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COMITATO DIRETTIVO FP CGIL 20-21 DICEMBRE 2006
Relazione introduttiva di Carlo Podda, Segretario generale Fp Cgil

Questo nostro Comitato Direttivo si tiene proprio quando la Finanziaria è stata appena approvata dal Senato della Repubblica, in attesa che venga sottoposta al voto della Camera dei Deputati.

Quando fu presentata, noi dicemmo che non eravamo, in quel momento, in grado di dare un giudizio compiuto, perché immaginavamo che molte sarebbero state le modifiche durante percorso di discussione.

Molte di queste modifiche le chiedevamo noi e, quindi, fummo costretti ad esprimere un giudizio articolato che, pur sottolineando positivamente il carattere di rottura e di discontinuità con le Finanziarie degli anni precedenti perché non scaricava sui lavoratori dipendenti il costo ed il peso  del risanamento del bilancio pubblico, non di meno puntualizzammo tutti gli aspetti che noi consideravamo assolutamente necessario modificare. Questo, per poter associare  ad un giudizio positivo di massima, anche un giudizio positivo come lavoratori pubblici, giacché è noto che la legge finanziaria ci riguarda sia come cittadini che come lavoratori pubblici. E poiché le diverse forze politiche che si alternano al Governo mantengono sostanzialmente inalterato il vezzo di inserire nelle leggi finanziarie norme che riguardano il rapporto di lavoro pubblico  e, molto spesso, anche la stessa organizzazione del lavoro dei nostri settori, noi dobbiamo avere la capacità di individuarle per poter far pesare il nostro punto di vista.

          Nel frattempo abbiamo cercato di capire come il nostro gruppo dirigente, i nostri delegati, la gente che rappresentiamo erano in grado di percepire la legge finanziaria e che giudizio ne davano.

          L’abbiamo fatto attraverso quella che abbiamo definito una “campagna di ascolto da svolgere nei territori”. Tutta la segreteria ha partecipato a riunioni e ad attivi a livello territoriale e regionale, proprio per cercare di comprendere il punto di vista della gente   e di  spiegare il nostro punto di vista sui contenuti della legge finanziaria. Insieme a questo, abbiamo utilizzato lo strumento del sondaggio fatto su un campione rappresentativo di pubblici dipendenti, iscritti a tutte le Organizzazioni sindacali o non iscritti, costruito casualmente,  con criteri che però garantiscano un profilo degli intervistati effettivamente rappresentativo dell’universo che si vuole sondare.

Personalmente, tendo a non sopravvalutare questi strumenti, perché non è detto che ciò che viene fuori da un sondaggio di opinione sia ora e per sempre il punto di vista e l’orientamento delle persone sottoposte a questo sondaggio. I sondaggi sono infatti  istantanee che fotografano, al momento, l’orientamento delle persone e in quanto tali vanno utilizzati.

          Io ho rilevato una coincidenza abbastanza significativa tra ciò che ho capito partecipando  agli attivi, alle riunioni, confrontandolo anche con quanto  mi hanno spiegato i nostri compagni segretari regionali e territoriali, e il risultato dei  due sondaggi che abbiamo fatto, uno all’inizio e uno quasi alla fine dell’iter della legge finanziaria.

          Ne è infatti scaturito un giudizio globalmente positivo, fondato più che sulla conoscenza dei contenuti effettivi della legge, sul fatto che il lavoro dipendente con le persone che noi rappresentiamo e che – voglio ricordare – per l’85% dei casi hanno un livello di reddito inferiore ai 27 mila euro di reddito, da questa Finanziaria  non sarebbe stato ulteriormente tartassato, che la condizione di queste persone non sarebbe peggiorata.

Rilevammo però che quei sondaggi segnalavano un dato preoccupante, e cioè che quasi il 50% delle persone intervistate non era in grado di esprimere un parere rispetto ai contenuti della legge, in particolare per quello che riguardava le conseguenze sulle loro condizioni di lavoro.

          Ora, a distanza a due mesi di distanza tra il primo e il secondo sondaggio, la percentuale di coloro che non erano in grado di esprimere un parere passa da circa il 50% ad un po’ più del 30%. Il che significa che quasi 1/3 delle persone non ha ancora capito bene che cosa è la legge finanziaria, ma anche che quest’area si è ridotta grazie al lavoro che abbiamo fatto attraverso e ci eravamo reciprocamente raccomandati di fare, cioè spiegare con chiarezza le cose che andavano bene e quelle che bene non andavano.

