Nell’ultima parte
della discussione, e durante l’intervento di Antonio Santomassimo -e
ciò mi dispiace- sono stato fuori dalla sala, perché questa mattina mi
hanno già intervistato un paio di giornalisti - l’ultimo è del “Il Sole 24
Ore” - che mi hanno chiesto cosa pensiamo della crisi in corso e di
questa ennesima convulsione del Governo, quale è la nostra opinione sulla
legge finanziaria e sulle cose che si sentono dire.
Debbo dire che, col
passare del tempo, ho una difficoltà crescente a trovare nuovi aggettivi
con i quali dire le cose che sosteniamo da quattro anni, perché le linee
portanti della politica economica di questo Governo sono sempre le stesse
e, per noi, sono state sempre chiare negli esiti che proponevano, nel
danno che creavano verso le persone che rappresentiamo, che sono come
diceva Nerozzi: “la parte più debole della popolazione”. Nel nostro caso,
queste scelte hanno creato un doppio danno: verso le persone che
direttamente rappresentiamo, i lavoratori pubblici; ma anche nei
confronti di milioni di persone per le quali -come sappiamo- il nostro
lavoro è l’unica forma possibile di accesso a diritti fondamentali.
Da questo punto di
vista dobbiamo prepararci ed attrezzarci ad affrontare una discussione
sulla ricostruzione del Paese – come pure nel documento congressuale della
CGIL viene chiamata – che sarà impegnativa, perché dobbiamo essere
partecipi a questo processo di ricostruzione del Paese con
un’accentuazione che mi sono permesso di suggerire scherzando, ma non
troppo, al Segretario Generale della CGIL, per cui dobbiamo ricostruire il
Paese non come era prima, anche prima delle nefandezze del Governo
Berlusconi. Perché è vero che sono stati compiuti i disastri inenarrabili
ricordati stamattina; ma molte distorsioni erano già in corso da prima,
dal secondo dopoguerra, da alcune scelte di politica economica e di
funzionamento delle Pubbliche Amministrazioni, lontane dal nostro modo di
pensare. Quindi scelte che sono precedenti al Governo Berlusconi e su cui
questo Governo è intervenuto con particolare solerzia accentuando,
ovviamente, i precedenti aspetti negativi.
Per questo ci siamo
soffermati nella nostra Conferenza di Programma e lo faremo in occasione
del dibattito congressuale della CGIL. Abbiamo lavorato molto su alcune
tesi del documento congressuale e proporremo alla Confederazione, a
partire dai Congressi di base, una serie di emendamenti ai documenti
predisposti, ad iniziare dalla questione del rapporto tra pubblico e
privato, tra le Pubbliche Amministrazioni e il complesso del sistema
economico.
Per queste ragioni,
in relazione ed anche alla luce di questa nostra intenzione, trovo
assolutamente fondamentale ciò che i compagni della Campania, ma non solo,
intervenendo alla Conferenza di Programma, hanno posto. Qualche settimana
fa, Crispi, in Segreteria in modo molto operativo, ha sottolineato il
fatto che dobbiamo dare seguito alle nostre discussioni. Questa scelta va
compiuta nella costruzione del percorso congressuale, nel lavoro di
definizione dei contenuti e nella costruzione di piattaforme vertenziali;
insomma: dobbiamo provare a declinare, concretamente, ciò che conosciamo
ed abbiamo verificato, tenendo conto delle esigenze di sviluppo economico
e sociale che sono presenti nel Mezzogiorno del Paese. In rapporto a
queste valutazioni, credo, che l’iniziativa di oggi, possa essere definita
come una scadenza nazionale.
Per dirla tutta:
sono convinto che, nella nostra discussione tra pubblico e privato, sia
necessaria la ricostruzione di un diverso sistema delle Pubbliche
Amministrazioni e non, semplicemente, della Pubblica Amministrazione. In
questo ambito, il rinnovamento sarà operativo se investirà,
fondamentalmente, il Mezzogiorno.
E’ da qui che
bisogna cominciare, perché altrimenti anche nel resto del Paese non si
riuscirà, e saranno più scarse le possibilità di successo della nostra
azione.
Ritengo opportuno
sottolineare alcuni elementi presenti nella discussione generale. Prima
questione: si discute molto del rapporto tra Stato e mercato e,
onestamente trovo stucchevole questo, spesso inutile, chiacchiericcio. In
realtà, avanzo queste considerazioni, perché ho iniziato la mia attività a
tempo pieno nel sindacato, quando era forte la discussione attorno al
rapporto tra Stato e mercato.
