono poi due titoli specifici, uno sul ministero dell’Economia ed un’altro sul ministero dell’Interno che sostanzialmente sono costruiti nello stesso modo: bisogna ridurre non più a 30, come si era detto all’inizio, ma a 50 le strutture territoriali del ministero dell’Economia, anche in questo caso con problemi non semplici di riallocazione del personale. Era stato stimato che con 30 sedi avremmo avuto circa 6000 esuberi, facendo una semplice proporzione con 50 se ne avranno un po’ meno della metà, intorno a 3000, che noi dovremmo essere chiamati a gestire.

Sugli Enti locali e sulla sanità la situazione è addirittura peggiore, nel senso che la manovra ha un impianto sufficientemente centralista e scarica una gran parte dei costi su questo sistema.
Del resto, abbiamo tutti letto le posizioni espresse dal Presidente dell’ANCI, le proteste delle Associazioni dei Comuni e delle Province nei confronti della manovra; in ogni caso per quanto riguarda noi, si propone ai Comuni di stare sotto un tetto di spesa e per poter stare sotto quel tetto di spesa, di avvalersi delle norme che riguardano o la riorganizzazione dei ministeri - e viene citato esplicitamente l’articolo 32 - oppure - facendo riferimento al 57 – la riduzione del personale. Ma anche in questo caso dobbiamo essere precisi nel nostro giudizio , perché veniamo da una situazione di totale blocco del turn over.

Questa situazione fa sì che le nostre difficoltà siano ancora maggiori. In realtà noi avremmo bisogno di uno sblocco reale di questo sistema, perché in taluni servizi e settori ha ulteriormente appesantito le carenze occupazionali.

Qual è la proposta avanzata? Sostanzialmente che si prenda un lavoratore ogni cinque che vanno in pensione, privilegiando i precari.

Ora, gli uffici dell’INPDAP stimano, nel 2007, un aumento non esponenziale ma proporzionale rispetto al 2006, perché già nel 2006 c’è stato un picco, dovuto ai grandi annunci sulla riforma del sistema pensionistico, grosso modo di 105 mila pensionamenti nell’intero settore pubblico.

Se le sostituzioni avvenissero nell’arco dello stesso anno in ragione di una su cinque, noi avremmo una diminuzione dell’occupazione nel settore pari ad 80 mila unità, un conto banalissimo.

La norma è scritta in maniera ancora più stringente per quello che riguarda il servizio sanitario nazionale, dove si fa riferimento alla necessità di riportare la spesa a quella del 2004. Vale la pena di ricordare che si tratta della stessa norma prevista dalla Finanziaria Berlusconi/Tremonti, ma leggermente peggiorata, perché invece della riduzione dell’1% sul 2004, si chiede una riduzione dell’1,4%. Inoltre, per la contrattazione integrativa si aggiunge una formula che prevede per i compagni della sanità, ma che vale anche per tutti gli altri, perché il sistema del fondo unico è uguale in tutta la contrattazione integrativa, che in caso di cessazioni del rapporto di lavoro, la quota di produttività del lavoratore che se ne va e che prima tornava nel fondo e veniva ridistribuita tra quelli che restavano, non torna più nel fondo, se ne va insieme a quel lavoratore, cioè in realtà va all’azienda, con un effetto – tutto sommato – abbastanza deprimente sulle eventuali ipotesi di incremento di produttività. E’ infatti evidente che a quel punto non ci sono più soldi da dare a chi, in numero ridotto rispetto a prima, fa lo stesso lavoro. In realtà si porrebbe un problema serio per lo svolgimento di talune funzioni dentro al sistema perché, come sappiamo, se si diminuiscono le quantità – cosa che l’anno scorso non è successa perché abbiamo avuto la forza di non far applicare la norma di Berlusconi, anche perché è arrivata in concomitanza con un incremento dei contratti – vengono messe in discussione molte delle indennità che vengono utilizzate nell’organizzazione del lavoro quotidiano nelle nostre aziende.

E’ il segno di una manovra un po’ troppo centralista che scarica, dal punto di vista del contenimento dei costi e dei tagli, gran parte del peso sulle strutture degli Enti locali e del servizio sanitario nazionale.

E’ una ipotesi che noi contestiamo, come contestiamo la scelta dei tickets che consideriamo pesante, in particolare per quello che riguarda il ticket sulla ricetta.