Anzi, penso che aver scelto una linea di assoluta trasparenza, sia uno degli elementi che ci hanno permesso di ottenere risultati assolutamente  consistenti.

          Voglio ricordarne alcuni. Noi criticammo all’inizio tutta quella parte della legge finanziaria che riguardava la riorganizzazione degli uffici su base regionale, specificamente del Ministero dell’Economia e Finanza e del Ministero dell’Interno, ma con un disegno generale che coinvolgeva tutti i Ministeri, indicando nel 15% il limite massimo di espansione degli uffici di supporto, a fianco di una contestuale diminuzione degli organici. Noi siamo favorevoli ad una diminuzione delle persone che operano negli uffici di supporto e ad un contestuale aumento di coloro che operano negli uffici preposti alla produzione ed alla erogazione di servizi,  ma non lo siamo rispetto all’obiettivo comunque e sempre solo del calo dei livelli occupazionali.

          Su queste due questioni abbiamo ottenuto risultati significativi. Intanto, che il sindacato avesse un ruolo negoziale e che non si desse, quindi,  per scontato il risultato finale. Questo, non significa che siamo il sindacato che ha paura del cambiamento, perché la Funzione Pubblica nasce 25 anni fa proprio sulla base dell’idea del cambiamento del lavoro pubblico, non certo su quella della  conservazione. Detto questo,bisogna sapere che non sempre chi vuole cambiare ha gli stessi nostri obiettivi. Dobbiamo ribadirlo   con maggior forza, per togliere di mezzo una volta per tutte le chiacchiere di chi vuol fare un uso strumentale e caricaturale delle nostre posizioni,dipingendoci  come un’ organizzazione vecchia che resiste al cambiamento, riproponendo la solita solfa della contrapposizione tra i riformisti – quelli che vogliono cambiare – e chi invece non vorrebbe cambiare nulla in difesa dei privilegi.

Se questo è il nostro orientamento, credo di poter dire che  le modifiche che abbiamo ottenuto della parte della Finanziaria che riguarda l’organizzazione degli uffici e del lavoro delle funzioni centrali, ci lascino molto spazio di movimento. A meno che non prevalga  nel nostro comportamento l’idea che, tutto sommato, anche questa volta l’abbiamo scampata, se ne riparla tra due anni, nel frattempo non facciamo niente. Se questo fosse il comportamento prevalente,  avremmo bruciato un bel tratto della strada per poter imboccare una direzione diversa da quella verso la quale molte forze politiche spingono.

          Un secondo risultato positivo riguarda i comuni, con la salvaguardia del principio dell’autonomia. Saranno infatti i comuni che  insieme a noi, grazie alla orma che siamo riusciti a introdurre nella finanziaria, avvieranno un processo di stabilizzazione del precariato di una certa consistenza con la speranza che  alla fine di un periodo di tempo non brevissimo ma nemmeno indefinito - abbiamo sempre parlato di un piano legislatura sarà possibile procedere ad una effettiva stabilizzazione del lavoro precario.

          Un analogo risultato - grazie all’iniziativa della categoria, con la copertura della Confederazione – lo abbiamo ottenuto nella sanità con l’abolizione di quel sistema di ticket previsto inizialmente ed il passaggio ad una forma molto più “soft”.

          Poiché si tratta di punti che ci avevano spinti a sospendere il giudizio sulla  Finanziaria, considero che sia importante rimarcare come essi siano stati  modificati grazie al fatto che non abbiamo detto che tutto sommato, andava bene, salvo qualcosa che si sarebbe potuto modificare in seguito. E non  lo dico  per uno stupido puntiglio, ma perché sono convinto che esprimere con chiarezza il proprio punto di vista e porre con fermezza alcuni paletti senza il rispetto dei quali sei disposto a dire che quella cosa non va bene, aiuti a raggiungere i risultati che ti prefiggi.

Tra questi metto anche la questione annosa del superamento del salario convenzionale per le cooperative, un emendamento che è apparso e scomparso all’ultimo momento, attraverso un processo di scarsissima trasparenza  rispetto allo svolgimento del confronto, non tanto e non solo con le organizzazioni sindacali, ma all’interno delle stesse forze politiche e nel rapporto tra il governo e la sua maggioranza. Così come considero risultati positivi il fatto che siano state indicate nella  legge finanziaria le risorse necessarie per il rinnovo del contratto nazionale di lavoro e si sia ottenuto l’articolo che di fatto rende esigibile i nostri contratti una volta che questi siano stati sottoscritti: il che significa che  una volta  fatti, non si debba più assistere a quel giochino per cui i tempi vengono dilatati  all’infinito.