Erano gli anni in cui si
dichiarava: “più mercato, meno Stato”. Va sottolineato il fatto che gli
anni hanno dimostrato, l’inutilità di questo assioma e gli orfani di
queste categorie concettuali, non vogliono rassegnarsi a capire che lo
Stato e il mercato, da soli, non sono in grado di spiegare e comprendere
la società e la complessità in cui viviamo. Nonostante tutto, ci sono
alcuni come da ultimo, Rutelli, che pensano di risolvere il conflitto tra
“Stato e mercato”, in un colpo solo, affermando che è necessario avere più
stato e più mercato.
Modestamente,
considero sbagliata questa posizione. Non abbiamo bisogno di definizioni
semplicistiche o generiche in questo campo; dobbiamo assumere un diverso
punto di vista nel considerare queste questioni e dobbiamo sviluppare una
diversa categoria di analisi.
Abbiamo bisogno, a
cominciare dal Sud del Paese, di una ridefinizione dello spazio pubblico.
Vorrei
tranquillizzare quelli che si allarmano quando si adopera questa categoria
di analisi, e ricordare che questo modo di ragionare è parte organica del
pensiero liberal-democratico ed è diventato eretico e pericoloso solo
perché è stato utilizzato dai Movimenti che ci sono stati negli ultimi
anni.
Vorrei dire che la
sfera pubblica e la sua importanza in una società, è definita nel
pensiero classico liberal-democratico ed è a quella a cui ci si deve
richiamare quando si discute di queste cose.
Penso in particolare
che, nel Sud, dove la sovrapposizione tra interessi privati di natura
prevalentemente illegale, le attività economiche e la contrazione degli
spazi pubblici è così evidente, che abbiamo bisogno di ricominciare da
qui, dal ridefinire quale è lo spazio pubblico. Per quanto mi riguarda,
nel Sud del Paese, lo spazio pubblico è quel luogo nel quale si definisce
la capacità di intervento del pubblico nell’economia. Nessuno di noi è
orfano del sistema delle Partecipazioni Statali, ma tutti abbiamo capito
che senza un intervento di guida da parte del pubblico nell’indirizzo
delle politiche economiche, il mercato e le imprese, da sole non si
autoregolano.
C’è, quindi, bisogno
di una nuova politica economica del pubblico che non sia
statalista-centralista. Abbiamo bisogno di uno Stato, inteso come
complessità delle Istituzioni, che attribuisca un grande ruolo ai sistemi
territoriali. Le Autonomie locali e le Regioni debbono riprendere la
propria capacità di indirizzo dell’attività economica nei territori e per
questo è utile un sistema di Pubbliche Amministrazioni e non della
Pubblica Amministrazione, che non è un Moloch indistinto.
Tutti quelli che
parlano di Pubblica Amministrazione sono nostri nemici, perché, in realtà,
hanno in testa semplicemente la Pubblica Amministrazione come la intende
la Ragioneria Generale dello Stato e cioè: un macro-aggregato del bilancio
dello Stato, che contiene la spesa e la percentuale di questa nel prodotto
interno lordo.
Dobbiamo cambiare e
affermare che, le Pubbliche Amministrazioni, sono le strutture di una
nuova ridefinizione dello spazio pubblico nell’economia e nella società, e
da quì discendono alcune scelte conseguenti.
In questo ambito,
la politica occupazionale deve essere contrattualizzata. Ciò vale anche
per il programma del Centrosinistra che auspichiamo verrà.
Dovremo ridefinire
le missioni delle Amministrazioni e, sulla base di ciò, stabilire quali
sono i fabbisogni occupazionali, quelli formativi e anche gli eventuali
processi di mobilità professionale tra le diverse Amministrazioni, e così
definire una politica occupazionale che superi il precariato. Quando pongo
questo obiettivo, ragiono su di un sistema che abbiamo conosciuto, per
cui, ogni 15-20 anni viene fatta una legge che stabilizza il precariato.
Essendo tra coloro
che hanno proposto una legge per la stabilizzazione del precariato,
desidero indicarne i contenuti. Dobbiamo avviare un’operazione che liquidi
il precariato e quindi un meccanismo anomalo di accesso stabile al lavoro
pubblico.
Infatti, ogni tanto
si crea un polmone di elevata precarizzazione del lavoro che
successivamente si stabilizza. Dopo un pò si ricomincia daccapo e così
viene definita la politica occupazionale.