Come sappiamo il ticket sul pronto soccorso ha dato sempre risultati assai discutibili perché nella gran parte dei casi sono gli addetti che lo rendono nullo, in quanto si crea uno strano rapporto di solidarietà tra l’addetto ed il paziente per cui un codice bianco viene trasformato in automatico in codice giallo. E a questo proposito ricordo come Ghigo, all’epoca Presidente della Regione Piemonte, aderì con grande rapidità alla nostra proposta di abolire quel ticket perché da un conto che i suoi tecnici avevano fatto, risultava che il rapporto tra ciò che guadagnavi e ciò che spendevi per tenere in piedi quel sistema era assolutamente sfavorevole.
Una misura inefficace, un po’ odiosa è quella sui certificati, totalmente sbagliata da questo punto di vista, semplicemente perché è foriera di una serie di inasprimenti che cadranno sulle spalle dei cittadini perché la conseguenza reale di tutto questo è una sola: aumenteranno le esternalizzazioni e le privatizzazioni. E’ infatti del tutto evidente che i Comuni che non vorranno ridurre la gamma dei servizi per questa via, li appalteranno , li daranno alle cooperative, o costituiranno apposite società – come già in gran parte d’Italia avviene – magari utilizzando la leva della stabilizzazione del precariato.

Se io creo una società privata, invece che fare i concorsi, o andare a verificare se quel lavoratore ha fatto la prova selettiva, utilizzo il contratto di natura privata, lo stabilizzo e non se ne parla più.
A quel punto diventa una bella responsabilità per ciascuno di noi stabilire se si può dire di no ad una cosa del genere e consigliare a quel lavoratore precario che è meglio seguire la strada della stabilizzazione nel lavoro pubblico.

A me pare che sostanzialmente questa impostazione sia frutto di una logica che va in direzione di una riduzione delle strutture pubbliche, del loro peso nella società, quindi molto distante dalla nostra impostazione di valorizzazione del lavoro pubblico.

Mentre diciamo tutto questo, alla domanda di quanti siano i precari che verranno assunti con questa Finanziaria, nessuno di noi è in grado di dare una risposta verosimile se non per quelli delle Amministrazioni centrali che sono gli stessi della norma Baccini, sia pure riformulata in modo diverso, più i mille contratti di formazione lavoro, che riguardano in particolare alcuni Enti pubblici. E qui ci fermiamo.


Questo è un problema serio tanto che abbiamo deciso di prendere in carico questa vicenda e stiamo cercando ancora in queste ore di proporre alla CISL ed alla UIL almeno uno sciopero dei precari con una manifestazione nazionale a Roma, insieme a quelli della scuola, dell’università e della ricerca per riportare all’attenzione del dibattito parlamentare sulla legge Finanziaria questa vicenda.

Che cosa dobbiamo fare noi a questo punto? Ovviamente incassare ciò che consideriamo un risultato positivo, aprendo però contestualmente – come peraltro stiamo cercando da giugno - una vertenza con il Governo sulla riorganizzazione del lavoro, quello che abbiamo chiamato con uno slogan “un patto per il lavoro pubblico”.

I problemi di riefficientamento, di rimessa in moto della macchina della riforma esistono, perché non sono trascorsi invano cinque anni di governo Berlusconi, che ha bloccato qualsiasi ipotesi di riforma, ha bloccato quelle che erano in corso, ha invertito la direzione dei processi che si erano messi in moto. La riforma della Pubblica Amministrazione è come un motore acceso; se tu lo fermi, e lo fermi per molto tempo, è complicato rimetterlo in moto e il motore non è più nelle stesse condizioni.

Noi abbiamo fatto – e ne dobbiamo essere consapevoli - dei passi indietro da questo punto di vista nel lavoro pubblico; è nostro interesse rimettere in moto questo processo.

E’ per questo che da giugno abbiamo cercato di cambiare segno al dibattito sui fannulloni, chiedendo di riaprire questa discussione, e questo è esattamente quello che dobbiamo fare in queste ore: chiedere al Governo che si apra una discussione sulle cose che non condividiamo. Intanto, vogliamo discutere su come gestire le risorse per i contratti, perché se non si fa una modifica dell’ordinamento contrattuale, cioè su come rendere esigibili i nostri contratti, non potremo fare un accordo prima di gennaio del 2008; invece noi abbiamo assolutamente bisogno che gli accordi vengano fatti subito.
E’del tutto evidente che per il biennio 2008-2009 non c’è un euro perché le risorse che indicate dalla Finanziaria si riferiscono al biennio 2006-2007.

Se noi, però, quel biennio non lo abbiamo chiuso prima che inizi la discussione sulla prossima legge Finanziaria è del tutto evidente che lo slittamento che abbiamo cercato in tutti i modi di evitare, sarà nei fatti.

Noi, quindi, abbiamo bisogno di sottoscrivere i contratti nei primi mesi del 2007 e per farlo è necessario che venga modificata la normativa che li rende esigibili. Abbiamo bisogno di dare stabilità con un protocollo a quelle cifre ed alla loro distribuzione.