Ora, abbiamo apparentemente sconfitta e capovolta l’impostazione del Dpef riguardo al lavoro pubblico, ma non l’abbiamo tolta di mezzo una volta per tutte. Anzi, a me pare che tenda a riproporsi con una certa insistenza, attraverso  un approccio prevalentemente economicistico rispetto alle Pubbliche Amministrazioni e ai servizi.

          L’idea secondo la quale grazie ad un intervento di riorganizzazione delle Pubbliche Amministrazioni si possano drenare risorse per fare cassa ed utilizzarle  per ridurre il deficit, è una cosa che torna ogni tanto insieme alla cosiddetta fase 2, o al cambio di passo, o alla nuova velocità, o alla cabina di regia, chiamiamola come ci pare, cioè l’attuazione del programma da parte del governo una volta approvata la legge finanziaria.

          Ora, proprio per questo motivo, avevamo proposto, poco prima della pausa estiva, la sottoscrizione di quello che abbiamo chiamato un patto per il lavoro.

          Come sapete questa discussione è ferma all’ indicazione degli argomenti riguardanti il negoziato.

          Perché fino ad adesso non si è fatto l’accordo, anche solo sul memorandum?

Non si è fatto perché le proposte che ci sono state avanzate, le bozze che sono circolate, non erano ricevibili; perché nei documenti che ci sono stati sottoposti, è stata resuscitato il cosiddetto fondino, che risale ai contratti del ’94. Per chi fosse più giovane, ricordo che si tratta semplicemente dell’attribuzione di una quota delle risorse del fondo di produttività direttamente nelle mani del dirigente, da destinare a non più,al’epoca, del 20% del personale, che oggi, con la nuova proposta, scende al  15%.

Tutti sappiamo com’e andata a finire e se davvero si riuscisse  di organizzazione del lavoro sarebbe facile dimostrare che è una colossale sciocchezza pensare che per migliorare la qualità di un servizio sia sufficiente  selezionare le persone che a questo servizio sono preposte.

          Il lavoro pubblico ha bisogno di scelte esattamente contrarie, ha bisogno di processi inclusivi, che coinvolgano il maggior numero di persone nella produzione dei servizi e tutti devono sentirsi in qualche modo vincolati a migliorare la qualità.                                                                 

          E’ un errore concettuale pensare che la produttività in un posto dove si fa assistenza alle persone possa essere affida ad una specie di guerriglia tra chi prende e chi non prende, tra chi prende di più e chi prende di meno.

Si torna a parlare di una mobilità non meglio identificata, decisa  da altri e di cui il sindacato è chiamato a gestire esclusivamente i cascami, le conseguenze. Cioè c’è chi decide quante persone si devono spostare, dove si devono spostare e il nostro compito è quello di comunicarlo ai lavoratori.

          Non è questo il nostro mestiere. Il nostro mestiere è quello di valutare, in  ciascun luogo di lavoro, quale della essere la configurazione teoricamente migliore a livello occupazionale, sia quantitativo che qualitativo, verificare come conciliare questi due aspetti anche su base territoriale, perché è un conto gestire la mobilità, per esempio, tra Caserta e Napoli, un altro  tra Agrigento e Palermo. Si tratta di due cose totalmente diverse, e soprattutto la mobilità  andrebbe strettamente legata al tipo di lavoro da fare, alle necessità che in quel territorio esistono a livello della produzione dei servizi da erogare.

          Tutti questi fenomeni sono frutto di percezione: si percepisce che c’è troppa occupazione nel lavoro pubblico ed una cattiva distribuzione del personale. Da qui , la pretesa di avere mano libera nel ridistribuirla.

Ma la vera priorità politica è quella del precariato e della sua stabilizzazione. E a questo proposito mi pongo  una domanda: quante sono le linee del governo sulla precarietà? Una prima linea dice che i precari si stabilizzano con i concorsi ordinari nel limite delle disponibilità previste, a partire dal 2008, dalla legge finanziaria, senza penalizzazione per i precari stessi. Una seconda linea prevede, come noi chiedevamo, la formazione di un fondo, il sistema di alimentazione di quel fondo, la fissazione di un programma  di legislatura.  L’emendamento della Palermi, poi approvato, parla di tre anni e di contrattazione  con le organizzazione sindacali.