Per introdurre le
novità che vogliamo affermare, è necessario tornare a separare,
l’Amministrazione dalla politica, restituire neutralità all’azione
pubblica che non vuol dire indipendenza. Penso -per quanto mi riguarda- a
quando nell’esperienza della primavera di Palermo; il Sindaco, l’allora
giovane Leoluca Orlando, mi convocò e mi disse: “Tu parli di indipendenza
dell’azione amministrativa rispetto a quella politica, però mettiti nei
miei panni: ho ancora tutti i capi-ripartizione di Ciancimino, come faccio
a governare questa città?”. Quella era l’indipendenza dell’Amministrazione
rispetto alla politica, ma la neutralità dell’azione deve essere
assicurata. A proposito di legalità, voglio ribadire ciò che ho sentito
dire da Giancarlo Caselli in un Convegno di Magistratura Democratica a
Palermo: ”nel Sud del Paese la Pubblica Amministrazione – l’affermazione
che sto per fare è di qualche forza ed è un po’ paradossale – svolge il
compito di rendere formalmente legale ciò che è sostanzialmente illegale”.
Come si dice a
Napoli? “Carte sistemate, affari imbrogliati”.
Nel rapporto col
sistema delle imprese, questo è quello che succede. La “Clinica Provenzano”
in Sicilia, a Palermo, era in possesso di tutte le autorizzazioni di legge
e il meccanismo, formalmente corretto, non corrispondeva ad un
funzionamento legale.
Pubbliche
Amministrazioni con missioni ridefinite, occupazione stabile, separazione
dalla politica. La capacità e la generosità sono scelte che il
Centrosinistra dovrà fare collocando persone e dirigenti sulla base delle
loro qualità e anche del loro orientamento politico.
Ricordo che da
giovane responsabile dell’organizzazione, andai a parlare con un
importante dirigente dell’Olivetti e gli dissi: “Sono molto affascinato
dai sistemi di formazione e selezione dei gruppi dirigenti delle aziende,
vorrei capire come fate, perché da noi prevale il sistema
dell’appartenenza”. Lui mi guardò in faccia e mi disse: “Tutto sbagliato,
quello che lei dice è tutto sbagliato, perché se lei è proprietario di uno
stabilimento balneare e deve scegliere un bagnino, probabilmente lo
sceglierà tra le persone che conosce e di cui si fida, non affiderà ad un
bagnino di un suo avversario il suo stabilimento balneare! Non c’è dubbio,
quindi non si lasci prendere in giro, esiste sempre la componente
dall’affidabilità, ma la patologia interviene quando l’affidabilità si
sostituisce totalmente alla qualità della prestazione che viene
richiesta.”
Dobbiamo modificare
i meccanismi di questa specie di “spoil system all’amatriciana” che
produce solo disastri. Occorre che il nuovo Governo muti profondamente, lo
stato di cose, oggi, esistente. Le qualità ci sono dalle nostre parti e
dobbiamo stare attenti perché stiamo facendo un’imbarcata di persone
soprattutto dal centro e da altri ambienti che non ci sono utili.
Comunque, al netto di questi transiti, possiamo affermare che abbiamo a
disposizione persone più capaci. Tuttavia la tentazione di far prevalere
l’affidabilità sulla qualità e sulla sicurezza della prestazione
professionale che viene richiesta, vive anche da noi. Quindi la scelta che
vi proponevo diviene un atto fondamentale da seguire, per l’affermazione
del progetto di ricostruzione del Paese.
Sulla questione
della legalità e anche sul rapporto tra pubblico e privato ho già
precisato le mie valutazioni.
Che cosa rimane? Non
si può parlare solo di quello che si chiede agli altri; occorre maggior
coraggio, nel confronto con le controparti, perché è necessario parlare
anche della qualità del nostro lavoro e della contrattazione che a questi
obiettivi deve essere finalizzata.
Facciamo molta
cogestione, ancora troppa per i miei gusti. Ci sono ancora molte aziende
dove il Sindacato si occupa della distribuzione dello straordinario e dei
turni molto più di quanto sia normale e ben oltre il dettato contrattuale
perché il nostro problema,nel caso dello straordinario, dovrebbe essere
quello di governare gli orari di fatto e di ridurre il ricorso a questo
tipo di prestazioni, controllando così il governo dell’organizzazione del
lavoro.
Normalmente, ci
contentiamo di discutere il modo in cui si dividono le ore.
Questo non va. Non è
utile e ci mette chiaramente in difficoltà quando nei confronti negoziali
avanziamo le richieste che ho tentato di specificare, perché, alla fine,
ci dicono: “Quello che volete è mantenere questo potere; parlate del
pubblico perché siete corporativi, perché siete pubblici e perciò volete
la salvaguardia del pubblico”.
