Dal mezzogiorno problema… al Mezzogiorno per lo sviluppo del Paese

Un nuovo ruolo del pubblico: occupazione, coesione sociale e legalità

Napoli, 22 settembre 2005


Relazione introduttiva di Antonio CRISPI


 

Le ragioni per cui avviamo questo confronto  interno alla nostra organizzazione e quelle per cui abbiamo sollecitato contributi di istituzioni e organizzazioni sociali diverse, risiedono, nella scelta della nostra categoria maturata assieme alla Cgil, di porre in termini diversi la discussione e l’iniziativa nel Mezzogiorno.

Il titolo che vi abbiamo proposto si muove in questa direzione; consapevoli che l’ottica di riferimento indicata, sia comprensibile e condivisibile  dalla maggioranza dei cittadini meridionali, che si presentano sulla scena nazionale ed internazionale avanzando crediti, innanzi tutto nei confronti dello stato nazionale che, storicamente, è stato molto contraddittorio o poco coerente ed attento (per usare un’espressione eufemistica), nella politica per il Mezzogiorno.

Senza voler ripercorre la storia, per ragioni di tempo ma soprattutto perché non né ho la competenza, credo che non vi siano dubbi, così come sosteniamo nel documento di base del dipartimento del Mezzogiorno, che la nascita dell’Italia industriale, nel suo processo di sviluppo escluse il sud del paese, che unitamente al fenomeno delle emigrazioni transoceaniche delle popolazioni meridionali, furono i fattori che agli inizi del 900 contribuirono al determinarsi della “questione meridionale” affrontata in quegli anni con una “politica del risarcimento”, e così continuata nel secondo dopoguerra.

Il “Risorgimento Meridionale” esprimeva alle origini, sicuramente una “domanda di stato”, alla quale, il meridionalismo della politica del risarcimento ha creduto di poter rispondere semplicemente con un’offerta statale di mezzi finanziari.

Da qui il sostanzioso trasferimento finanziario verso il sud, che connotò la nuova “democrazia italiana” come una sorta di “democrazia oblativa”, perché parte integrante della costruzione di un Welfare State all’italiana.

Nello scorso quarantennio vi è stata per questa via, una crescita di reddito considerevole. La crescita del reddito, però, non vuol dire necessariamente sviluppo, se per sviluppo intendiamo una maggiore capacità di produzione endo­gena, possiamo definire la situazione meridionale come di sviluppo con scarsa autonomia.

Cer­to il reddito industriale è aumentato, ma il suo contributo alla forma­zione del reddito complessivo degli abitanti meridionali resta basso, come pure il contributo del Sud alla produzione industriale del Paese.

Reddito, consumi, ma non capacità, in altre parole, di “produrre” reddito, costruendo una società più agiata ma non in grado di mantenersi da sé.

La dotazione infrastrutturale, d'altro canto, in campo economico (risorse energetiche e idriche, comunicazioni, servizi alle imprese ecc.) e in campo sociale (istruzione, sanità, servizi ecc.) è cresciuta meno dell’incremento del reddito.

L'estensione dell'intervento pubblico, che si è verificata nel dopoguerra, ha ampliato le opportunità per la classe politica di destinare le risorse in modo di massimizzare la loro divisibilità a fini di con­senso.

In que­sta area rientrano proprio i beni comuni, che sono per loro natura non divisibili, e che sono essenziali per qualificare l'ambiente sociale ed economico: la scuola, la formazione, i servizi sociali, i servizi alle imprese.  

Non si può governare una società complessa e dif­ferenziata con interventi centralizzati che non fanno assumere responsabilità alle istituzioni locali e regionali e quindi fini­scono per aumentare il circolo vizioso della dipendenza.

Senza una maggiore capacità di governo decentrata e una società civile più attiva sulla scena sociale e, nello stesso tempo autonoma dalla politica, non può esserci sviluppo. Essa non implica un ritorno al passato dell’intervento pubblico e la rinuncia all’iniziativa privata a sostegno dello sviluppo, ma può invece stimolare la responsabiliz­zazione della classe politica e della società locale, e può riconciliare le esigenze della solidarietà con quelle dell'efficienza.