          Ovviamente noi preferiamo la seconda ipotesi, ma non possiamo nasconderci la difficoltà di mantenere un negoziato credibile e produttivo con un governo che dice di no alle richieste del sindacato, proponendo soluzioni una francamente inaccettabile, e contestualmente, per propri equilibri politici interni alla maggioranza, concede ad una forza politica ciò che aveva negato al sindacato.

          La compagna Palermi viene dal sindacato,  rispetta il nostro ruolo, e nelle sue dichiarazioni pubbliche che ha affermato che l’emendamento da lei presentato e approvato, è una vecchia richiesta della Funzione Pubblica della CGIL. Questo non può che farci piacere, ma non cancella il problema.

          Facendo  le debite proporzioni, si tratta dello stesso problema che segnala la Segreteria della CGIL sul tema delle pensioni quando dice: “ prima di sederci  al tavolo, vogliamo sapere qual è la linea unitaria del governo su questo tema”.

          E’ evidente, quindi, che, stando così le cose, non ci sono le condizioni per negoziare.

          E’ ovvio che un qualsiasi accordo sul lavoro pubblico, per poter essere credibile, anche a causa dell’introduzione del Titolo V nel nostro ordinamento costituzionale, non può essere sottoscritto solo con governo centrale, ma deve coinvolgere il sistema delle Regioni e delle Autonomie locali. Aggiungo che solo così, in questa fase, forse è possibile che esca  qualche idea un po’ meno retriva di quelle che fino a qui si sono sentite sulla riorganizzazione delle Pubbliche Amministrazioni.

          Allo stato attuale non è ancora successo. Anzi,  quando al Presidente della Conferenza Stato/Regioni è stato chiesto di partecipare, questi ha risposto che aveva bisogno di tempo per parlare con le Regioni rispetto alle quali non ha alcuna titolarità negoziale. Il Governo ha allora risposto “noi intanto lo facciamo per gli statali”. E non devo spiegare per quale motivo non si può fare un accordo solo per gli statali.

Infine la questione della legalità. Non possiamo pensare che la questione della riorganizzazione della Pubblica Amministrazione si possa fare prescindendo dall’individuazione di misure a sostegno della legalità. E quando parlo di legalità, non  parlo solo di Puglia, Calabria e Sicilia, perché in questo caso si tratta di malavita organizzata, ma parlo di un fenomeno molto più diffuso, che non è solo la penetrazione malavitosa, non sono solo le bombe all’ospedale di Locri, parlo  del mancato controllo su come si utilizza quel fiume di spesa pubblica che esce dal funzionamento delle pubbliche Amministrazioni.

          Noi avevamo chiesto che venissero rinegoziati questi valori e che, nel frattempo, il 10% di queste  risorse fossero desinate alla riorganizzazione della Pubblica Amministrazione.

          Questo non è successo, ma dobbiamo ugualmente insistere perché vengano introdotte misure di misure anche di natura legislativa, per contrastare questo fenomeno.

          La Cgil, nel convegno che si è tenuto a Palermo il 15 marzo del 2005, ha indicato una serie di misure che  potrebbero essere assunte  subito; le abbiamo riprese anche noi nella nostra Conferenza di Programma, nel nostro Congresso, le abbiamo fatte diventare il contenuto di un emendamento, di un pezzo delle tesi della CGIL.

E’ ovvio che, a questo punto, dobbiamo dire su che cosa si fa o non si fa il patto per il lavoro. Non siamo disponibili a farlo su  contenuti che non siano quelli che ho indicato: un serio piano di stabilizzazione della precarietà, alcune misure che si possono prendere da subito sulla questione della legalità, l’indicazione precisa della quantità di risorse per i rinnovi contrattuali degli  statali e ministeriali, da riparametrare per tutti altri comparti.

          Questa è stata una misura di buona salute adottata nei precedenti negoziati, che si rende assolutamente indispensabile anche in questo. Abbiamo avuto modo di fare un incontro informale con il neo Presidente dell’ARAN, il quale ci ha informati su  come intende condurre il negoziato, a partire dal fatto che la norma del silenzio/assenso sui contratti pubblici, sulla loro esigibilità di fatto individua, come principale responsabile della sottoscrizione del contratto, lo stesso Presidente dell’ARAN.