Questo è il
risultato anche della nostra debolezza sul terreno contrattuale, come
accade nell’ultima direttiva che si sta discutendo per il contratto della
Sanità dove c’è una parte che non va bene per niente, perchè prevede la
chiusura del fondo relativo alle posizioni orizzontali, al loro
finanziamento. C’è, in questa proposta, l’idea di limitare la
contrattazione integrativa, ma c’è anche l’inevitabile risposta alle 200
mila posizioni orizzontali, che sono state spostate nell’ultimo
triennio, di cui abbiamo parlato nell’ultima Conferenza di Programma che
sono spostate nell’ultimo triennio. Non possiamo continuare a fare
contrattazione in questo modo, perché se la dobbiamo fare così, nel
confronto aziendale, allora tanto vale che questa scelta, la facciamo noi
nel contratto nazionale.
Penso che tutte
queste cose siano abbastanza chiare, tra di noi, anche se poi è molto più
difficile, passare dall’individuazione di una terapia all’applicazione.
Rispetto a tutto
ciò abbiamo due questioni da affrontare.
La prima: far
diventare queste scelte un patrimonio della Confederazione, delle Camere
del Lavoro, dei livelli regionali, e questo non è in relazione ad un
problema del rapporto tra la federazione nazionale e la Cgil nazionale.
Se così fosse stato,
gli emendamenti che abbiamo predisposto, li avremmo potuti presentare al
Congresso Nazionale della Funzione Pubblica e, con il meccanismo previsto
dal Regolamento congressuale, li avremmo trasferiti direttamente al
Congresso Nazionale e in questo modo la discussione, da questo punto di
vista, sarebbe già definita.
A noi serve che
tutto ciò, non diventi un terreno di confronto tra le Segreterie
Nazionali, ma una proposta di discussione nelle Camere del Lavoro,
affinchè nella CGIL trovino cittadinanza questi ragionamenti e diventi
più difficile che nelle discussioni in CGIL si alzi qualche compagno e
dica: “Alla vecchia centralità operaia volete sostituire la centralità del
lavoro pubblico, intesa come centralità corporativa.”
Questo succede
perché c’è un nostro ritardo, una difficoltà a far diventare queste
scelte patrimonio della nostra Confederazione, che non vuol dire
aspettarsi di egemonizzare la Confederazione. Quando parliamo con gli
altri, dobbiamo anche mettere nel conto che gli altri ci dimostrino la
debolezza delle nostre argomentazioni. Questo vuol dire diventare davvero
parte integrante della Confederazione, contaminare di noi la
Confederazione.
Se non facciamo
così, queste cose non diventeranno patrimonio della Confederazione e del
rapporto tra la Confederazione e il sistema dei Governi.
Ha ragione chi
questa mattina ha detto che il problema non è solo il Governo nazionale,
ma è anche il modo in cui ci si confronta con i Governi locali e con il
Governo regionale.
Se non succede
questo, accadono le cose che ha raccontato Veraldi -diventato argomento di
discussione nella sinistra calabrese- perché, insieme a CISL e UIL sulla
Sanità, ha osato porre alcune questioni come categoria, nonostante quei
temi siano di qualità e livello più confederale. E’ così sulla Sanità, in
qualche caso è così sulla questione dell’acqua.
A molti compagni
della CGIL, che hanno una prudenza di troppo nel maneggiare questi temi,
succederà di essere scavalcati a sinistra dal candidato Premier che dirà
cose, più avanzate di quelle che noi stessi, abbiamo detto sulla vicenda
dell’acqua. Allora, sarà divertente vedere come tutti correranno a dire le
cose che noi dicevamo, che erano definite eretiche. Ciò che conta, è
riuscire a fare diventare questa nostra discussione, un tema
dell’iniziativa confederale.
Crispi, che è un
pubblico dipendente, non ne è rimasto particolarmente sorpreso. Comunque,
sia lui che Beschi, qualche volta, discutendo in Segreteria – per me è
anche un segno di stima verso il lavoro che tutti insieme abbiamo fatto -
manifestano una piacevole sorpresa per il contenuto confederale delle
cose che diciamo, perché, in realtà, cerchiamo di fare cose che hanno più
volte a che fare con quel livello di intervento dell’organizzazione
piuttosto che con quello della rappresentanza semplice e diretta degli
interessi della categoria.
Da alcuni compagni
questo è capito ed apprezzato, non sempre lo è allo stesso modo da tutta
l’organizzazione.
Ma tutto questo fa
parte della discussione, del dibattito, della battaglia politica che
dovremo fare al Congresso: noi ci saremo e sono sicuro che ci sarete anche
voi.
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