Come scrive Piero Bevilacqua, nella “ Breve storia dell’Italia Meridionale”,valeva nell’ottocento vale tutt’oggi: che anche “una rivoluzione se passiva” non poteva allora e non può oggi avere successo perchè “ subita e non intrapresa dalle forze sociali  del Mezzogiorno”.

Questo modello oblativo/assistenziale è entrato in crisi con la fine della cosiddetta “Prima Repubblica” in un difficile momento del settore politico ed istituzionale.

Gli anni novanta, infatti, hanno visto solo a fasi alterne modelli positivi di sviluppo del Mezzogiorno.

Il secondo Governo Berlusconi ha letteralmente affossato tutte le speranze e le opportunità di crescita dell’Italia Meridionale, inaugurando una politica non oblativa, ma potremmo dire, punitiva. Dal drastico taglio di trasferimenti agli Enti Locali ai condoni edilizi, che nel sud significa premiare l’illegalità per rimpinguare le casse dei Ministeri; dal sud come “cavia passiva” di un diluvio di Grandi Opere non realizzate e/o non realizzabili, alla necessità di dover convivere quasi amorevolmente con la mafia, dalla devolution come modello di egoismo regionalistico e strumento di scambio politico con la Lega, al sud come gigantesca portaerei della guerra verso l’oriente, ad una selvaggia privatizzazione, penalizzando lo sviluppo di un’area che aveva e mantiene possibilità e occasioni economiche e produttive d'alto livello che  sono diverse da quelle che, scioccamente, sono indicate da ambienti sociali e politici obsoleti che immaginano la nostra area meridionale  come un luogo “circoscritto” e “caratteristico” che può avere sviluppo solo in produzioni “tipiche e locali”, e non, in un processo produttivo corposo capace di competere nella globalizzazione, pur non negando anzi esaltando le specificità e le opportunità presenti sul proprio territorio a partire dalla ricchezza naturale e culturale.

Bisogna aprire, anche un confronto con l'UE che sembra non mantenere le scelte d'intervento finanziario e produttivo nei confronti delle nostre aree meridionali com'era già stato preventivato. Nello stesso tempo affermare il Mezzogiorno come luogo privilegiato di una politica euro-mediterranea che possa contare su una banca d’affari del mediterraneo da costruire ed allocare nel Mezzogiorno, con un’intesa che veda coinvolti: la Bei, le Regioni, gli imprenditori.

E’ nell’ambito di questa scelta di un ruolo del Mezzogiorno nella politica euromediterranea che deve svolgere una funzione conseguente, il Coordinamento delle Regioni Meridionale, che è stato costituito recentemente che noi abbiamo salutato come necessario nella misura in cui intende coinvolgere i soggetti sociali e gli stessi paesi a cui vuole rivolgersi. 

Nel Mezzogiorno vi è consapevolezza attorno a questi punti, decisivi, per impostare i ragionamenti nuovi sullo sviluppo e tutto ciò ha portato, nel recente passato, ad una fase di lotta che per ampiezza e continuità ha ricordato il periodo dell’occupazione delle terre e dei movimenti per la rinascita economica e sociale.

Nelle lotte del Mezzogiorno di questi anni, sono stati indicati obiettivi di profonda e radicale modernità simile alle battaglie sociali che ci sono state in Italia e negli altri paesi sviluppati.

Pensiamo allo scontro sul modo di produrre che c’è stato nei settori industriali e nell’agricoltura, all’importanza delle lotte per la difesa dell’ambiente, dello stato sociale e del ruolo attivo del pubblico, alla salvaguardia dei livelli occupazionali e al superamento del precariato, allo scontro duro, difficile e spesso amaro che è stato costruito nella lotta alla criminalità organizzata.

Insomma: un Mezzogiorno protagonista attivo per il rinnovamento del nostro paese.

Ovviamente, quest’inversione di tendenza nella battaglia meridionalista si è potuta determinare perché è cambiata la cultura del sud del paese e quest’area si è proposta come luogo ove è possibile, nell’immediato, un mutamento corretto dei comportamenti e dell’agire dei diversi attori sociali per costruire una società giusta ed equamente sviluppata.