          Questo comporta che questo nuovo Presidente,  prima di apporre la propria firma, vorrà avere un confronto continuo e costante con il governo, vale a dire con il ministero dell’Economia.

Si può immaginare, di fronte ad una stagione contrattuale che si preannuncia già abbastanza complicata sul terreno normativo, che cosa significherebbe dover sottostare anche al balletto che a quel punto si aprirebbe  sul significato della legge finanziaria, su quale debba essere il numero dei dipendenti per i quali, per ciascun comparto, va calcolata la spesa e quale, alla fine, sarebbe l’effettivo beneficio economico,  con i numeri che non tornano mai.

Per fare un esempio,  l’ultimo dato che gli Enti locali ci hanno fornito mostrava addirittura un raddoppio rispetto alle dinamiche previste dal contratto nazionale, salvo poi, nel momento in cui si fanno i conti per stimare le basi sulle quali si calcolano gli incrementi, decidere di abbassarne il valore.

          Ora, o non è vero l’incremento straordinario di cui parlano quando ci vogliono addossare una responsabilità negativa sul terreno della contrattazione integrativa, oppure non è vero che non si possano concedere gli incrementi che noi riteniamo utili con le basi di calcolo che proponiamo.

          Fare questa discussione all’ARAN, comparto per comparto, significherebbe fare il contratto forse nel 2010.

          Invece noi abbiamo il problema di fare i contratti assai prima delle elezioni delle RSU ed è quindi del tutto evidente che non possiamo permetterci questo lusso.

          Io penso – a proposito dei nostri contenuti contrattuali – che, poichè la precarietà e la illegalità sono due facce della stessa medaglia prodotta dal sistema di esternalizzazione e privatizzazione,  noi dovremo cambiare il modo con il quale ci confrontiamo con questo fenomeno. Non possiamo più limitarci, al comma 1, ad affermare la nostra totale contrarietà al processo di esternalizzazione ed al comma 2 spiegare come intendiamo attenuare i suoi effetti negativi, pratica che io considero assolutamente indispensabile ma non sufficiente. Vorrei infatti  che provassimo tutti insieme a trovare un modo con il quale si evita che il danno avvenga.

          Non parlo, ovviamente, della discussione che si fa con quegli amministratori che sono convinti che privatizzare sia bene, anzi meglio, ma parlo di quegli amministratori che ci rappresentano un quadro di necessità economica per la quale occorre mettere in moto processi di esternalizzazione e privatizzazione.

          Penso che dovremmo provare a ragionare di innovazione nei nostri contratti, per introdurre una norma che renda sostanzialmente obbligatorio non il fatto che non si possa esternalizzare, perché questo è  impossibile, ma renda obbligatorio sottoporre ad una sessione di contrattazione la volontà di esternalizzare nella quale l’azienda e l’Amministrazione in questione debbono dimostrare  – attraverso conti e proiezioni precise ed analisi di fattibilità e di impatto – che l’esternalizzazione è effettivamente conveniente rispetto al mantenimento all’interno della struttura pubblica di quella fase di lavoro.

          E’ evidente che questo richiama la nostra capacità di discutere a fondo l’organizzazione del lavoro. Il modello può essere l’accordo per gli asili nido di Roma, l’accordo di Firenze  e tante altre cose che facciamo sulla base di un impulso e di un principio di buona volontà. Deve diventare una normale prassi negoziale, sostenuta anche da una norma di carattere contrattuale che ci obblighi in qualche modo a misurarci con questo problema.

          Aggiungo anche che non dobbiamo avere timore di affrontare le questioni che vengono brandite contro di noi, poiché abbiamo la capacità di affermare un punto di vista diverso da quello che ci viene proposto: mi riferisco in particolare alla mobilità e alla produttività.

          La cosa sulla quale voglio essere chiaro è che non esiste, per quanto ci riguarda, una ipotesi per la quale non si fa il patto e non succede niente; non si fa il patto e, magari, nemmeno si rinnovano i contratti e intanto tiriamo avanti.

          Io penso che se questa impostazione ci convince, dobbiamo provare a puntualizzare un po’ meglio quello che, nel luglio scorso,  era poco più che un materiale per una Conferenza Stampa, incalzare il governo e se si creano le condizioni per poter negoziare il patto, o, quantomeno, il memorandum, ci proviamo. Ma se queste condizioni non si aprono, dobbiamo essere in grado di costruire il conflitto, perché il patto non è una cosa che serve al governo, è una cosa che serve a noi per poter tirar fuori il lavoro pubblico e le lavoratrici ed i lavoratori dalla tenaglia nella quale lo stanno stringendo i filosofi della “fase 2”, con il sempre presente teorema liberista per cui il pubblico impiego non si può riformare, ma solo ridurlo e privatizzarlo.

