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CONTRIBUTO
DELLA SEGRETERIA NAZIONALE DELLA FUNZIONE PUBBLICA CGIL AL DIBATTITO
CONGRESSUALE
PREMESSAQuesto
documento non vuole essere una riproposizione più modesta dei documenti
congressuali confederali. Nasce invece dall’esigenza di contribuire,
nella sede congressuale a partire dal livello comprensoriale, ad una
riflessione sulle scelte generali che definiranno negli anni a venire
l’identità della categoria. Il tentativo che si vuole perseguire è
quello di offrire - senza offuscare le diversità strategiche presenti
nel dibattito congressuale e l’espressione di voto delle iscritte e
degli iscritti sui Documenti congressuali - elementi comuni sui temi
centrali e specifici propri dell’identità della categoria, composta
da donne e uomini, da settori privati e pubblici, da comparti
centralizzati e non. Si
tratta insomma di costruire intorno a questa identità una sorta di
intelaiatura di progetto comune che, valorizzando l’esperienza fin qui
fatta, consolidi e estenda – a tutti i livelli – le condizioni per
una gestione unitaria della categoria nonchè la pratica politica di
coinvolgimento e relazioni effettivamente
plurali nella gestione della categoria. Anche
a ciò, oltre che ad evidenti questioni di spazio, si deve la drastica
selezione delle questioni affrontate. Le ragioni della democrazia e del lavoro dopo la vittoria della destra nella sfida della globalizzazione. Sul
finire degli anni 90’ si è affermata in Italia, così come in gran
parte dell’Europa, anche sotto la guida di governi di sinistra o
centro sinistra, una sorta d’epopea ideologica della globalizzazione.
Assunta la logica della competitività di mercato come vero e proprio
principio regolatore, come una “legge di natura”, è sembrato a
molti che, di conseguenza, la globalizzazione dei mercati fondata sui
processi di liberalizzazione, deregolamentazione e privatizzazione,
fosse la dimensione più efficace e definitiva di espressione e di
applicazione di tale principio, un “fenomeno naturale” in grado di
avviare finalmente un processo progressivo di liberazione delle società
dai vincoli e dalle costrizioni derivanti da lunghi anni di statalismo
regressivo. L’affermarsi di questa
visione esasperatamente liberista ha via via prodotto una sorta di nuovo
conformismo intellettuale, un “pensiero unico”
in base al quale, non solo la globalizzazione è il risultato e
contemporaneamente la premessa di un nuovo ordine economico conseguente
alla caduta della Unione Sovietica ed al progressivo superamento
delle barriere protezionistiche proprie dello stato nazione, ma
è una sorta di nuovo ordine sociale, una specie di nuova età
dell’oro, nella quale ad organismi ristrettissimi di governo
transnazionali, come il G8 il WTO o l’ OCSE e il fondo monetario
internazionale, per di più sottratti ad un reale controllo democratico,
sarebbe demandato il compito di operare per il bene comune di tutto il
pianeta. Di qui la pretesa, da parte dei paesi più ricchi del mondo,
emersa drammaticamente nel G8 di Genova, di definire
i bisogni e le priorità, non solo per loro stessi, ma anche dei
paesi poveri, non accogliendo, se non marginalmente o più spesso
contraddicendo, le loro richieste. Superare questo
conformismo significa prendere atto del fatto che il liberismo
mercantile costituisce il carattere fondativo ( la prima riunione del G7
avvenne nel 1975) e non un segno contingente e transitorio della
globalizzazione in atto, e quindi non è corretto affermare che questa
globalizzazione porta con se rischi ma anche potenzialità. Così come
non può essere teorizzato o messo in campo un movimento che nega la
globalizzazione in sé, senza aggettivazioni, Pur partendo da
motivazioni opposte e puntando ad opposti obiettivi, entrambe queste
posizioni, infatti, non distinguono il carattere liberista – che è il
fondamento culturale e di potere di questo processo di globalizzazione
mercantile – dagli altri caratteri potenzialmente liberatori e
progressivi – quali la diffusione dei saperi e della loro
comunicazione, la centralità del loro valore, grazie alla rivoluzione
tecnologica ed informatica – i quali hanno reso concretamente
possibile la globalizzazione dei mercati, ma possono anche costituirsi
in fattori di orientamento e di governo di un processo di
mondializzazione alternativo alla globalizzazione mercantile.
Un’alternativa che punti a globalizzare i diritti delle persone e
della natura, ad agevolarne la rappresentanza ed il potere, e
ad imprimere quindi un segno alternativo al governo dei processi
mondiali. Avere
coscienza delle interconnessioni tra i mercati mondiali, imparare a
comprendere i fenomeni economici e sociali come frutto di
processi planetari, non vuol dire affidarsi alla capacità di per sé
salvifica di questo nuovo sistema. Si possono in definitiva affermare
due modi, alternativi tra loro, di affrontare la globalizzazione. Il
primo prevede che il mercato dispieghi, più o meno liberamente, le
proprie potenzialità favorendo automaticamente la creazione di
ricchezze e lavoro per tutti. In questa visione le grandi
malattie, la negazione o la compressione dei diritti di chi
lavora, il lavoro minorile fin quasi alla riduzione in schiavitù,
sono spiacevoli effetti collaterali, prezzi magari cari, ma
sopportabili, per il progresso che infine arriderà all’intero
pianeta. E’
evidente che questa ipotesi trova, qui ed ora, nel nostro paese, dopo la
vittoria della destra, terreno fertile. Tutte
le proposte avanzate dalla CDL, dal programma elettorale, al DPEF
all’impianto di L.F., sono proposte tese a liberare il mercato dagli
ostacoli che rappresentano i diritti sia del lavoro che di cittadinanza. La
riproposizione ossessiva della libertà di licenziamento, la riduzione
del peso dei CCNL, la trasformazione di bisogni primari, come quello
della salute e dell’assistenza, da diritti esigibili a mercati, sono
la traduzione, a volte
sgangherata ma non per questo meno dannosa, dell’ideologia del mercato
globale. Il secondo modo,
alternativo al primo, è, appunto, quello che punta alla
“globalizzazione dei diritti”. Il sindacato, la CGIL e la FP – per
quel che ci riguarda – nella comprensione del carattere globale dei
fenomeni economico-sociali, deve impostare la propria azione in base ad
un’ unica matrice: la difesa, il consolidamento, l’allargamento dei
diritti del lavoro che, proprio nella peculiarità dei servizi pubblici,
è spesso, contemporaneamente difesa dei diritti dei cittadini,
contrastando anche per questa via la generale tendenza dell’utilizzo
esclusivo della riduzione del costo del lavoro come unica leva per la
riduzione dei costi. Con
questa impostazione la nostra categoria sarà in grado, ad esempio sul
tema del superamento del monopolio dei servizi pubblici locali, di
offrire il suo peculiare contributo. Battersi perché il previsto
superamento dei monopoli locali non sia
di fatto, se guardiamo a ciò che sta avvenendo nel delicatissimo
settore dell’acqua, l’affidamento di un bene primario a quei pochi
oligopoli transnazionali che dominano nel settore il pianeta, servirà
contemporaneamente a sostenere forme imprenditoriali locali, a difendere
meglio i cittadini, e a difendere i diritti delle lavoratrici e dei
lavoratori, evitando loro il destino che in altri paesi hanno già avuto
(esuberi, applicazioni contrattuali a minor tutela, precarizzazioni,
peggioramento del rapporto qualità/costo del servizio). Così
come battersi affinché, nella conferma del ruolo fondamentale della
previdenza pubblica, si
affermi anche nei nostri settori la previdenza integrativa, non risponde
solo ad un’esigenza di tutela nel
futuro pensionistico dei lavoratori delle pubbliche amministrazioni, ma
può significare - se si considerano le dimensioni che questi fondi
potrebbero avere - potrebbero avere, immettere nel mercato finanziario
internazionale forze che, se vincolate alla cosiddetta
finanza etica, sono in grado di determinare comportamenti ed
effetti su imprese e persino su singoli paesi. Basti pensare al ruolo di
vero e proprio embargo finanziario che i fondi pensioni nord americani
svolsero verso il Sud Africa e come questo contribuì al superamento