Sono, in altre parole, avvenuti”spostamenti molecolari” che hanno determinato rivolgimenti negli assetti politico istituzionali che ora hanno bisogno di trasformarsi in iniziative di governo che puntino alla trasformazione della società meridionale.

Tutto questo è avvenuto contro gli orientamenti del governo nazionale che invece, nella sua azione concreta di politica economica, si è rivelato come il nemico peggiore del Mezzogiorno perché non è intervenuto per favorire elementi di sviluppo; ed ha anche operato affinché le stesse situazioni sociali e produttive relativamente positive, fossero messe in discussione aggravando così la condizione di vita di grandi masse, favorendo il degrado ulteriore di intere aree, mettendo in discussione diritti sociali e individuali acquisiti, lasciando mano libera all’azione della criminalità organizzata che si è rivelata non come un elemento di arretratezza culturale, ma come un dato organico all’attuale modello di sviluppo.

Il ”blocco del nord”, rappresentato dal governo, ha lavorato per l’accentuazione degli squilibri e lo ha fatto nonostante le condizioni politiche favorevoli in cui si era trovato ad operare dopo la vittoria del centrodestra nelle elezioni del 2001.

Oggi, la situazione è peggiorata come abbiamo prima accennato e le difficoltà tendono ad accentuarsi perché non si colgono mutamenti significativi nell’iniziativa del governo.

Ci sono gli elementi di crisi produttiva  e prosegue l’azione negativa del governo che, impedisce l’afflusso di masse finanziarie che potrebbero essere  impiegate nell’azione riformatrice.

I finanziamenti, sono elargiti nelle opere d'infrastrutturazione in modo insufficiente e premiano le organizzazioni criminali. L’ammodernamento della Salerno-Reggio Calabria, è affrontato con una tale lentezza che l’autostrada potrebbe essere terminata in tempi biblici, e la tanto decantata “legge obiettivo” spezzetta gli appalti in infiniti subappalti che poi sono acquisiti da aziende assolutamente inadeguate molto spesso in “odore” di camorra.

Ovviamente, questa scelta non si limita soltanto alla vicenda della Salerno-Reggio Calabria, ma é diffusa in tutta l’area meridionale dove i controlli sono scarsi e il “pubblico” inteso come livello alto di controllo, non svolge appieno il proprio ruolo, anzi spesso è direttamente coinvolto nell’azione spartitoria, che comporta la divisione dei lavori tra aziende ”amiche” sostenute da politici locali e nazionali.

Immaginiamo con terrore cosa potrebbe accadere se davvero dovesse andare in appalto la costruzione eventuale del ponte sullo stretto di Messina.

L’azione di giusta repressione nei confronti della criminalità organizzata, sta portando risultati con l’indebolimento del potere criminale di alcuni clan camorristico-mafiosi. Si pone però il problema di modificare le condizioni di vita e i rapporti sociali nel Mezzogiorno, che favoriscono un’idea che sia più facile e produttivo lavorare per le organizzazioni criminali, piuttosto che schierarsi nella difesa della legalità.

In questo quadro, assieme ad interventi di carattere economico, va sviluppata un’idea di legalità di cui il nostro sindacato è portatore.

Per queste ragioni, condividiamo la rinnovata affermazione del Presidente della Regione Campania, Antonio Bassolino: “Da Napoli, aggiungo, dal Sud non si deve fuggire ma moltiplicare responsabilità ed impegno per la  rinascita e una vita sociale sempre più democratica”.

Abbiamo già detto che per un diverso sviluppo e per sconfiggere la criminalità organizzata; il lavoro deve trovare consolidamento e dignità.

Di qui la necessità di una battaglia di tutti, ad iniziare dalla nostra categoria, contro il lavoro precario e per superare, da subito, le condizioni in cui si trovano ad operare un  numero elevato di lavoratori dei nostri settori. 

Questa questione solleva un primo tema importante che è quello del modo in cui la spesa pubblica é erogata e delle strutture preposte alla verifica complessiva del modo in cui i fondi pubblici sono utilizzati, i tipi d'appalto, i costi dello stesso, la qualità del servizio che é fornito.