          Tutto questo avviene in un quadro politico  le cui dinamiche sono molto difficili da interpretare e soprattutto da prevedere. Nell’ordine del giorno approvato dal direttivo della Cgil, che io condivido, si sottolinea la consapevolezza che da un peggioramento del quadro politico non può che derivare un peggioramento delle condizioni delle persone che noi rappresentiamo.

Lo dico perché a noi è chiaro che  è il contenuto di questa legge finanziaria da giudicare. Si tratta di più di 200 capitoli; non si sa quante variazioni sono state apportate e quante ancora potrebbero essere apportate in Commissione Bilancio; non è stata fatta nemmeno una vera e propria sessione di concertazione ed un verbale che racchiudesse almeno quelle 4-5 questioni sulle quali è stata raggiunta una intesa e sulla quale non abbiamo potuto esprimere un giudizio compiuto, positivo o negativo che fosse. Tuttavia l’interrogativo che mi pongo è il seguente: “Quale sarebbe stato il nostro giudizio se  fossimo  qui a discutere della Finanziaria di Berlusconi?”

          Certo, sarebbe stato più facile, perché avremmo detto che era inaccettabile, ma le persone che rappresentiamo avrebbero avuto qualche problema in più.

          Ora, questo non vuol dire vincolare il giudizio del  sindacato per cui  se critichi il governo vuoi far tornare Berlusconi. Io penso che abbiamo consapevolezza che questo quadro politico ha certe caratteristiche e che un suo cambiamento può solo peggiorare le condizioni delle persone che rappresentiamo ma, allo stesso tempo, penso che questa consapevolezza la debba avere anche il governo, richimandolo ad una maggiore coerenza con il quadro politico che  esprime.

          Spesso  ho avuto modo di constatare  che questa maggioranza è migliore del governo che sostiene, quantomeno nel rapporto con le organizzazioni sindacali. Questo significa essere ,sì, consapevoli della differenza esistente tra questo governo e quello Berlusconi, ma dobbiamo essere totalmente liberi di dire la nostra quando il governo sbaglia,  di chiedergli che cambi posizione e se  la posizione non cambia, dobbiamo  essere in grado di mettere in atto  le azioni di contrasto che riteniamo utili e necessarie.

          Questo è tanto più importante perché è alle viste la discussione del disegno di legge Lanzillotta. Nelle prossime settimane consegneremo alle nostre strutture  nota esplicativa predisposta dalla Segreteria nazionale su questa legge e sui punti che, a nostro parere, non sono emendabili, ma semplicemente inaccettabili, a partire dalla idea guida su cui si fonda: e cioè che ci possa essere una normativa di carattere nazionale che vincola i Comuni a gestire i propri servizi con un’unica modalità di gestione.

          E’ un risultato davvero singolare per chi si richiama continuamente alla modernità dell’Europa, ben sapendo che in Europa non esiste un Paese nel quale c’è una norma di carattere nazionale che vincola il sistema delle autonomie locali a gestire i servizi tutti nello stesso modo.

          Penso che da questo punto di vista sia molto importante  mantenere il nostro giudizio  e le nostre proposte autonome, così com’è importante la campagna che inizieremo il 12 gennaio con la  raccolta di firme sulla legge di iniziativa popolare sulla ripubblicizzazione della gestione e della proprietà dell’acqua nel nostro Paese. Dove, a livello locale, abbiamo fatto iniziative su questo tema, abbiamo trovato una forte sensibilità e non è stato difficile creare un largo consenso al punto tale che siamo riusciti a convincere alcune  Amministrazioni  a tornare indietro rispetto all’orientamento  assunto. Penso infatti che sia importante mettere in campo e pubblicizzare ciò che realmente pensano non tanto e non solo le persone che rappresentiamo, ma anche i cittadini sui risultati della privatizzazione dei servizi.

          Abbiamo fatto un’ inchiesta  insieme con ARCI e con ATTAC dalla quale esce  con chiarezza ed in maniera abbastanza argomentata che, pur non essendo i cittadini particolarmente soddisfatti del sistema dei servizi pubblici, quando vengono privatizzati, peggiorano.