dell’apartheid. Un sindacato quindi che costruisca una strategia, che senza smarrire il filo dell’onere di sostenere al meglio gli interessi della categoria che rappresenta, sia in grado di calarli in un quadro più generale, i cui connotati non si debbano solo subire ma che si possano anche tentare di modificare. E’ necessario, quindi, coerentemente con questo quadro e con la riproposizione per intero del lavoro e dei suoi valori, impostare le nostre rivendicazioni e anche interloquire con il variegato universo che si contrappone a questa globalizzazione mercantile. Non si tratta di un movimento riconducibile “ad unum”, né alle matrici culturali ed ideologiche dei movimenti già conosciuti, in occidente nei decenni passati. Si tratta, di un “movimento dei movimenti” composto da forze, pulsioni, ed anche analisi e obiettivi diversi tra loro, nel quale tuttavia donne e uomini di diverse culture ed esperienze e tantissimi giovani alla loro prima esperienza di impegno sociale in un movimento di questo genere, manifestano una passione e una voglia di contare nella determinazione del loro destino che spesso la politica – ma anche il sindacato – non riesce ad interpretare e rappresentare. Per questi motivi non si tratta per il sindacato e per la CGIL di interrogarsi se stare all’esterno od all’interno di un movimento che non ha una struttura sua propria ed organizzata. E’ necessario invece verificare e lavorare per la costruzione di condizioni che rendano possibile la partecipazione a questo mondo del movimento sindacale con l’autonomia e la specificità della propria cultura, del proprio progetto, delle proprie funzioni di rappresentanza, contribuendo a qualificarne i principi di valore e gli obiettivi antiliberisti, a partire dall’assunzione rigorosa del principio della non violenza come principio regolatore non solo della sua iniziativa di lotta, ma della sua stessa identità culturale ed etica. Non possiamo contribuire a far nascere in questo campo di forze che dice “un altro mondo è possibile”, la convinzione che non ci sia modo di intendersi, di stabilire un comune sentire con una soggettività sindacale capace di porsi in grado di raccogliere e rilanciare la sfida del cambiamento. Deve essere evidente per tutti noi che non offrire – direttamente e sentendosi parte di un grande “movimento dei movimenti” – risposte, valori e pratiche rivendicative alle ingiustizie ed alle contraddizioni che la globalizzazione genera inscindibilmente nelle società come nei mondi del lavoro, vorrebbe dire decidere un’estraneità del sindacato e, privandolo di una componente decisiva, consegnare l’intero movimento delle forze che si battono per un’alternativa al liberismo, alla certezza che un cambiamento sia impossibile. L’iniziativa
della Fp per l’affermazione dei diritti e la costruzione di relazioni
sindacali in Europa Un
marcato ruolo dello stato sociale e dei servizi pubblici è una
caratteristica peculiare dei Paesi europei a cui ha concorso
significativamente il movimento dei lavoratori. Oggi,
mentre, questo modello viene preso a riferimento come esempio di civiltà
per molta gente di altre aree geografiche, rischia di essere messo in
discussione proprio all’interno dei confini europei. Il
percorso di costruzione dell’unificazione europea può vantare
considerevoli progressi sul piano dell’integrazione economica e
monetaria, tuttavia i fondamentali obiettivi di progresso che l’Unione
europea si è dati non potranno realizzarsi se, accanto all’unione
economica e monetaria, non verrà definita anche una vera e propria
unione sociale. I
servizi pubblici sono motore necessario per il raggiungimento della
piena occupazione e di un modello di sviluppo sostenibile in Europa così
come sono proprio i servizi pubblici a poter fornire un contributo
significativo per la realizzazione dell’obiettivo europeo di una
coesione sociale. Molti
cittadini europei beneficiano di questi servizi e, per molti,
rappresentano una importante occasione di lavoro. Sono, infatti, diverse
decine di milioni gli uomini e le donne che oggi trovano lavoro in
servizi sanitari, socio assistenziali, nelle amministrazioni locali, in
quelle statali e nelle aziende. I
vertici intergovernativi e lo stesso Trattato dell’Unione non
forniscono ancora l’adeguato risalto, né uno spazio soddisfacente al
tema dei servizi pubblici, nonostante l’importanza che essi rivestono
per la definizione economica e sociale della nuova Europa. Ciò
dovrà essere oggetto di un’azione specifica che anche la Fp-Cgil si
impegna ad intraprendere sia nelle sedi nazionali che in quelle
comunitarie affinché la valorizzazione dei servizi pubblici trovi un
adeguato risalto, nel dibattito politico nazionale come nelle conferenze
tra i Governi e all’interno dello stesso Trattato. La
capacità di garantire e di promuovere diritti fondamentali dei
cittadini d’Europa è messa a forte rischio da iniziative
generalizzate di liberalizzazione, di deregolazione e privatizzazione
che trovano il fondamento ideale nelle teorie liberiste e, il braccio
operativo nell’azione di compagnie trasnazionali attive nelle diverse
aree geografiche. Che
i servizi di interesse generale siano entrati in una nuova fase
dell’attenzione dell’Unione europea lo dimostra la nuova stesura
dell’art.16 del Trattato di Amsterdam che ha riconosciuto
“l’importanza dei servizi d’interesse economico generale
nell’ambito dei valori comuni dell’Unione nonché il loro ruolo
nella coesione sociale e territoriale”. A
fronte di tale affermazione, tuttavia la Commissione europea e parte del
Parlamento europeo intendono proporre una visione “neutrale” del
rapporto tra proprietà pubblica e proprietà privata dei servizi di
interesse generale e rivela una propensione esplicita alla
liberalizzazione generalizzata dei servizi pubblici, distribuzione
dell’acqua in prima fila. La Fp-Cgil sostiene la posizione espressa dalla Federazione europea dei servizi pubblici (FSESP/EPSU) e dalla Confederazione europea dei sindacati (CES/ETUC). Tale posizione contesta l’approccio della Commissione ritenendolo finalizzato all’apertura verso il mercato come fine a se stesso e sottolinea come la scelta dell’assetto proprietario, se pubblico, privato, misto etc. debba essere fondata sulla valutazione dell’effettiva capacità di offerta del servizio a tutti i cittadini e sulla qualità, rispondendo a criteri di funzionalità. Un esempio assai pericoloso è la discussione in corso a livello europeo sulla direttiva sugli appalti pubblici e che spinge per imporre servizi pubblici a basso costo. Lo sforzo del sindacato, mira a mantenere in capo agli enti locali la libertà di scegliere in che maniera organizzare il servizio pubblico e si concentra per assicurare, all’interno della direttiva l’obbligo di applicazione dei contratti di lavoro, come requisito per la partecipazione all’appalto del servizio. Il ruolo dei sindacati a livello locale,
settoriale, nazionale ed europeo è una caratteristica unica del modello
sociale europeo che la Fp-Cgil riconosce e sostiene. Garantire
i diritti dei cittadini, promuovere
la piena occupazione, sostenere lo sviluppo economico, dar
forma ad un’economia sociale efficiente, promuovere la coesione
sociale, accompagnare il cambiamento attraverso il confronto sociale,
estendere la dimensione sociale ai paesi aggiunti, formare servizi
pubblici europei sono, in sintesi gli obiettivi che la Federazione
europea dei servizi pubblici si propone di realizzare. L’adesione
della Fp-Cgil alla Federazione europea (FSESP/EPSU) sottolinea la
condivisione di queste priorità che sono state di ispirazione per la
Carta dei servizi pubblici adottata al Congresso della CES
(Confederazione europea dei sindacati). Alla
luce di questo la Fp-Cgil aderisce alla campagna ”Public
Services for people in Europe” promossa dalla CES/ETUC
e dalla FSESP/EPSU e fondata sulla Carta dei servizi pubblici.
I punti focali della campagna saranno i bisogni dei cittadini e
le condizioni di vita e di lavoro dei lavoratori e delle lavoratrici del
settore pubblico. La necessità che il processo di trasformazione della Federazione europea in vero e proprio sindacato europeo dei servizi pubblici si compia pienamente ed in tempi ravvicinati rappresenta, quindi, una nostra priorità. A
tal fine è necessario rafforzare e rendere coerenti al progetto
di costruzione dell’Europa sociale le politiche ed anche le
strutture sindacali nazionali e, in tale contesto, praticare uno scambio
mirato di esperienze ed una maggiore convergenza delle politiche
sindacali e rivendicative. E’
necessario sviluppare regole che allarghino la partecipazione dei
sindacati nazionali al sistema di relazioni sindacali europeo,
sia nel corso dei negoziati che durante la definizione delle priorità
economiche e sociali. La
definizione di questo sistema di relazioni sindacali deve
necessariamente poggiarsi sulle esperienze maturate a livello di
relazioni tra le parti sociali sia a livello europeo che a
livello nazionale, valorizzando in tale contesto la peculiare esperienza
italiana rappresentata dall’elezione delle rappresentanze sindacali
unitarie. La costruzione di veri e propri sindacati europei richiede inoltre la definizione di regole sulla loro composizione e poteri, poggiando anche sull’esperienza pluralista italiana e specifica della nostra organizzazione.