La questione, delle disponibilità finanziarie, per gli enti locali è diventata uno dei punti più insopportabili della politica economica del governo, da cui emerge la consapevole scelta antimeridionalista.

Ciò avviene in una situazione in cui, i trasferimenti dallo stato agli enti locali sono diminuiti, in ragione di una scelta tesa a ridurre il ruolo corretto dello stato nei confronti dei cittadini, a favorire l’iniziativa privata che spesso nei settori dei servizi ha contiguità con l’illegalità, a spostare le masse finanziarie disponibili verso aree specifiche del nostro paese dove si esprimono con maggiore corposità gli interessi, non solo politici, degli uomini del centrodestra.

La riduzione dei servizi, la loro esternalizzazione, determina una perdita di qualità e l’indebolimento dell’ampiezza dei diritti dei lavoratori a causa del meccanismo di appalto che è “al massimo ribasso”. Con queste scelte, la credibilità  democratica degli enti locali viene messa in discussione.

In realtà, stiamo assistendo ad una politica che è priva di strumenti adeguati sul terreno dell’aumento dell'entrate finanziarie stabili nelle casse dello stato, perché il governo attua la politica dei condoni come tappabuchi di momentanee, ma, frequenti difficoltà di bilancio dovute a mancati accertamenti  fiscali e ad una politica di taglio delle tasse che premia i ceti economicamente più elevati con danni per tutti gli altri cittadini contribuenti.

La discussione con la relativa contrapposizione tra il ministro dell’economia Domenico Siniscalco e il governatore della Banca d’Italia, Antonio Fazio,che ha portato, come sapete alle dimissioni del Ministro, si auspicano anche quelle di Fazio,(ovviamente non sono afflitto da questo episodio, in quanto non credo che Siniscalco abbia modificato in meglio la politica economica e l’attenzione del Governo verso il mezzogiorno) non solo, non ha portato al varo di una buona legge sul risparmio, da parte del governo, ma di fatto ha ritardato la discussione sulla finanziaria 2005 che si presenta ancora una volta come una misura insufficiente a coniugare rigore e sviluppo e a tutelare gli interessi dei lavoratori e dei pensionati.

La manovra di 21,3 miliardi con nuovi tagli alla sanità e agl’enti locali, ha un solo pregio quello di essere già stata bocciata da tutti, dalla comunità europea per il sospetto di nuovi condoni, dagli stessi alleati di governo, passando per gli enti locali e ovviamente per le organizzazioni sindacali,perché non è possibile immaginare che con queste proposte ci possa essere in futuro più occupazione,più sviluppo,più democrazia,maggiori opportunità per tutti di vivere in un paese e in una società migliore.

D’altro canto da un governo che si trascina verso una fine più insipiente che mai, non si può attendere altro che il peggio di quanto ha prodotto nei quattro anni di governo, fin ora capace d’iniziativa solo per leggi d’interesse personali del premier e soci litigioso fino all’immobilismo quando si è trattato di affrontare i veri nodi del paese. 

Si prospetta così un ulteriore drammatica diminuzione delle risorse economiche a disposizione del Mezzogiorno che aveva già prodotto la perdita di posti di lavoro, per i tagli  imposti dal governo, secondo la teoria che la riduzione del ruolo dello stato avrebbe favorito uno sviluppo economico più adeguato.

Così, ovviamente, non è accaduto, come non era successo nei paesi dove la teoria del liberismo estremo tipica dei neocon americani ha generato disastri infiniti, non solo; ma nel nostro Mezzogiorno la diminuzione dei trasferimenti che si è tradotta in un minore finanziamento disponibile per singolo abitante, in ragione di uno scellerato “patto di stabilità”, ha portato ad un degrado che è diventato in molte aree, insopportabile, nonostante le dichiarazioni di Berlusconi sulla ricchezza del nostro paese, compresa quella sommersa.

Questa situazione, aggravata da politiche sbagliate in molte regioni, ha praticamente sfiancato il tessuto economico meridionale, che ha subito i disastri che abbiamo accennato all’inizio, ha colpito in particolare la piccola e media impresa che in alcune aree costituiva un terreno di sviluppo e d'occupazione stabile e che oggi vive in grandi difficoltà.  