Occorrerà che con quel protocollo si fissino i cardini,o almeno i titoli, della nostra idea di riorganizzazione del lavoro, quello che abbiamo chiamato, appunto, “il patto per il lavoro pubblico”, sia riguardo ai problemi della produttività, dell’efficienza, della contrattazione integrativa, al cui blocco abbiamo resistito con successo, ma alla cui riqualificazione e finalizzazione non possiamo e non vogliamo sottrarci,perché abbiamo bisogno - per dimostrare che il nostro è un lavoro che serve ai cittadini – di utilizzare questo strumento per fare azioni che migliorino la qualità dei servizi.
Senza andare tanto lontano, dobbiamo fare un po’ di accordi , decidendo già nel contratto nazionale di destinare alcune somme , ad esempio, in sanità, alla riduzione delle liste di attesa, e negli altri servizi, quelli erogati dagli Enti locali, ad un allargamento, prima di tutto quantitativo ma anche qualitativo, della possibilità di accesso.

Sono cose che non si sono fatte non per nostra volontà, ma perché i dirigenti non ce le hanno richieste e perché con CISL ed UIL non siamo riusciti a metterci d’accordo, trovandoci spesso in solitudine.
Queste cose vanno chiarite e di questa nostra discussione io credo si possa trovare traccia nella costruzione di questo accordo, che dovremo sottoporre all’attenzione ed alla validazione dei lavoratori, quando andremo a spiegare loro quello che stiamo facendo, e sulla base di quale mandato lo stiamo facendo, per registrare il loro consenso o - ma mi auguro, come tutti voi, di no – il loro dissenso.

Per questo abbiamo bisogno - oltre all’incontro con il Governo sul protocollo per il contratto - di incontrare, sempre insieme al Governo, anche una rappresentanza istituzionale delle Autonomie locali e delle Regioni. Questo, perché è evidente che questa vicenda non la possiamo risolvere con uno solo di questi interlocutori. Un po’ diverso è il discorso sulle Regioni, perché - onestà vuole che lo si dica – la loro responsabilità nella vicenda della sanità è un po’ più grande di quanto non sia quella degli Enti locali, perché la parte che riguarda il personale che sta dentro la legge Finanziaria è stata lungamente oggetto di confronto tra il ministro della Salute e la rappresentanza delle Regioni, in particolare con il Presidente della Conferenza Stato/Regioni, in parte anche anticipato nella discussione sul patto per la salute, dove queste intenzioni erano già state largamente rappresentate e rispetto alle quali noi avevamo espresso e continuiamo ad esprimere la nostra contrarietà ora che sono diventate decisioni.

Fatto questo abbiamo davanti a noi la manifestazione con 5000 delegati, quadri, RSU già convocata al Palazzo dei Congressi per il 23 di ottobre, per la riuscita della quale dobbiamo lavorare. Dovremo intanto fare una campagna di informazione dei nostri Comitati degli iscritti, delle lavoratrici e dei lavoratori, e so che in qualche Regione abbiamo già raggiunto accordi unitari in questo senso. Il 23 ottobre sarà l’occasione per assumere una valutazione sullo stato dell’arte del confronto: se questi tavoli sono stati attivati, che tipo di risultati hanno già raggiunto, oppure se si vanno profilando, oppure se questo non è avvenuto. Sulla base di questa valutazione, decideremo il da fare, utilizzando tutti gli strumenti a disposizione del sindacato quando ci sono risultati che non lo convincono, senza precipitare, senza confonderci con gli ordini professionali che in sanità faranno la manifestazione nazionale contro il Governo, contro le liberalizzazioni, contro il decreto Bersani. Sarà bene spiegare ai nostri compagni che stanno in quegli ordini che quella manifestazione e quel tipo di parole d’ordine sono incompatibile con le ragioni della nostra organizzazione, perché noi siamo sindacato generale.
C’è un momento in cui si può stare insieme, e finché è stato possibile lo abbiamo fatto, ma c’è un punto di non ritorno che è quello della corporativizzazione del sistema, che è esattamente il rischio che stiamo correndo in questa fase, in cui le persone – di fronte ad una posizione come quella che il governo ha assunto sul lavoro pubblico - hanno paura e magari pensano di potersi difendere rinchiudendosi in sé stessi, nel proprio piccolo gruppo, tutelando le ragioni corporative, magari da posizioni professionalmente di forza: penso ad alcune professioni specifiche in sanità, ma non solo.

Noi questo non lo possiamo fare; per questo è importante che si spieghi con chiarezza il nostro punto di vista e che si spieghi con altrettanta chiarezza che la CGIL è in grado di discernere, senza timidezze, ciò che va bene da ciò che va decisamente male, e il lavoro che siamo in grado e che abbiamo voglia di mettere in campo per correggere le cose che non ci convincono.

Abbiamo poi necessità di recuperare la nostra elaborazione politica, perché a novembre del 2007 votiamo e so che le persone ci misureranno per quello che noi avremo fatto in questo anno e per come avremo declinato l’autonomia della CGIL nella stagione del Governo dell’Ulivo.

Roma, 3-4 ottobre 2006