Contrasta,
quindi, vivacemente quelle pratiche che mirano ad escludere il settore
pubblico dal riconoscimento di diritti sindacali fondamentali come da
ultimo è avvenuto in merito alla direttiva sui diritti di informazione
e partecipazione. Il
Trattato dell’Unione prevede che la Commissione garantisca affinché i
sindacati e le organizzazioni dei
datori di lavoro siano informati e consultati riguardo alla dimensione
sociale delle politiche proposte. L’esclusione
del settore pubblico dal diritto di informazione minerebbe, pertanto,
alle fondamenta lo sviluppo di vere e proprie relazioni sindacali,
mantenendo il mondo del lavoro pubblico separato dal restante mondo del
lavoro. La
Fp-Cgil condivide l’esercizio di un’azione mirata in direzione della creazione di strutture di rappresentanza
certe dei datori di lavoro pubblici, così come la definizione di regole
e procedure definite per lo sviluppo di relazioni sindacali e di una
contrattazione collettiva a livello europeo. La Fp-Cgil sostiene le politiche volte a realizzare ed a promuovere l’eguaglianza tra uomini e donne. In questa società uomini e donne debbono essere capaci di armonizzare le responsabilità familiari con gli impegni di lavoro e a realizzare uno sviluppo di carriera fondato su pari basi. L’impegno
per la realizzazione di un’eguaglianza tra i generi è un processo
continuo che richiede la realizzazione di leggi e di contratti così
come di politiche all’interno dei sindacati europei. La
Fp-Cgil condivide la strategia della Federazione europea per
l’eguaglianza tra i generi e riconosce l’importanza di averla
assunta tra le priorità dell’azione tra il 2000 ed il 2004. Favorire
un eguale accesso al lavoro, ai ruoli di direzione per uomini e donne,
assicurare la presenza delle donne
all’interno delle strutture sindacali, promuovere un’attiva e
visibile politica di mainstreaming nelle politiche contrattuali,
impegnarsi per il
superamento delle molestie sessuali nei luoghi di lavoro sono i punti
focali di questa strategia. Per
il settore pubblico assume una particolare rilevanza il dibattito sulle
modifiche costituzionali dell’Unione europea. Risulta pertanto
prioritario che il progetto di unificazione dell’Europa vada
completato velocemente anche sul piano istituzionale definendo un
assetto democratico compiuto delle istituzioni europee. La
Fp-Cgil riconosce le
opportunità rappresentate dall’allargamento della FSESP/EPSU ai
sindacati dell’Europa centrale e dell’EST ed appoggia il progetto di
allargamento riconoscendolo come necessario e fondamentale per
l’integrazione tra i Paesi dell’Unione. La
Fp-Cgil sottolinea come all’interno di tale processo non possa mancare
una puntuale definizione dei diritti sociali dei cittadini d’Europa. Il
varo della “Carta dei diritti” è un primo passo, ma non ancora
sufficiente per il pieno dispiegarsi dei diritti dei lavoratori e delle
lavoratrici anche al di fuori dei confini nazionali. All’impegno
politico dovrà, quindi, necessariamente affiancarsi l’impegno della
società civile perché l’Unione non resti solo uno spazio di libero
scambio economico senza regole e senza solidarietà. Una nuova politica dei diritti che sappia coniugare la libertà con l’eguaglianza La vittoria elettorale delle destre ha dato il governo del paese ad un gruppo che ambisce a trasformare la maggioranza elettorale in maggioranza sociale. Una parte significativa del lavoro dipendente, anche quello del lavoro pubblico, ha votato per la destra che ha saputo intercettare da un lato, i bisogni e le ansie riguardo il proprio futuro, che i processi di ristrutturazione conseguenti alla globalizzazione hanno via via generato, e, dall’altro, una sorta di rabbiosa ed indistinta volontà dei ceti più deboli e marginali di inclusione non attraverso una maggiore giustizia sociale ma per via di mirabolanti percorsi individuali. Il segnale che la destra ha lanciato a questa parte della società, è che l’inclusione sarebbe possibile, se si superasse la barriera di protezionismo costituita dalla legislazione sul lavoro e sul welfare, dalla quale la società è ingessata. Secondo questa impostazione non è necessaria più giustizia sociale, non si tratta di ampliare la rete di protezione includendo anche quelli finora esclusi, si tratta invece di abbattere questa rete, che impedisce alla libertà di ciascun individuo di acquisire un livello di benessere tale da garantirgli autonomamente sicurezza per il presente ed il futuro. In sintesi la convinzione che i diritti collettivi siano un ostacolo alla libertà si è fatta strada e costituisce uno degli assi di fondo dello spostamento a destra della società italiana. Accettare una contrapposizione tra libertà e diritti e l’idea della sola competizione come fattore di regolazione di tutti i rapporti sociali, sarebbe un errore straordinario. Per questo occorre rilanciare in pieno una strategia che sappia rendere evidente che il tema dell’ eguaglianza è inscindibile dalla libertà. In assenza di ciò avremo semplicemente la riproposizione di un esasperato darwinismo sociale, nel quale il più forte, lui sì, è libero di fare ciò che vuole del più debole. Può darsi che la strada dei contratti di mestiere, regionali o individuali possa occasionalmente determinare condizioni più favorevoli per singoli e specifici gruppi professionali, lavoratori residenti in una data regione o addirittura singoli individui. Ma questa strada, allargando il solco delle differenze esclusivamente sulla base delle convenienze delle parti datoriali, è inconciliabile con la necessità, per noi prioritaria, di incrementare l’area del lavoro tutelato. Per questo la nostra scelta, ancorché difficile sotto il profilo delle regole negoziali è quella di lavorare per la costruzione di contratti di settore che sappiano salvaguardare le condizioni oggi previste dai contratti collettivi. Questa nostra scelta non può avere alternative se si vuole mantenere fede al principio di eguaglianza e di pari opportunità di accesso al lavoro per ciascun cittadino. Non vi è alcuna libertà, ma anzi una coercizione, nell’essere costretti ad accettare, a parità di lavoro svolto, un salario, un quadro normativo ed una collocazione professionale inferiore, solo perché si vive in una regione piuttosto che in un'altra, o perché il datore di lavoro appartiene ad una diversa associazione o perché il Direttore Generale di un’azienda ha deciso di far sottoscrivere a qualcuno un contratto individuale diverso da un altro. Per perseguire questo obiettivo sarà necessario vincere resistenze ed incrostazioni corporative; difendere i diritti non significa scambiarli per il mantenimento di situazioni di privilegio. Bisogna al contrario sapere che lo scambio che ci sarà proposto sarà proprio questo : mantenimento (per ora) dell’intero sistema di garanzie per chi è già al lavoro e trattamento economico normativo inferiore per chi al lavoro ancora non c’è, e quindi non conta ancora, non è rappresentato. Quando poi nel posto di lavoro entrerà, sarà destinato comunque a contare di meno. Così come siamo destinati ad essere sconfitti se, mentre è in corso nel paese il dibattito sulla flessibilità in entrata e in uscita dal posto di lavoro, non saremo in grado di cogliere le conseguenze che anche nei nostri settori ciò determina. La destra risponde al bisogno di competitività delle imprese proponendo la concentrazione del potere nel posto di lavoro, nelle mani del padronato, che per questa via, col ricatto del licenziamento, assume mano libera sulla organizzazione del lavoro, sull’intensificazione della prestazione e, più in generale, sui diritti. In breve, non più innovazione, più qualità, ma più sfruttamento. Se non saremo in grado di contrattare nel 2° livello organizzazione del lavoro, tutela della salute, formazione, qualità del lavoro, e innovazione organizzativa, ci renderemo oggettivamente corresponsabili di un percorso in fondo al quale, gran parte della conoscenza e del governo dei nostri cicli lavorativi, sarà in mano a figure che poco hanno a che fare con il lavoro dipendente tradizionale. Il lavoro pubblico può subire un curioso e pericoloso doppio taglio: nella parte meno qualificata ed in quella a più elevato contenuto professionale. Già oggi una parte consistente dei
nostri lavori a più basso contenuto professionale, viene terziarizzata
verso cooperative, altre imprese di servizio o svolta attraverso
collaborazioni, di fatto precarizzata mentre i lavori più qualificati
sono sempre più spesso svolti da esperti, consulenti e quant’altro.