Se a ciò si aggiunge il “peso” e il “ruolo” della criminalità organizzata, nella vita economica e produttiva del mezzogiorno ci si spiega la grave tendenza in atto, rivelataci dalla stampa, della fuga d'imprese meridionali sane e disponibili a misurarsi in un mercato regolato, verso le aree del nord, provocando così un'ulteriore rottura della coesione sociale.

Tutto ciò ha accentuato il deficit di democrazia nel Mezzogiorno, perché gli enti locali si sono trovati nella condizione di non poter svolgere adeguatamente la loro funzione di regolatori delle disuguaglianze sociali, spesso costretti a dover tagliare i servizi di pubblica utilità, a volte a dover introdurre forme di tassazione locali che sono vissute come insopportabili da parte dei cittadini.

La crisi democratica é soprattutto relativa al fatto che, tutta la politica pubblica, nel Mezzogiorno, è in difficoltà e troppo spesso il cittadino/lavoratore è solo davanti ai problemi economici e sociali perché diminuiscono le assistenze, da quelle a sostegno del reddito di cittadinanza come gli interventi in favore di chi non è in grado di provvedere compiutamente al pagamento degli affitti, all’azione regionale per l’edilizia popolare abitativa che registra un rallentamento spaventoso nel sud con l’incremento della degrado degli immobili spesso gestiti da elementi criminali, alla difficoltà crescente nella politica di sostegno nei confronti degli anziani che si traduce in un aumento dei carichi familiari.

Abbiamo accennato alla crisi del welfare locale determinata dalle scelte governative, che si aggrava se affrontiamo il tema della sanità e delle sue disfunzioni.

La modifica del titolo V della Costituzione, ha portato il trasferimento di competenze alle regioni che per la sanità significa gestione diretta dei fondi e del loro impiego.

A questa scelta, si è aggiunto il taglio dei trasferimenti su cui abbiamo posto l'accento, determinando nel settore sanitario meridionale, un intreccio tra difficoltà, inefficienze e illegalità che di nuovo si calano oppressivamente nei confronti dei cittadini.

I deficit sanitari, sono molto elevati per ogni singola regione e questi sono stati in realtà in parte subiti e in parte tollerati, dai centri politici del Mezzogiorno che, spesso, hanno lasciato letteralmente deperire grandi e qualificate strutture non utilizzando la strumentazione scientifica a disposizione e al tempo stesso, abbassando la qualità dell’assistenza.

Tutto ciò ha favorito il potenziamento di cliniche private, spesso gestite con capitali di dubbia provenienza, verso le quali sono costretti ad indirizzarsi gli utenti che, in questo modo, subiscono un'ulteriore diminuzione di reddito disponibile quando non sono addirittura costretti ad attendere tempi memorabili per ottenere un’assistenza che si rivela di scarsa qualità, a cercare un intervento sanitario pubblico in altre zone del paese o addirittura all’estero.

Ciò avviene, nonostante vi sia nel Mezzogiorno una vasta area sanitaria a volte dotata d'alta specializzazione.

Quest'attacco ai beni comuni e primari, al ruolo del pubblico teso a migliorare le condizioni di vita dei cittadini, diventa palpabile se affrontiamo la questione della penuria d’acqua, di cui sia ben chiaro il Sud e ricco, che nel Mezzogiorno diventa sempre più drammatica, non solo perché questo bene non è compiutamente a disposizione dei cittadini, e con intere aree che godono dell’utilizzo dell’acqua, spesso, secondo un tempo indefinito; ma anche perché la persistenza di quest'inefficienza si traduce negativamente nelle produzioni agricole, nelle possibilità di sviluppo e di lavoro per intere aree che invece deperiscono. Come stanno, dunque, le cose? La risposta è semplice: cattiva gestione delle risorse, incapacità di realizzare infrastrutture efficienti, sprechi (vecchi acquedotti solo in parte rinnovati) e speculazioni. Servono investimenti per le infrastrutture (impianti moderni di distribuzione), un radicale riordino dei poteri e delle competenze (troppe autorità, conflittuali e irresponsabili), una diversa gestione del territorio da parte di Stato e Regioni. Altrimenti, continuando il caos, ne avranno danni i cittadini e le imprese (agricole e manifatturiere) e vantaggi i gestori di clientele e gli speculatori, mafiosi compresi. Nel corso dei decenni, questo problema non è mai stato affrontato, seriamente, a nessun livello anche perché, una scelta coerente avrebbe condotto ad un conflitto con un vasto sistema d'interessi privati, spesso, collusi con organizzazioni illegali abituati a gestire l’acqua come fonte di profitto.