          Non dico nulla su come i lavoratori giudicano le loro condizioni perché è fin troppo facile immaginare  la giudichino peggiorate.

          Per fare questo dobbiamo continuare a essere una credibile forza del movimento sindacale unitario, dobbiamo riuscire a far sì che queste posizioni siano sostenute anche dalla CISL e dalla UIL di categoria, senza perdere la nostra capacità di costruire le necessarie alleanze con quel sistema di movimenti, fondamentale per far sì che la nostra battaglia per l’affermazione di una idea del lavoro pubblico quale  un luogo effettivo di produzione dei diritti delle persone non vada persa.

          Su questa strada  abbiamo incontrato  un ostacolo non sormontabile: mi riferisco alla manifestazione del 4 novembre.

          Ne voglio parlare perché le nostre prese di posizione sono state, nella buona sostanza, comprese, ma hanno destato anche qualche comprensibile interrogativo circa quello che poteva sembrare un mutamento repentino  del nostro punto di vista repentino, ed anche qualche comprensibile, anche se non da me condiviso,  dissenso.

          Noi avevamo messo in piedi, insieme con altri, un cartello piuttosto complicato di persone che avevano messo in piedi una manifestazione che doveva servire a sollecitare una maggiore attenzione del  governo rispetto ad alcuni punti del programma dell’Unione: il superamento delle leggi cosiddette vergogna, cioè della Moratti, della Bossi/Fini, il problema dei CPT, la legge 30 e la grande questione della precarietà, che abbiamo indicato come un problema che non può essere riassunto e circoscritto al solo precariato.

          Proprio per questo io titolo della  manifestazione era “Stop precarietà” , che è un’altra cosa rispetto alla semplice stabilizzazione dei rapporti di lavoro  precari. Si tratta di una  grande questione sociale, con tratti e caratteristiche inesplorate, che fa di un lavoro precario una vita  quasi precaria, dal welfare al sistema di relazioni, che determina l’impossibilità di costruire di un futuro per te e per le persone con le quali questi futuro vorresti costruire.

          Chiedemmo, a questo fine, a tutti quelli che partecipavano a quel cartello, di non strumentalizzare a fini di contingenza politica , questa scelta.

          Non serviva una manifestazione  filo-governativa, ma nemmeno una manifestazione anti-governativa.

          Abbiamo provato testardamente a tenere la barra ferma su questo punto, ma improvvisamente ci siamo trovati di fronte ad una locandina dal contenuto inaccettabile, che faceva di quella manifestazione esattamente quello che noi non consideravamo che quella manifestazione dovesse fare e che avrebbe comportato la fine di quel movimento, come in effetti è stato.  Sfido chiunque a sostenere  che di quel movimento rimane ancora qualche traccia dopo quella manifestazione.

          Il risultato è sotto gli occhi di tutti; aggiungo che, per quanto mi riguarda, considererei un errore caricare le nostre manifestazioni di personalizzazioni nei confronti di questo o quell’altro ministro, fosse anche da me tanto politicamente lontano, come il ministro Lanzillotta.

          Se dovessimo fare una manifestazione sul DdL Lanzillotta io non scriverei mai: “Lanzillotta, amica dei padroni che vogliono fare dei servizi pubblici un mercato”; non appartiene al nostro modo di discutere, non appartiene alle tradizioni democratiche della CGIL, non è nelle nostre corde.

          Se posso avere un rimpianto, è quello di non aver pensato per tempo a convincere le persone che facevano parte di questo cartello, a sottoscrivere un appello simile a quello per l’acqua:“si può discutere di tutto, ma tolleranza e rispetto reciproco sono valori fondanti del nostro stare insieme”.

          Chi è fuori da questi due valori, dalla tolleranza e dal rispetto reciproco, non è dentro questo movimento.

         

          Infine, una considerazione finale. Ci aspetta un anno molto complicato, un anno in cui dovremo discutere tra di noi, ma anche dialogare con l’esterno,  perché non avremo solo la necessità di far comprendere all’opinione pubblica che non siamo i fannulloni che qualcuno ha dipinto. A questo proposito,  la montagna ha partorito il topolino, cioè una Authority della quale è facile vedere in controluce chi sarà il presidente. Nel progetto di legge presentato, ovviamente, si fissa già quale sarà il compenso, analogo a quello del Presidente della Corte di Cassazione, che per i consiglieri di amministrazione potrà essere pari ad un massimo dei 2/3 del compenso del presidente. Nel progetto di legge si dice anche   che questa Authority potrà utilizzare tutte le consulenze che ritiene necessarie, ma la cosa più grave che, forse, è sfuggita ai più, è che vengono delineate due ipotesi di delega: una riguarda il superamento della 268, vale a dire dell’attuale sistema dei controlli di qualità, il che significa che a questo punto non si certifica più la qualità del lavoro nel luogo in cui si svolge, ma questo compito viene affidato a un “ministerino” romano. La seconda , ancora più grave, stabilisce  che questa Authority ha la facoltà di fissare il trattamento economico dei lavoratori pubblici.