La conseguenza di questo fenomeno è duplice. I lavoratori delle
pubbliche amministrazioni sono oggetto di un progressivo depauperamento
professionale e di una progressiva esclusione dal ciclo lavorativo,
mentre quelli così detti esterni, conoscono un segmento del lavoro e
vivono condizioni contrattuali, economiche e normative, quasi sempre più
povere di quelle proprie del CCNL del settore. Si pone quindi in questa
tornata di contrattazione integrativa, per il sindacato e per le RSU e
per gli RLS, la necessità di affrontare efficacemente la questione
della ricomposizione del ciclo produttivo e del processo lavorativo,
come condizione preliminare per rappresentare tutto il lavoro. Nasce
anche da qui la necessità di sottoporre a verifica sia la scelta della
Federazione di II livello, sia il rapporto con il Nidil,
la cui efficacia organizzativa non è in discussione, ma che ha
manifestato, nell’esperienza quotidiana, difficoltà a rappresentare
ed affrontare adeguatamente questi problemi. La difesa e
l’ammodernamento dello stato sociale Non è forse un caso che la prima esperienza di lotta generalizzata contro gli effetti indotti dalla globalizzazione si sia manifestata in Europa, nel dicembre del 1995 in Francia, con un grande sciopero nei servizi pubblici a difesa della natura pubblica degli stessi. E’ infatti del tutto evidente che per ogni schieramento politico di destra – fu così nella Gran Bretagna thatcheriana e nella Francia di Chirac e sarà così nell’Italia di Berlusconi – lo stato sociale è il primo, e forse principale, ostacolo al libero dispiegarsi del mercato e della iniziativa individuale. Questa impostazione, a cui non manca un vasto sostegno culturale, considera la solidarietà in termini assistenziali, come offerta di prestazioni dequalificate a basso costo per ceti poveri e marginali. Particolarmente grave e insidiosa è l’enfasi posta sulla famiglia come nucleo centrale che deve dare risposte ai diritti di cittadidanza. Senza nulla togliere alle essenziali relazioni affettive tra le persone, come FP respingiamo con le parole e con i fatti l’intento di far ricadere nuovamente sul lavoro gratuito delle donne i risparmi che si vorrebbero ottenere nella collettività. Anzi, l’impegno della FP per la salvaguardia e il rilancio dei servizi pubblici ha anche il significato di riconoscere il valore sociale del lavoro delle donne, mantenere e aumentare le possibilità occupazionali per loro, salvaguardare ed estendere servizi che permettano di conciliare cura e attività retribuita. Contro ogni tentativo di oscuramento della laicità dello Stato FP è impegnata con altrettanta forza a ricostruire una cultura ed una pratica fondata sull’autodeterminazione delle donne – anche attraverso il rilancio dei consultori – connettendo così lavoro e servizi erogati e la difesa della legge 194. Nella visione delle destre la salute, la previdenza e l’istruzione non sono diritti di cittadinanza bensì legati al reddito individuale e, quindi al mercato ed alle sue leggi. La logica del Premier che si spinge ad immaginare la società e lo Stato come un’azienda, la nuova pretesa di Confindustria di assumere a modello l’impresa sulla base della quale plasmare l’intera società, unitamente ad una buona dose di assistenzialismo clientelare, saranno le caratteristiche salienti del Governo formatosi dopo l’ultima tornata elettorale. I principi universalistici dello stato sociale, le strutture pubbliche che lo erogano e il sistema fiscale e contributivo che lo garantisce, vanno nei loro intenti, smantellati. Per questo ancora oggi il punto di origine torna ad essere la questione fiscale, che ha sempre più l’aspetto di grande questione democratica ed economica. La scelta di ridurre il prelievo fiscale, peraltro a favore delle grandi ricchezze, lasciando inalterato il prelievo per il reddito del lavoro dipendente, come appare evidente man mano che la propaganda elettorale lascia il posto agli atti concreti di Governo, va contrastata senza timidezze. Il lavoro dipendente ha dato uno straordinario contributo al risanamento del Paese, sarebbe davvero una beffa se adesso ne avesse in cambio una inalterata pressione fiscale insieme alla riduzione del sistema della sicurezza sociale. Il recupero di circa 85.000 miliardi di evasione fiscale negli ultimi 5 anni dimostra che l’estensione della platea dei contribuenti è possibile e che, unitamente alla abolizione di ogni elusione fiscale, costituisce l’unica via per una diminuzione del prelievo fiscale. A questo fine vanno anche valutati alcuni effetti dell’ ultima riforma fiscale che sembrano favorire i grandi patrimoni ed il sistema bancario. Non può quindi essere assunto l’alibi di un costo eccessivo dello stato sociale, la cui spesa peraltro, ha incidenza percentuale sul PIL nel nostro Paese, significativamente inferiore alla media europea. E’ necessario riproporre ed affermare un altro modello di società che abbia a suo fondamento il valore del lavoro, dei diritti delle donne e degli uomini; una società che sappia produrre una equa e giusta distribuzione della ricchezza e nella quale vengano ribaditi il carattere pubblico ed il principio di universalità delle politiche sociali. Il sindacato non può e la F.P. non consentirà una macroscopica e mistificante inversione dei fattori. Non si possono diminuire le entrate per giustificare i tagli. La verità è che la trasformazione della sanità, anzi della salute da diritto a mercato, mette in gioco 150.000 miliardi, e le imprese che sorreggono il Governo, ne sono totalmente consapevoli. Esiste certamente il problema del contenimento degli sprechi, soprattutto nell’acquisizione di beni e servizi e del contenimento della spesa farmaceutica. Ma è un errore incolpare l’abolizione dei ticket per l’ultima impennata della spesa per i farmaci. Né risulta convincente in proposito l’ultimo accordo raggiunto tra stato e regioni. L’accordo infatti prevede l’obbligo del SSN di rimborsare il costo dei prodotti che, a parità del principio farmacologico contenuto, abbiano un prezzo inferiore, arrivando per questa via a determinare un tetto all’incremento della spesa farmaceutica che tanto fa strepitare l’associazione imprenditoriale del settore. Tuttavia in caso di sforamento della spesa l’intesa tra stato e regioni lascia intendere che a pagare sarà sempre il cittadino. In questa eventualità infatti le regioni potranno tornare all’assistenza indiretta, far pagare ticket o aumentare l’ IRPEF regionale. Ancora una volta si è preferito non affrontare la questione di fondo: da una parte la mutazione del fine del SSN dalla salute alla cura e dall’altra quella del vero centro ordinatore di questa spesa. E’ infatti il medico di base il vero punto di interconnessione tra i bisogni sanitari della popolazione e il SSN. Sono i medici di famiglia che prescrivono i farmaci, la diagnostica strumentale e, inviano con grande disinvoltura i propri pazienti a medici specialistici, che determinano così una domanda distorta e spesso gonfiata di prestazioni sanitarie. Bisogna ribaltare questa logica e convincere le regioni, che sono direttamente responsabili delle convenzioni per la medicina di base, a fissare nuove regole per l’attività dei medici di famiglia, anche riqualificandone le funzioni verso un ruolo maggiormente finalizzato alla educazione sanitaria preventiva. Scaricare sulle regioni la scelta di come far pagare ai cittadini il deficit del bilancio sanitario, è inoltre una palese scelta di disimpegno dello Stato dalla sua funzione di garante di un servizio sanitario nazionale davvero solidale ed universale. A conferma di tale scelta sono da intendersi i ripetuti annunci mediatici della necessità di individuare non più i livelli essenziali, ma quelli minimi della prestazione sanitaria. Questo passaggio, qualora avesse luogo implica l’abbandono dell’idea che vi sia un diritto essenziale di salute da tutelare, ed al contrario, prefigura la scelta che ci siano delle prestazioni minime da erogare in base a vincoli di bilancio, peraltro diversi da regione a regione. Completa negativamente il quadro, già di per sé infausto, la scelta di rendere disponibile alla potestà delle singole regioni la possibilità di scorporare l’azienda ospedaliera dalle ASL. Si sta di fatto tornando alla sanità ante 1978 con le assicurazioni private in luogo delle mutue. Come questo possa avvenire, nel sostanziale silenzio dei cittadini e senza sollecitare risposte meno timide anche da parte delle forze politiche della sinistra, è cosa su cui riflettere. Allo stato attuale una delle spiegazioni più convincenti è quella secondo la quale l’immagine e la percezione che il cittadino ha del funzionamento reale del SSN, è di tale inefficacia, da aver prodotto sfiducia e disinteresse. Bisogna ridurre la distanza che c’è tra il modo in cui il SSN dovrebbe funzionare - ed invero da qualche parte funziona – e le condizioni reali di funzionamento con cui quotidianamente ci si misura. Se il processo prevenzione- cura- riabilitazione non è una dichiarazione d’intenti, ma la traduzione del diritto alla salute (non ad essere curato) garantito dalla Costituzione repubblicana, bisogna intervenire sul vero nodo del problema. Malgrado le valutazioni dell’ OMS dicano che il servizio sanitario nazionale è per qualità il secondo nel mondo, i tempi e modi di accesso alle prestazioni rimangono l’elemento principale su cui il cittadino costituisce il giudizio sul servizio. La 229 contiene precise previsioni in proposito che reclamano di essere applicate e che il