Articolo di Alessandro Ruggini
Per la prima volta nella storia della Repubblica Italiana un governo vara una riforma pensionistica senza un confronto con le parti sociali, ricorrendo al voto di fiducia e affermando apertamente che a quest’ultimo d’ora in poi farà ricorso per qualsiasi altro provvedimento. Questo perché il governo intende varare misure che non contengono alcuna vera proposta di riforma, si tratti della scuola o delle pensioni. La direttrice su cui si muove è infatti quella di ridurre drasticamente le prestazioni dello stato sociale per fare cassa da un lato, e dall’altro per mettere sul mercato, privatizzandoli, servizi e prestazioni sociali. Da questo punto di vista l’intervento sulla previdenza pubblica obbligatoria per fare cassa e quello sulla previdenza complementare che parifica tutte le forme complementari, dai fondi aperti alle polizze assicurative ai fondi pensione negoziali, è emblematico. La scelta dichiarata è quella di affrontare i gravissimi problemi economici del paese, causati e lasciati marcire da un governo che non ha alcuna proposta di sviluppo economico, attraverso i tagli alle pensioni. Infatti le uniche operazioni realizzate sono esclusivamente delle “una tantum” nelle quali i condoni e le cartolarizzazioni, compresa quella dei crediti Inpdap verso i dipendenti pubblici pari a circa 5 miliardi di euro, sono diventati un dato strutturale. Senza queste misure il deficit pubblico sarebbe già al 4,5 per cento del P.I.L., quindi ben oltre i limiti posti dalla comunità europea. E la chiamano riforma L’attacco al sistema previdenziale si è sviluppato sostanzialmente su due direttrici. La prima ha riguardato l’equilibrio finanziario, che a parere del governo è talmente precario da non consentire il pagamento delle prestazioni previdenziali. Niente di più falso, in quanto con la riforma Dini l’andamento della spesa previdenziale si è attestato intorno al 13,7 per cento del P.I.L., senza mostrare una evidente tendenza a salire ulteriormente, tranne che nel 2031, anno in cui salirà di un punto e mezzo per poi tornare rapidamente ai valori sopra indicati. Inoltre i successivi interventi del governo Amato, hanno portato la crescita della spesa pensionistica al netto delle indicizzazioni del costo della vita dal 6 per cento medio annuo degli anni novanta al 2 per cento medio annuo dei primi anni 2000. Questo ultimo dato coincide sostanzialmente con la crescita potenziale del nostro P.I.L.: tanto è che la stessa commissione governativa che doveva valutare l’andamento della spesa pensionistica ha espresso un parere positivo sui conti della previdenza. Una “riforma “contro i giovani La seconda direttrice punta a presentare le misure come necessarie per non penalizzare i giovani. In realtà la vera penalizzazione nei confronti dei giovani è determinata dalla strategia di politica economica complessiva sostenuta dal governo, che affronta la competizione globale esclusivamente attraverso la compressione dei costi, destrutturando e precarizzando il rapporto di lavoro come alternativa alla svalutazione monetaria competitiva non più praticabile. La conseguenza è che i giovani non possono godere di una copertura previdenziale obbligatoria né possono costruirsene una complementare adeguata, poiché ciò è possibile soltanto in presenza di una buona e stabile occupazione. Il risultato è che molti di loro avranno una copertura previdenziale pari al 35 per cento del loro ultimo stipendio, cioè inferiore all’assegno sociale, condannandoli così ad una vita senza un progetto per il futuro. La tutela previdenziale come quella più complessiva del Welfare non può infatti prescindere dalla qualità dello sviluppo economico ed occupazionale. Non può esserci una buona inclusione sociale senza uno sviluppo economico di qualità, come non può esserci quest’ultimo senza politiche inclusive di sostegno. Una “riforma” contro le donne” La proposta di innalzare, a partire dal 2008, a quaranta anni il requisito minimo contributivo e a 60 anni l’età minima per il diritto alla pensione, che salirà a 62 anni nel 2014, elimina di fatto le pensioni di anzianità con grave danno per tutte le lavoratrici ed i lavoratori. E