Le stesse strutture degli enti preposti agli acquedotti, si sono in molte occasioni, limitate a gestire l’esistente senza pensare a giuste modifiche che potessero migliorare la vita di migliaia di cittadini.

Questa voluta inefficacia ha permesso che sul bene acqua maturassero interessi corposi a tal punto che ci troviamo nella situazione per cui alcuni enti rischiano di vedersi privatizzati senza che vi sia una forte opposizione se non quella sviluppata da alcune nostre organizzazioni locali che  intervengono, quasi in solitudine, nel difendere l’utilizzo pubblico e gratuito di un bene primario.

In realtà, una concezione diversa del modo in cui é utilizzato questo bene e degli interventi necessari per accrescerne la produzione e la ricerca, porterebbero le stesse eventuali aziende pubbliche a divenire imprese, tecnologicamente importanti, nella costruzione degli impianti e in generale nelle opere d'infrastrutturazione; in questo caso, le aziende pubbliche potrebbero costituire consorzi in grado di concorrere con altre imprese a livello internazionale, porre l’Italia e il Mezzogiorno, nella condizione di divenire un interlocutore privilegiato nell’area mediorientale, in uno scambio, che potrebbe ridurre i costi sopportati dall’Italia per le proprie necessità energetiche.

Vi è, ancora, parziale consapevolezza attorno a questi temi, ed occorre lavorare perché, dal movimento sindacale, esca un allarme sulla necessità di garantire l’esistenza equilibrata di un bene come l’acqua, che è essenziale per la vita umana.

Vanno sconfitte, perciò, nel nostro paese, tutte le tendenze a rendere sempre più privatizzabile l’acqua ad iniziare da quella potabile che é sfruttata da una marea d'aziende che hanno solo funzioni di percettori di una rendita su di un bene che dovrebbe appartenere alla categoria dell’inalienabilità.

Oggi il tasso d'occupazione al Mezzogiorno è pari al 44% e, dopo una graduale risalita che ha origini nel 1996 (era al 40,4%) appare in fase di stagnazione” e dei 2,2 mln di disoccupati in Italia, più della metà sono concentrati nel Mezzogiorno, in percentuale il 64,2%. In sintesi 2/3 della disoccupazione generale si condensano in poco più di un terzo del territorio nazionale. (Fonte: Istat, Svimez e Cerst- Università Cattaneo).

Il quadro d’insieme non sembra lasciare molte speranze.

Nonostante questi dati, oggi il Sud ha ancora un vantaggio strutturale rispetto al Nord: quello di avere nel complesso della popolazione, più giovani per effetto di un processo d’invecchiamento della popolazione meno accentuato. Tali risorse vanno salvaguardate e tale vantaggio competitivo va conservato!

Bisogna quindi aumentare quantità e qualità del lavoro nel Mezzogiorno e creare le condizioni affinché i talenti migliori rimangano, scommettendo anche loro sull’inversione di tendenza rispetto al passato, riducendo quelle migrazioni che creano perdite enormi in termini economici e d'opportunità di crescita. Questo significa creare servizi pubblici in grado di collaborare sinergicamente con la scuola, le strutture private ed i servizi delle organizzazioni d'impresa nella promozione di un nuovo apprendimento.

Per vincere questa scommessa è necessario abolire quell’idea di Mezzogiorno tutta incentrata sulla straordinarietà e costruita sull’eccezionalità delle procedure che hanno tra l’altro alimentato i poteri criminali e il loro rapporto con la politica; bisogna abolire la scelta scellerata di questo governo che ha limitato investimenti sfruttando i fondi strutturali dell’unione europea che da aggiuntivi si sono sostituiti a quelli della spesa pubblica; bisogna investire nei giovani, affinché diano il loro contributo alla crescita e al futuro del Mezzogiorno. Ovviamente i giovani non vanno penalizzati nella loro dignità con lavori precari, a termine, in affitto, senza copertura previdenziale, con impieghi di bassa qualità dove la spersonalizzazione è la regola.