sindacato dovrà rivendicare. Ma anche la nostra azione rivendicativa nel II livello di contrattazione dovrà farsi carico di focalizzare gli interventi sul territorio inteso come distretto socio-sanitario, comprensivo dell’essenziale medicina preventiva e del lavoro. La nostra azione dovrà essere improntata alla necessità di riportare in primo piano l’idea che, ciò che distingue il SSN da una rete di presidi ospedalieri, è il funzionamento di tutto ciò che c’è oltre l’ospedale. Nel territorio si realizza il diritto del cittadino donna, uomo, bambino, tossicodipendente, malato mentale o portatore di handicap ad avere risposta ai propri bisogni. Dovremo ancora una volta saldare la difesa dei diritti del lavoro con la qualità del nostro lavoro. Se la gente non percepirà la qualità del diritto del quale sta per essere privata, il passaggio al sistema assicurativo sarà inevitabile. Il mantenimento e l’ampliamento di una rete di protezione sociale richiede la partecipazione e l’intervento di soggetti che non sono più esclusivamente quelli pubblici . Il terzo settore è una realtà che và difesa e consolidata, che ha consentito di ampliare i servizi e di creare nuove e significative opportunità di occupazione e rispetto al quale va recuperato il divario di trattamento giuridico, economico e normativo ancora esistente tra i settori e dentro lo stesso settore. Ma, se si vuole evitare la nascita di 20 welfare regionali diversi l’uno dall’altro, né consentire che per questa via si creino condizioni di vero dumping contrattuale, bisogna definire un quadro di regole contrattuali che, dopo la legge sull’assistenza, stabilisca parità di condizioni per tutti e dia certezza di diritti sia ai lavoratori che ai cittadini. L’obiettivo in questa tornata contrattuale di costituire un contratto di settore, è una delle indispensabili condizioni per evitare che si crei una sorta di welfare su tre livelli, in cui sarebbero collocati lavoratori e cittadini: uno per i ricchi costoso e quindi per definizione accessibile a pochi, uno per i poveri relegati alla pura assistenza ed uno intermedio, via via più residuale, gestito dal pubblico. Nei prossimi mesi ed anni si scontreranno sul terreno del welfare due concezioni della società totalmente alternative tra loro: una individualista e competitiva, l’altra solidale, che, pur ponendo al centro l’individuo i suoi diritti ed i suoi bisogni, ne sollecita la realizzazione nei limiti imposti dai diritti dell’altro. L’esasperato individualismo sociale, che produce corporativismo e frantumazione, ha il suo contraltare politico nelle spinte alla separazione anche dell’ unità nazionale. La difesa quindi dello stato sociale solidale ed universalistico, costituisce il collante di un potente fattore di coesione sociale e nazionale, una sorta di anticorpo a tutte le volontà di segmentare la società e lo stato e risulta fondamentale per evitare che il divario tra il Nord ed il Sud del Paese si approfondisca ulteriormente. E’ infatti noto a tutti – e corredato da dati statistici – il fatto che i servizi pubblici al Sud risultano essere inferiori a quelli del Nord sia in termini quantitativi che in termini qualitativi. Il nostro lavoro nei servizi pubblici a partire quindi dal Mezzogiorno, può e deve dare in questo quadro un contributo determinante. Il nuovo assetto istituzionale
dopo il federalismo amministrativo e la riforma federale
Nello scorso quinquennio lo Stato, nella sua struttura amministrativa di governo ed istituzionale, ha subito profonde, significative, ma anche contraddittorie, modificazioni. E’ necessario in proposito tracciare un sia pure sintetico bilancio, allo scopo di riprecisare le prospettive e i confini della nostra azione. Il federalismo amministrativo, ha tentato di fornire una risposta ad una duplice richiesta di democratizzazione del rapporto tra cittadini ed apparato pubblico, e di efficientamento dei sistemi locali, alla luce del fatto che, i processi di globalizzazione e di integrazione europea, hanno ridefinito i livelli della competizione, che non avviene più esclusivamente tra i singoli stati, ma anche tra sistemi locali. L’intuizione di trasferire, al sistema amministrativo quanto più vicino al cittadino, la responsabilità di organizzare la risposta alla domanda di servizi alla popolazione, è stata giusta. Essa però ha dovuto fare i conti con una riforma istituzionale incompleta, che, lasciando inalterato il sistema di regioni province e comuni, ha reso impossibile dotare le città di reali potestà non solo legislative, ma anche amministrative. Nel contempo la riorganizzazione dei comuni con la esternalizzazione di tutte le attività a rilevanza imprenditoriale, attuata in un’ottica economicistica e spesso assecondativi delle tendenze liberiste ormai dominanti, può provocare semplicemente il passaggio dai monopoli locali agli oligopoli internazionali, da cui il sistema imprenditoriale, non solo locale, ma anche nazionale, rischia di rimanere escluso. Si è detto, prima, del problema del controllo sulla produzione e sulla distribuzione dell’acqua potabile cui, nel pianeta, circa un miliardo e mezzo di esseri umani non ha possibilità di accesso. Contrastare – in questo campo come in quelli del diritto alla salute, ad una alimentazione sana ed adeguata, all’istruzione – l’affermazione di poteri di mercato trans-nazionali liberi da effettivi vincoli di controllo, significa affermare, anche da parte del sindacato, che vi sono beni comuni dell’umanità che non sono disponibili per le mere logiche di mercato, perché corrispondono a diritti universali non negoziabili. Un impegno “globale” di questa dimensione può avere successo solo se ad esso si connette un’azione “locale” rigorosamente coerente. Questo processo di esternalizzazione sta comportando tra l’altro una frantumazione degli assetti contrattuali ed una proliferazione dei CCNL di riferimento, con una inevitabile compressione dei diritti dei lavoratori, una diminuzione nella qualità dei servizi ed una lievitazione dei costi e delle tariffe per l’utenza. La proposta avanzata dal Governo nell’ambito delle legge finanziaria, ma anche quella ipotizzata nei ddl di riforma della AA.LL. della scorsa legislatura, azzera l’autonomia decisionale degli Enti Locali in merito ai propri assetti e non prevede alcun incentivo alla costituzione di ambiti sovracomunali, lasciando di fatto inalterata una delle cause che impediscono una qualsiasi politica industriale nel settore che è l’evidente sottodimensionamento di queste imprese, così come non prevede l’opzione per le SpA a controllo pubblico. Ci vorrà quindi uno straordinario impegno del sindacato affinché la riforma dei servizi pubblici locali non peggiori le condizioni in essere, ma renda anzi possibile intervenire sulle condizioni del lavoro e sulla qualità dei servizi. In ogni caso bisognerà prevedere un nuovo strumento contrattuale in grado di trattenere in unico contenitore, tutti quei segmenti di attività, a rilevanza imprenditoriale e non, che stanno progressivamente uscendo dal comparto delle AA.LL., allo scopo di mantenere, anche per questi settori, la capacità di comprendere e rappresentare il ciclo del lavoro, evitando polverizzazioni contrattuali con gli effetti di cui si è già detto. La precedente legislatura ha anche approvato una legge, in attesa di referendum confermativo, di modifica della parte V della Costituzione. Si tratta di un provvedimento incompleto e per molti aspetti denso di rischi e di incognite. La scelta operata è quella di un federalismo di carattere regionalista che, tuttavia, ha una sua incoerenza di fondo con l’assetto istituzionale generale, a causa dell’assenza di una Camera delle Regioni. Ciò comporterà, in breve tempo, l’affermarsi di un federalismo competitivo e non cooperativo con le altre strutture dello stato. Inoltre sono del tutto evidenti i rischi di un processo di centralizzazione regionale, a tutto discapito del ruolo delle città e dei comuni. La scelta infine di affidare alle regioni potestà legislativa primaria in materia di tutela e sicurezza del lavoro, previdenza complementare e integrativa, che si somma all’effetto assortito del federalismo fiscale e della devoluzione in materia sanitaria, determina oggettivamente il rischio di differenziazioni tra territori su questioni che attengono ai diritti universali e che possono mettere a repentaglio la stessa contrattazione nazionale. Occorre ribadire la necessità di individuare strumenti di collaborazione e compensazione tra le regioni e tra queste e lo stato centrale, indispensabili per garantire in uno Stato federale quelle caratteristiche di solidarietà e cooperazione alle quali ci siamo sempre richiamati. Non possono essere tollerate alterazioni del sistema dei diritti del lavoro che, ad iniziare dalla più volte adombrata introduzione dei contratti regionali, scardinino non solo l’universalità del CCNL, ma anche, nei nostri settori, quello del welfare. Il lavoro pubblico e chi lo rappresenta ha, anche in questo caso, un contributo tutto proprio da offrire. Già l’esperienza in corso del decentramento amministrativo, mostra tutta la debolezza organizzativa delle amministrazioni regionali, che va al più presto superato attraverso coraggiose iniziative di riforma. Se prendesse corpo l’idea della Lega di devoluzioni consistenti, dallo stato verso le regioni, attuate secondo la capacità delle regioni di ricevere le materie devolute, il livello di capacità organizzativo e di funzionamento delle regioni, diverrà un fattore decisivo al