per quel che riguarda in particolare le lavoratrici, siamo in presenza di un grande inganno. E’ vero che possono andare in pensione con trentacinque anni di contributi e cinquantasette anni di età, ma il calcolo sarà effettuato con il sistema contributivo, con una conseguente, rilevantissima riduzione della pensione. Infatti non si tratta del classico calcolo con il sistema contributivo previsto dalla riforma Dini in quanto esso è attenuato dai coefficienti di valutazione. Tali coefficienti non esistono anteriormente alla riforma Dini percui il calcolo contributivo cui fa riferimento la delega è un calcolo, allo stato attuale, senza rivalutazione. Si tratta di proposte inaccettabili perché cancellano le pensioni di anzianità e con la loro estrema rigidità stravolgono radicalmente l’impostazione flessibile della riforma Dini, creando una condizione di assoluta ingestibilità sulla quale si dovrà intervenire necessariamente con politiche assistenziali ben più costose. Lo stesso “super-incentivo” del 32,7 per cento dell’ultima retribuzione per coloro che ritardano di almeno due anni l’uscita dal mondo del lavoro è inutile, inefficace e rischia di diventare un boomerang per il lavoratore. Infatti il 60 per cento dei lavoratori utilizza la pensione di anzianità perché è il datore di lavoro a chiederlo e quindi non sarà facile “esigere” questo “diritto”, come lo presenta il governo. Inoltre gli eventuali anni di “bonus” non danno alcun diritto all’aumento di prestazione previdenziale, il che si rivela un danno per il lavoratore e introduce il grave principio della retribuzione senza contribuzione previdenziale. I “privilegi” dei dipendenti pubblici La delega, poi, riserva un trattamento particolare ai lavoratori pubblici che vengono considerati destinatari di trattamenti privilegiati, brandendo l’arma della parità tra pubblici e privati. Tutti sanno che questa parità già esiste nella normativa in essere e che a partire dal 2004 spariscono le differenze tra i diversi regimi nel caso in cui si ricorra alla pensione di anzianità, tanto che già oggi la media effettiva dell’età di pensionamento dei dipendenti pubblici è la stessa dei dipendenti privati, cioè intorno ai 60 anni. Dal 2008 sarà uguale il periodo di riferimento per il calcolo della media della retribuzione perché sarà ricompreso tutto il salario accessorio così come avviene nel regime privato. Infatti un’equa unificazione dei trattamenti deve contenere sia la parità temporale della media retributiva sia l’imponibile su cui si calcola la pensione, altrimenti si tratterebbe soltanto di proposte punitive nei confronti dei lavoratori del pubblico impiego. In realtà i pubblici dipendenti si trovano in una condizione svantaggiosa perché parti importanti della riforma Dini non sono state applicate per responsabilità del governo, in primo luogo la possibilità di costruirsi la previdenza complementare con la conseguente mancata copertura di circa l’1 per cento annuo. Se poi si considera che la loro liquidazione, che con l’attuale inflazione non è quasi mai conveniente rispetto al TFR, è finanziata anche con un contributo a carico del lavoratore, si comprende che l’ accusa di essere dei privilegiati suona come una beffa. La delega contiene misure molto gravi sulla previdenza complementare, in particolare per quel che riguarda la parificazione dei fondi aperti e dei piani pensionistici individuali ai fondi pensione contrattuali. La decisione del governo infatti modifica radicalmente la riforma Dini che prevede che il secondo pilastro sia costituito da forme pensionistiche collettive e riservava ai piani pensionistici individuali la costruzione del cosiddetto “terzo pilastro”. Inoltre nella delega la parificazione è certa soltanto in materia di trasferibilità del contributo aziendale e del TFR verso le forme di previdenza complementare sopra citati, mentre sono ancora da definire le regole di parità relativamente alla trasparenza, ai costi e alla “governance”. Tutto ciò è inaccettabile quando ci sono in gioco quindici miliardi di euro di flussi finanziari annuali derivanti da risorse dei lavoratori.
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