Il rimedio, non è il ritorno a politiche assistenziali che da tempo e per primi i meridionali hanno rifiutato.

Il Mezzogiorno deve candidarsi ad essere significativamente attivo, sia negli interscambi che vedono protagonista il continente asiatico sia nella prossima area di libero scambio mediterraneo. É da qui che occorre partire: pochi grandi progetti che puntino al risultato e su cui le Regioni, coordinate dallo Stato, convergano

Sono in gioco non solo la visione di prospettiva per l’area, ma anche le politiche nazionali per la competitività, dentro le quali il Mezzogiorno abbia un ruolo peculiare.
Come Sindacato, riteniamo, perciò, necessario un programma d'investimenti prioritari “integrati e coordinati” che punti non solo a ripianare il deficit pregresso di quantità e qualità delle infrastrutture fisiche (settore idrico e smaltimento rifiuti, energia elettrica, reti di trasporto, in particolare ferroviario), ma anche sul rapido sviluppo delle infrastrutture immateriali: banda larga e strutture di ricerca e sviluppo tecnologico, essenziali entrambi, per favorire l’innovazione, che ha un ruolo di primo piano per lo sviluppo del Mezzogiorno e per una più elevata competitività del Paese. La questione riguarda la prossima finanziaria e la sua capacità di reperire ed attivare le risorse necessarie per far crescere il Mezzogiorno ed il Paese, ma riguarderà soprattutto il nuovo governo che uscirà dalle prossime elezioni politiche.

Tutti questi aspetti che ci siamo permessi di porre alla vostra attenzione, descrivono un’area, quella meridionale, certamente sottoposta a grandi e diffuse sofferenze; ma anche dotata di possibilità che debbono essere messe in campo da un’azione istituzionale che scelga di lavorare, appunto, per una società giusta.

Le condizioni generali del Mezzogiorno e del ruolo del pubblico, le abbiamo affrontate nel documento generale dove indichiamo una diversa modalità dell’organizzazione stessa del lavoro, intesa per fini e progetti. L’aspetto che però reputiamo decisivo è quello dei beni comuni per ribadire che questi sono beni indivisibili e perciò debbono essere garantiti dal lavoro pubblico e quindi non possono essere privatizzati e/o ricondotti a logiche di rendita finanziaria

Queste nostre ipotesi di lavoro, trovano un'adeguata conferma nelle tesi congressuali  della Cgil che, non solo avanza l’ipotesi di un “Progetto per il Paese” ma ribadisce la centralità del Mezzogiorno, come un insieme di obiettivi concreti da costruire e da raggiungere per determinare una ripresa compiuta dell’intero paese.

Un Mezzogiorno, appunto, non vissuto come problema ma come fonte di sviluppo per l’intero Paese.

La Funzione Pubblica non solo condivide questa scelta ma la sostiene attraverso i propri emendamenti: sulla rappresentanza, la rappresentatività, la democrazia sindacale, la contrattazione, e qui va ricordato che non solo dobbiamo chiudere il secondo biennio ma dobbiamo avanzare una proposta per il nuovo contratto.

Nessuno può immaginare di poter ulteriormente rinviare l’attuazione degli accordi sul secondo biennio , provocando nuovi danni alle lavoratrici e ai lavoratori.

Infine, poniamo la nostra attenzione,nella fase congressuale, sulla difesa dei Beni Comuni, che valutiamo ”costituiscono fattori decisivi per il benessere, i diritti e la qualità della vita delle persone e delle comunità, nonché dello stesso sviluppo economico” aprendo  una campagna di dibattito tra i lavoratori e le lavoratrici, dentro l’Organizzazione a tutti i livelli e con l’ambizione di estenderla a tutto il Paese, per affermare, come è solito ribadire Carlo, il nostro ruolo che è quello di lavoratori di una “fabbrica che produce diritti”.