fine di rendere inevitabile la creazione di un federalismo a geometria variabile. Se una tale scellerata ipotesi dovesse concretizzarsi, tanto varrebbe dichiarare rimossa da ogni panorama sindacale e politico la questione del MEZZOGIORNO. A fronte di un Governo che sembra aver cancellato dall’agenda la priorità del mezzogiorno, va riproposta all’attenzione generale e per intero la questione dello sviluppo di questa area del Paese. Non può essere consentito al Governo delle destre di azzerare l’esperienza della programmazione negoziata con l’unico fine di drenare risorse con le quali finanziare i finora inefficaci provvedimenti per lo sviluppo. E’ vero che questi strumenti hanno mostrato limiti e carenze, che attengono anche alla faragginosità delle procedure autorizzative centrali, ma, soprattutto, alla difficoltà da parte delle comunità locali di svolgere un ruolo attivo ed autonomo di promozione e di indirizzo del proprio sviluppo. E’ però altrettanto vero che, anche là dove le AA.LL. hanno tentato di assumere le responsabilità che a loro competono, si sono scontrate con un funzionamento delle Pubbliche Amministrazioni del tutto inadeguato. Il sindacato deve coraggiosamente impegnare tutte le proprie energie affinché le strutture pubbliche del meridione si adeguino rapidamente alle riforme già impostate. Anche in questo caso un impegno della CGIL e delle RSU sull’organizzazione del lavoro può produrre esiti decisivi. Va inoltre considerata la possibilità di rendere disponibile dal CCNL più risorse per la formazione e per i lavoratori che, nelle amministrazioni pubbliche, sono direttamente impegnati nella erogazione di servizi alle imprese e ai cittadini. I dirigenti, i militanti e gli iscritti della FP dovranno infine continuare rigorosamente a lavorare affinché non si attenui, ma anzi si accresca, nelle pratiche rivendicative, nei comportamenti quotidiani, nell’opera di denuncia non solo politica, la capacità di difesa dall’infiltrazione della criminalità organizzata, che rimane la vera zavorra dello sviluppo del mezzogiorno, oltre che una pesante ipoteca sulla vita democratica di quelle comunità e del Paese. Solo chi non conosce queste realtà, o, peggio ne è parte, può pensare di scendere a patti o convivere con la criminalità organizzata. La difesa della
contrattualizzazione del rapporto di lavoro bilancio e prospettive La tornata contrattuale appena trascorsa si è collocata nel quadro di profonda innovazione del Decreto legislativo 29/93, dovuta alle consistenti modifiche ad esso apportate da Massimo D’Antona, che fors’anche per questa sua opera di modernizzazione ed aggiornamento del lavoro nelle pubbliche amministrazioni, è stato ucciso dalle Brigate Rosse. Per comprendere quanto profonde siano le differenze tra il vecchio dl 29 e quello in vigore, è sufficiente confrontare i CCNL stipulati nel 1994 con quelli stipulati nel 1998. Ma tali differenze emergono ancor più nitidamente se si comparano i contenuti e i risultati della contrattazione decentrata del quadriennio 94/97 con quelli della contrattazione integrativa del quadriennio che si va a concludere. La stesura originaria del dl 29/93 era infatti finalizzata alla costruzione di un potente meccanismo di centralizzazione finalizzato alla riduzione della spesa per il personale, considerata come l’unico e più efficace antidoto al dilagare della spesa pubblica. Questo meccanismo aveva i suoi capisaldi nella concentrazione della sede di decisione della parte pubblica nel ministero del Tesoro e della Presidenza del Consiglio, nella pressoché totale dipendenza dell’ARAN dal Governo nazionale, nello scarso o nullo peso nella dinamica negoziale delle rappresentanze dei governi e delle funzioni locali (Sanità od AA.LL), ed in una sorta di simulazione della contrattazione integrativa i cui contenuti e le cui risorse erano centralmente pre-definiti. Si deve anche al successo dell’ azione rivendicativa della F.P. se questa struttura, peraltro anche poco coerente col sistema di relazioni sindacali derivato dal protocollo del 23/7/93 articolato sui due livelli di contrattazione, è stata demolita. Le risorse dei CCNL sono fissate nella L.F. con una “indicazione di massima” per quel che ci riguarda solo per il comparto dello stato e delle aziende, mentre la costituzione dei comitati di settore con propri autonomi poteri di indirizzo e controllo, per il comparto della Sanità e per quello delle AA.LL., ha reso i rappresentanti di parte pubblica di questi settori sostanzialmente titolari della responsabilità del negoziato dei loro CCNL. Ma per quel che riguarda il sindacato la vera novità, i cui esiti sono ancora in parte inesplorati, è senz’altro costituita da un reale livello di contrattazione integrativa. Tutti i CCNL sottoscritti in questo quadriennio affermano finalmente anche nelle pubbliche amministrazioni l’esistenza del II livello di contrattazione. La decisione di sfruttare fino in fondo le potenzialità, insite nel nuovo quadro normativo, ha inoltre consentito agli accordi nazionali di conferire al II livello di contrattazione il potere di intervenire sul sistema di classificazione del personale. Tale scelta nasce dalla radicata convinzione che occorreva dotare il sindacato e le RSU di uno strumento che fosse in grado di cogliere l’evoluzione del lavoro conseguente alla modificazione che nella organizzazione e nei cicli lavorativi, hanno indotto e stanno inducendo le ristrutturazioni e le modifiche istituzionali delle pubbliche amministrazioni. Con coraggio il gruppo dirigente di F.P. ha intrapreso questo percorso che è stato apprezzato dagli iscritti e dai lavoratori che hanno dato alla categoria il primato nelle elezioni delle RSU. La stagione contrattuale conclusa vista nel suo insieme I e II biennio è stata una stagione di radicale innovazione, frutto di modifiche convenute ma anche di lotte, una stagione quindi i cui contenuti devono essere oggetto di una riflessione, che, a fronte del mutato quadro politico ed istituzionale, costituisca il presupposto per la elaborazione di una proposta di prospettiva in vista degli imminenti rinnovi contrattuali. La piena attuazione di politiche capaci di tutelare il potere d’acquisto dei redditi da lavoro e di ridistribuire equamente gli incrementi di produttività, rimane un punto oggettivamente centrale della nostra iniziativa ed un obiettivo da perseguire ancora dinanzi all’incremento del divario tra andamenti di redditi da lavoro ed andamenti delle rendite finanziarie e dei profitti, che ha continuato a manifestarsi in questi anni. In questo senso rimane centrale l’esigenza di avere procedure certe ed esigibili di recupero del reale potere di acquisto delle retribuzioni in presenza di scostamento tra l’inflazione reale e quella programmata. E’ inoltre indispensabile acquisire già nel prossimo rinnovo contrattuale nazionale come risorsa aggiuntiva una quota, la cui destinazione sarà oggetto di negoziato, della produttività di settore che per i settori nei quali non è identificabile con certezza, può essere desunta dall’incremento del PIL. La proposta che va ribadita, già avanzata nell’assemblea generale dei quadri e delegati di Roma del 5/05/2000, della introduzione nel CCNL di una sede contrattuale esigibile, nel caso di uno scostamento tra inflazione attesa e verificatasi superiore allo 0,5%, nel corso del primo trimestre dell’anno successivo all’accordo sul CCNL, nella quale ripristinare nei salari la coincidenza tra i due tassi, va in questa direzione e resta l’ obiettivo da raggiungere sin dal prossimo rinnovo contrattuale nella consapevolezza del conflitto che, anche su questo punto si annuncia rispetto agli orientamenti che, in totale contrasto con queste esigenze, il Governo di centro-destra ha finora enunciato e praticato. Bisogna inoltre considerare come, anche se in forma attenuata rispetto al primo DL 29, rimane non risolta la questione del rapporto tra la piena libertà contrattuale delle parti nel negoziato e gli strumenti di individuazione delle risorse, che sia pure stanziate da più soggetti /stato/ regioni/ Autonomie locali/, dipendono dalle leggi fondamentali di bilancio (DPEF, Legge Finanziaria). La definizione delle risorse per i CCNL pubblici in sede di sessione di verifica di politica dei redditi, all’atto della predisposizione della L.F., consuma, nei fatti, ad un livello molto centralizzato, ed espropria un pezzo consistente del negoziato tra la categoria e l’ARAN. Ciò vale, anche se solo di riflesso, per i comparti a finanza locale, se si tiene conto dei vincoli imposti dal patto interno di stabilità conseguente agli impegni assunti in sede comunitaria. Non è un caso che, proprio a conclusione della stagione contrattuale delle AA.LL e della sanità, sia tornata a farsi sentire con forza la voce delle magistrature di controllo che pretendono in sostanza di imporre nuovi vincoli al contratto integrativo ed al rapporto tra finanza nazionale e locale, quando queste concorrono alla spesa per il contratto. Tutti questi fattori interagiscono in un quadro politico ed in una volontà del Governo nel quale si confrontano apparentemente due filoni diversi, che hanno però come elemento comune, la volontà di ridimensionare il peso ed il ruolo dei lavoratori e delle loro organizzazioni in tutti gli aspetti del rapporto di lavoro. Non appare infatti ancora chiaro se il peso del CCNL sarà ridotto attraverso il trasferimento di molti suoi contenuti al livello regionale od aziendale, oppure, nei nostri settori pubblici, con un ritorno alla