Quindi, dovremo avere la capacità di parlare fuori di noi, ma anche la capacità di non perdere il consenso della nostra gente, perché alla fine dell’anno prossimo dovremo votare.

          A me pare che il risultato della scuola sia un risultato importante, che ci aiuta a ragionare con maggiore tranquillità sulla scadenza dell’elezione delle Rsu che ci attende.

Noi abbiamo fatto, nel corso di questo anno, cose assai importanti: affermato una idea della nostra Organizzazione che fosse in grado di parlare all’intera Confederazione; ottenuto  risultati nella definizione delle tesi e del documento congressuale; dato un contributo  determinante nella sconfitta elettorale del centro destra, come ha ammesso anche Fini. Quindi, credo di poter dire che siamo un gruppo dirigente che rappresenta lavoratrici e lavoratori che sono stati in grado di dare un valore importante a quello che fanno e di iscriverlo in un ambito sicuramente più generale.

          Ora, noi abbiamo il problema di confrontarci con una coalizione che tiene insieme dai “monarchici” ai “comunisti”.                                                                              

Dicemmo: “Le carenze, le assenze, i silenzi del programma su questo punto peseranno”. Pensate quanto pesa il fatto che qualcuno oggi dice che il programma non è la Bibbia; il che significa che nemmeno quello che è scritto che noi condividiamo, può essere considerato un ancoraggio sicuro.

          Ora, il compito di tenere fermo questo ancoraggio spetta anche a noi, soprattutto alla nostra capacità di mantenere alta l’autonomia della nostra organizzazione.

Sia di Prodi che di Padoa Schioppa hanno affermato di aver, forse, sopravvalutato il rapporto con le Organizzazioni sindacali, di aver loro concesso troppo. Io rimango un po’ stupito da queste affermazioni perché o questo troppo  lo hanno nascosto i compagni della Segreteria della CGIL da qualche parte, oppure questo troppo davvero non c’è.

          Tuttavia, se andiamo ad un confronto con un Governo che sul tema, per esempio, della previdenza ritiene di avere molto da prendere e quasi nulla da dare, mentre noi riteniamo di avere molto da chiedere. E’ infatti del tutto evidente che non si possono fare accordi sulla previdenza se non si risolve il problema dei giovani, se non si risolve il problema di coloro che da 14 anni non percepiscono alcun incremento della pensione.

Se accelerare la fase transitoria per l’acquisizione della pensione di anzianità, che scade nel 2012 e riguarda poco più di 700 mila persone,  fosse l’unica cosa che interessa al Governo, è chiaro che  non potremmo partecipare a quella trattativa e dovremmo avere la capacità di imporre i nostri contenuti. Altrimenti, per quanto mi riguarda, a quel tavolo non ci dobbiamo nemmeno sedere. Perchè se abbiamo la responsabilità di non contribuire a peggiorare il quadro politico se no peggiorerebbero anche le condizioni di quelli che rappresentiamo, non possiamo neanche assumere  decisioni e comportamenti non coerenti con ciò che pensiamo  in nome della necessità di salvaguardarlo.

Tre anni fa abbiamo coniato lo slogan “il pubblico è meglio”. Le persone che rappresentiamo ci chiederanno conto di quanto abbiamo o non abbiamo fatto per affermare questo punto di vista e che cosa intendiamo fare per il futuro.

          Abbiamo di fronte un anno  che io penso potremo affrontare tranquillamente, perché siamo un’Organizzazione in buona salute. Lo dimostra il fatto che chiuderemo il tesseramento ancora una volta in aumento;  la nostra idea è che si possa  raggiungere la quota di 395 mila iscritti.

Questo lo dico perché  dobbiamo essere consapevoli di ciò che abbiamo fatto e di ciò che ancora possiamo fare, percorrendo una strada che sicuramente non è semplice.