lettera ed allo spirito del primo D.L.29, nel quale diminuire il peso della legge nel rapporto di lavoro, non serve ad aumentare il peso della contrattazione, bensì quello del potere unilaterale, proveniente dal centro burocratico e politico, della dirigenza amministrativa. Nel primo caso è evidente che trasferire alcuni contenuti del CCNL è un’altra via per cancellarli. La difesa delle retribuzioni reali di tutti affidata a livello regionale o peggio aziendale, implica inevitabilmente la cancellazione della natura solidale ed universale di questa azione rivendicativa. Nel secondo caso si ritornerebbe ad una visione, tipica della scuola di Cassese, secondo la quale il processo di trasformazione ed ammodernamento delle pubbliche amministrazioni, può avvenire solo senza e forse contro il lavoro pubblico che, lungi dall’essere considerato una risorsa, viene valutato un peso una zavorra per qualsiasi ipotesi, di cambiamento. Se prevalesse quest’ultima ipotesi è evidente che il punto d’attacco sarà inevitabilmente il II livello di contrattazione che, proprio per il nesso che stabilisce tra il ciclo lavorativo e le condizioni del lavoro, costituisce un fattore formidabile d’intervento del lavoro pubblico sulla natura e la qualità dei servizi erogati dalle pubbliche amministrazioni. Si tratta di due facce della stessa medaglia: ridurre/eliminare il contratto nazionale e la forza collettiva dei lavoratori, cioè la loro organizzazione sindacale. Pertanto il sindacato deve sottrarsi al falso dilemma tra il contratto nazionale e quello integrativo. C’è bisogno infatti di contratti nazionali più forti, in grado di estendere le proprie tutele, includendo lavoratrici e lavoratori che lavorano nel nostro stesso ciclo, ma che vivono in condizioni contrattuali normative ed economiche del tutto ed ingiustificatamente differenti. E’ in questo livello che il sindacato confederale di categoria dovrà affrontare i temi relativi ai rapporti di lavoro atipici, sempre più presenti nei nostri settori, salvaguardando e inserendo nuove norme a tutela delle lavoratrici e dei lavoratori precari: il lavoro a termine – nelle sue diverse forme- che sta assumendo pesi a volte rilevanti e che oggi più di ieri pone l’esigenza di tutela contrattuale; il part-time imposto (da assunzione) oltre che quello scelto (da trasformazione); le collaborazioni coordinate, che pur non configurandosi come dipendenti, necessitano di intervento contrattuale collettivo. Si tratta di operare per mettere argini al meccanismo del “licenziamento insito nell’assunzione”, che rende lavoratori e lavoratrici più ricattabili. Si tratta, anche per questa via, di mettere un argine al tentativo di rendere poco praticabile l’associazione tra lavoratori, cioè di rispondere con forza all’attacco all’associazione sindacale. Analogamente nel CCNL dovremo consolidare e rafforzare le parti normative tese a tutelare ed agevolare il lavoro delle donne, a partire dal riconoscimento professionale delle attività normalmente svolte dalle donne, così come individuare obiettivi strategici che rendano esigibili le condizioni di prevenzione salute e sicurezza nei luoghi di lavoro. Parimenti si deve coraggiosamente riconoscere che i contratti integrativi vanno robustamente innervati di contenuti che non abbiano carattere esclusivamente risarcitorio, ma che siano più incisivi sulla condizione effettiva del lavoro. E’ in questa sede che dovrà diventare centrale la contrattazione sull’organizzazione del lavoro e tutte le sue connessioni; l’articolazione degli orari che faciliti la conciliazione dei tempi di vita con i tempi di lavoro; il controllo degli orari di fatto; l’intervento contrattuale, congiunto con i RLS, sulla prevenzione, superando l’errata e negativa dicotomia esistente; il raccordo con le rappresentanze sindacali dei lavoratori presenti nello stesso luogo di lavoro regolati da altri CCNL; la verifica – ed eventuali correzioni – della applicazione delle pari opportunità nei nuovi ordinamenti professionali. Non è certo necessario disconoscere i contratti integrativi sin qui stipulati. Essi hanno invece costituito un fattore reale di avvicinamento tra le OOSS ed i posti di lavoro ed hanno rappresentato il nucleo forte di un’azione rivendicativa intorno al quale si sono consolidate le RSU. In questo quadro un approfondimento di riflessione è richiesto per le funzioni centrali la cui contrattazione integrativa/nazionale confina le RSU di questi comparti in un ruolo oggettivamente non paragonabile a quello svolto negli altri. Ma se al di là delle dichiarazioni di principio e/o di buone intenzioni, si vuole davvero dare concretezza al rapporto tra qualità del lavoro-qualità del servizio, bisogna affrontare vigorosamente questioni quali quelle degli orari di fatto, dell’organizzazione del lavoro, della formazione professionale e della regolazione della flessibilità nella prestazione lavorativa. Una nuova stagione per il contratto integrativo richiede ovviamente un adeguamento del ruolo e delle funzioni della dirigenza, perlomeno di quella parte che vuole l’innovazione della Pubblica Amministrazione. L’autonomia attribuita ai dirigenti conseguentemente all’introduzione della contrattazione integrativa, unitamente alla responsabilità delle funzioni proprie nel raggiungimento dei risultati, è stata vissuta dai dirigenti come una contraddizione. Molti dirigenti hanno teso e tendono ad escludere che la contrattazione sia uno strumento per migliorare il funzionamento delle strutture pubbliche. Questa convinzione comporta, da un lato tendenze autoritarie o autoreferenziali, dall’altro, l’assunzione del vincolo della contrattazione, come grande alibi per la propria incapacità ad assumersi la responsabilità di decidere. E’ necessario che la dirigenza assuma la contrattazione come parte fondamentale del processo di formazione della decisione, processo nel quale deve rimanere estranea ogni tentazione corporativa, ma, dal quale, chi rappresenta il lavoro non può essere escluso. In questo quadro è del tutto evidente la necessità di difendere la separazione, così faticosamente conquistata nel dopo tangentopoli, tra la politica e l’amministrazione. L’attuale assetto dei rapporti tra la dirigenza e l’autorità politica definito dalla Bassanini e dai CCNL, pur con i suoi limiti e contraddizioni, non va travolto. Deve pertanto essere respinto il tentativo del Governo di centro-destra di introdurre forme di spoil-system generalizzato che tendono a rendere la dirigenza tutta, anche quella di secondo livello, totalmente asservita allla politica. I guasti profondi che anche nel tessuto delle garanzie democratiche possono essere provocati, come nel caso delle agenzie fiscali, dal venir meno della neutralità della azione amministrativa sono davvero rilevanti. Senza contare che ne consegue nell’equilibrio del negoziato tra le parti. Un dirigente non autonomo dalla politica non ha interesse a partecipare attivamente all’organizzazione del proprio ufficio e di conseguenza al negoziato. Non c’è qualità senza partecipazione, né parimenti ci sarà se la dirigenza non si assumerà le sue responsabilità. Si potrebbe quindi dire, a fronte dell’ipotesi di de-contrattualizzazione (leggi ri-legificazione) che verrà proposta, con uno slogan “più contratto nazionale più contratto integrativo”. Ma trasformare lo slogan in pratica
rivendicativa, significa uscire da una logica meramente difensiva,
rilanciando e, per così dire, ampliando la piena contrattualizzazione
del rapporto di lavoro. Questo indirizzo si incardina nella L. 300, lo Statuto dei lavoratori. Il quadro più generale rende peraltro politicamente utile il fatto che, mentre lo Statuto è oggetto di attacchi, se ne reclami una sua estensione. Né può essere assunto come giustificazione, per quanti lo vogliono oggi superare, il dire che molti lavori ne sono oggi esclusi. Non si è mai avuto un processo di inclusione ad un diritto, di soggetti sin a quel momento esclusi, sottraendo a quella rete di protezione quanti fino a quel momento vi stavano. Un nuovo Statuto non può che nascere quindi dalla conferma della L. 300 e da una ulteriore, e quanto più spinta, integrazione tra le norme del lavoro pubblico con quello privato. In questo quadro bisogna sempre rammentare che la nostra categoria non è composta solo da dipendenti pubblici, anzi nostro obiettivo è ridurre il dumping presente tra lavoratori e lavoratrici dei settori pubblici e privati che noi rappresentiamo anche attraverso la contrattazione collettiva. Fermo restando lo stesso impianto di richieste economiche e il medesimo valore dei due livelli contrattuali e delle loro finalità, la FP nel suo insieme – e non solo i singoli settori interessati - è impegnata ad approfondire i temi specifici che li riguardano: dall’unificazione contrattuale al tema degli ammortizzatori sociali, dall’estensione dell’applicazione dello Statuto dei Lavoratori alla legge sulla rappresentanza da conquistare, dalla corretta applicazione delle nuove previsioni di legge sul socio-lavoratore alla effettività della prevenzione salute e sicurezza; tutto ciò in pieno raccordo con le RSU degli enti appaltanti/affidatari in merito ai contenuti dei capitolati d’appalto, le garanzie delle applicazioni contrattuali e di legge, ecc. Democrazia, unità, autonomia
sindacale alla luce della esperienza delle RSU nella nuova fase Se il lavoro che si profila per i prossimi anni ha le caratteristiche e, il livello di difficoltà che si è cercato di descrivere, si porrà per intero al sindacato ed alla F.P, la necessità di attrezzare un’azione rivendicativa che sia rigorosamente incardinata su una grande autonomia progettuale. Un sindacato cioè che sia in grado il più possibile di precostituire posizioni di merito sulle singole questioni che si troverà ad affrontare, che sappia in sintesi avere un proprio progetto di salvaguardia dei diritti, e delle condizioni materiali di lavoro e di vita, di ammodernamento della società e di crescita della sfera di inclusione sociale. La F.P. riconferma quindi per questa via un tratto costituente e fondante del suo agire: la totale autonomia dalle controparti pubbliche e private. Il tema dell’autonomia ha una particolare declinazione nel settore pubblico, le cui controparti si sovrappongono con grande frequenza al potere politico. La riconferma dell’autonomia dai governi nazionali o locali e dai partiti non può essere intesa come autonomia dal quadro politico. Un governo nazionale o locale che propugnasse, ad esempio, la riduzione del welfare o, la riduzione o non inclusione nella sfera dei diritti contrattuali di soggetti vecchi o nuovi di servizi pubblici, sarebbe necessariamente contrastato dall’ azione sindacale. Si tratta quindi di attestare le nostre posizioni su scelte di merito e di valore che siano, inequivocabilmente, da tutti i nostri iscritti e dai lavoratori, percepite come tali. Sarà così più facile respingere versioni caricaturali che delle posizioni di merito che via via assumeremo daranno le controparti ad osservatori, questi sì tutt’altro che autonomi, se le nostre posizioni e le nostre idee saranno contenute in un progetto noto e condiviso dai nostri iscritti e dal più largo numero di lavoratrici e lavoratori possibile. E’ del resto questo in gran parte il senso ed il fine che si pone questo stesso documento. La costruzione di un progetto condiviso ha, tra i suoi presupposti, la partecipazione quanto più vasta alla sua definizione da parte dei soggetti destinatari. Ma richiede allo stesso modo un paziente, anche se faticoso, confronto con le altre OOSS confederali di categoria. Il tempo trascorso dall’ultimo congresso è stato un tempo denso di grandi aspettative sull’unità sindacale ma di altrettante grandi disillusioni. Siamo passati da una fase nella quale la costituente per l’unità sembrava alle porte, ad una fase nella quale persino l’unità d’azione appare un obiettivo difficile da perseguire. Siamo ora di fronte ad un bivio: si può consentire che la consapevolezza di quanto, e non è certo poco, ci separa dalla concezione della democrazia di mandato, per arrivare fino alla natura stessa del sindacato, passando per la concezione dei diritti e dell’eguaglianza dei soggetti da tutelare, irrigidisca le posizioni in campo e scavi un solco incolmabile tra le OOSS confederali. Oppure possiamo, non sottacendo le differenze, valorizzare, avendo a mente la comune radice riformista e la eguale funzione di rappresentanza di interessi, ciò che ci può unire. La costruzione quotidiana e paziente dell’unità possibile è del resto cosa nota e consolidata nella categoria, dalle RSU fino ai livelli nazionali. Il fatto che nella categoria, pur avendo ovviamente risentito del contesto più generale, non si sia determinata una rottura dei rapporti unitari paragonabili a quella determinatasi in altri settori, deve avere una spiegazione che non può risiedere nel grado di buon senso dei gruppi dirigenti aziendali, territoriali, regionali o nazionali. Pesa positivamente nella categoria la soluzione data al nodo per tutto il resto del mondo del lavoro irrisolto, della rappresentanza. La legge sulla rappresentanza nel settore pubblico, che rappresenta lo straordinario lascito di Massimo D’Antona, ha innestato sul terreno dei rapporti unitari un nuovo soggetto sindacale che ne ha di fatto modificato la natura. Con le elezioni del 1998 sono entrate in gioco, nelle relazioni tra le parti o tra le lavoratrici i lavoratori e le OO.SS., più di 11.000 RSU. E’ sufficiente ragionare sul fatto che, simulando in maniera evidentemente sottostimata la rappresentanza delle liste della F.P. in tre componenti per ogni RSU, vi è una enorme squadra di oltre 30.000 militanti, donne e uomini, che ogni giorno nei posti di lavoro rappresentano la CGIL e chiedono al sindacato nel contempo direzione politica ed autonomia, per rendersi conto dello straordinario elemento di novità rappresentato dalle RSU. Questo vale, ovviamente in misura proporzionale alla rappresentatività conseguita anche per le altre organizzazioni. Questo soggetto, per il sol fatto di esistere, per la concretezza delle questioni con le quali quotidianamente si misura, ha contribuito a far si che il sindacato nei settori pubblici, anche nelle fasi più turbolente, mantenesse un filo da cui ripartire per ritessere la tela del rapporto unitario. E’ stato così nelle vertenze fatte unitariamente in occasione delle finanziarie 1999 e 2000, per la salvaguardia della contrattazione integrativa e per le risorse per i rinnovi contrattuali. Ed è stato così in occasione della vertenza del contratto della sanità, con un grande sciopero e la manifestazione del 30/03/2001. La eventuale messa in discussione del contratto integrativo, si scontrerebbe oggi con un soggetto che esiste, si vuole consolidare e il cui ruolo di rappresentanza e tutela nella condizione del lavoro è stato compreso dal lavoro pubblico. Allo stesso modo eventuali tentativi di eliminare, o attenuare, il vincolo della democrazia di mandato non saranno consentiti né da FP né dalle RSU. La presenza delle RSU ha provocato il nascere in qualche caso di una dialettica tra le OOSS e le stesse RSU. Questi fenomeni, del tutto prevedibili in questa fase, nascondono in qualche caso un duplice rischio. Da un lato la tendenza del sindacato a ridurre le RSU ad una sorta di propria appendice si è presentata non solo in CISL e UIL, ma anche tra di noi. Dall’altro lato le RSU, chiuse in qualche caso in una sorta di autosufficienza politica derivante da un presunto primato di rappresentanza diretta dei lavoratori, hanno assunto atteggiamenti e comportamenti aziendalistici se non addirittura neo-corporativi. Per questo si è già detto vi è bisogno paradossalmente di più autonomia e di più direzione politica. Il rapporto tra le RSU e l’organizzazione non può essere burocraticamente affrontato e risolto. E’ invece necessario che, nella fase di consolidamento che seguirà alle nuove elezioni, resa irrevocabile la scelta della democrazia di mandato e del superamento del centralismo contrattuale, si lavori per superare ogni rischio di aziendalismo avendo la capacità di correlare le rivendicazioni del posto di lavoro col quadro più generale di difesa del sistema pubblico dei servizi, rendendo evidente il nesso tra qualità del lavoro e del servizio reso. Nel contesto politico attuale le spinte alla frammentazione corporativa sono destinate ad essere incentivate e, solo un chiaro inquadramento della contrattazione integrativa nella logica e nella proposta del sindacato generale e solidale, può mantenere il potere di iniziativa e di scelta nelle mani dei lavoratori, senza che sia messa a repentaglio la natura confederale del nostro progetto di rappresentanza del lavoro pubblico. Rendere permanente e normale l’esistenza delle RSU, confermare in esse la rappresentatività delle OO.SS confederali, aiuterà la iniziativa più generale della CGIL per la legge sulla rappresentanza in tutti i settori –compresi quelli privati da noi organizzati -, e sgombrerà definitamene il campo da ogni ipotesi di ritorno del lavoro pubblico ad un sindacato corporativo e consociativo. Nel farlo dovremo inoltre essere consapevoli che il tema della rappresentanza e le sue regole è tema che deve riguardare anche le associazioni datoriali. Questa forte determinazione si accompagna alla scelta costante della democrazia di mandato, che per la FP implica la scelta di utilizzare tutti gli strumenti – consultazione, voto, referendum, ect -che rendono concreto ed esigibile per le lavoratrici e i lavoratori il diritto di decidere sui propri contratti. Analogamente forte è l’impegno per un sempre maggiore riconoscimento della differenza di genere, che si concretizza sia nella applicazione della norma antidiscriminatoria e valorizzazione delle compagne nei ruoli di direzione della federazione, nelle elezioni delle RSU e dei RLS sia nelle scelte politiche, caratterizzando ulteriormente l’azione sindacale della categoria a forte presenza femminile. La FP riconferma la propria scelta storica di federazione delle lavoratrici e dei lavoratori dei servizi pubblici, che correttamente ha portato al superamento dei diversi sindacati di comparto. Ciò porta oggi a una complessa articolazione, orizzontale e verticale, il cui equilibrio va ricercato quotidianamente nel rispetto di quella scelta e dello Statuto. Il rapporto con le RSU, tra gli eletti nelle RSU e comparti, tra comparti e organismi dirigenti richiedono un’attenzione costante e ci impegnano, dopo lo svolgimento del Congresso nazionale, a un momento specifico di discussione, per dare applicazione alle norme regolamentari previste dal nostro Statuto. Scadenza che potrà essere utilizzata anche per affrontare temi quali il nostro rapporto con i giovani, il proselitismo, il rapporto tra RSU e RLS, oltre a una riflessione sulle modalità del nostro lavoro rendendole meglio conciliabili con i tempi di vita di ciascuno e che permetta alle donne e alle nuove generazioni di accedere appieno alla militanza sindacale. novembre 2001 |