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Conferenza Programmatica Centro Congressi Frentani Roma - 27 - 28 giugno 2005 |
Carlo Podda "Gli uomini nascono e rimangono
liberi e uguali nei diritti. Art. 1
Dichiarazione dei diritti
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In questa stessa sala sei anni fa fummo costretti ad interrompere bruscamente la nostra 1° Conferenza di Programma per l’uccisione da parte delle Brigate Rosse, oggi finalmente condannate ed in carcere, di Massimo D’Antona: un uomo, un compagno senza il cui lavoro e capacità, molti di noi oggi non sarebbero qui. Voglio ricordarlo perché, a proposito delle cose e degli argomenti dei quali proviamo a discutere qui oggi, il contributo di Massimo è sempre stato di inestimabile valore, e perché manca molto, a tutti noi che facciamo questo lavoro, la sua originalità ed il suo rendere sempre possibile tradurre, nel complicato sistema di leggi e regolamenti che sovrintendono al lavoro pubblico, una generale idea di trasformazione e valorizzazione del lavoro. A sei anni di distanza quasi tutto è cambiato e, ahimè non in meglio. Anzi in più di un occasione, di fronte agli atti compiuti da questo Governo ed al peggiorare delle condizioni del nostro Paese, abbiamo spesso creduto di toccare il fondo, e c’era in questo nostro giudizio almeno la speranza che da li si potesse ripartire, salvo poi rendersi drammaticamente conto che non era quella la linea, per quanto arretrata fosse, della ripartenza. Sotto il fondo appena toccato se ne apriva un altro, fino ad arrivare alle condizioni di oggi, fin quasi a farci dubitare che un fondo ci sia davvero. Questo stato di fatto ci ha portato lungo questi anni a sviluppare una straordinaria battaglia in difesa dei diritti e delle condizioni materiali di quelli che rappresentiamo. Ma gravi colpi sono stati inferti al sistema che abbiamo cercato di difendere e, soprattutto, si è totalmente bloccata la nostra capacità di progettare e costruire un futuro al nostro lavoro. E’ questo un lusso che non possiamo permetterci. Proprio ora, e non deve sembrare paradossale il fatto che avvenga nella fase in cui più flebili sembrano essere le tutele che sul terreno dei diritti offre ai cittadini il nostro lavoro, si è sviluppata una, per certi versi, totalmente nuova ed insperata attenzione nei confronti del pubblico. Sembra cioè terminata la fase in cui il privato in quanto tale pareva destinato a soppiantare l’iniziativa del pubblico in ogni attività economica e sociale, senza nemmeno doversi prendere il disturbo di argomentarne le ragioni e le convenienze. Che il privato fosse meglio del pubblico era senso comune, nella società come nella politica e persino il sindacato, anche la CGIL, anche noi, siamo stati in parte preda di questo pensiero. Per questo è importante cogliere questa occasione per discutere tra noi, ma soprattutto per disseminare il territorio fuori di noi, di qualche nuova idea, di punti di vista alternativi sul lavoro pubblico. Si tratta di un tentativo ambizioso, faticoso, complicato, che non può certo compiersi e definirsi in questi due giorni. Iniziamo però da qui un percorso che, avvalendosi del contributo che verrà dalla discussione nel territorio, da oggi e fino al congresso della categoria e della CGIL, dovrà condurci a formulare o, come preferisco pensare, a ridisegnare il nostro progetto per un lavoro pubblico, indispensabile alla ricostruzione ed alla rinascita del nostro Paese. Per poter raggiungere questo obiettivo penso sia importante in primo luogo parlare e discutere con le persone che rappresentiamo, immagino cioè una inversione dei percorsi tradizionali del funzionamento della CGIL. In genere gli appuntamenti nazionali arrivano al termine di una discussione territoriale. Nel nostro caso sarebbe invece utile da dopodomani costruire occasioni e sedi di discussione regionale, territoriale o di grandi posti di lavoro, nelle quali riterrei di grandissima importanza coinvolgere anche forze esterne a noi. Penso in primo luogo a quei soggetti, a quei movimenti, con i quali in questi anni tanta strada insieme abbiamo fatto e dai quali abbiamo ricevuto consenso, idee, ed anche capacità di innovazione. Seguendo questo tracciato potremo fondatamente coltivare l’ambizione di parlare in primo luogo alla CGIL e poi anche alla politica, almeno a quella che si candida a governare il Paese l’anno che verrà. E’ nostra precisa responsabilità cercare di fare anche questo, cercare cioè di schiodare il centrosinistra da una discussione ancora impantanata, a meno di un anno dal voto, sulle formule, sui contenitori ed invece del tutto vaga, se non dimentica, dei contenuti del progetto di società che si intende proporre all’attenzione delle persone, per sottrarle alla condizione in cui le ha ridotte il Governo attuale. Noi abbiamo il diritto di parlare, loro hanno il dovere di ascoltarci. La solitudine in cui la politica ha agito negli ultimi mesi, in assenza di un’iniziativa efficace da parte dei movimenti, della società, e della stessa CGIL, ha portato gli attori principali della scena politica a trasformare, nella attonita incredulità di tutti noi, la straordinaria vittoria delle elezioni regionali in una disputa sempre più chiusa in se stessa su Ulivo, Ulivone, ulivetti, pane e cicoria, mentre dalle persone, quelle che noi incrociamo tutti i giorni, sale una sola richiesta: quella stessa Unione generale che ha vinto le elezioni regionali, consolidi la propria configurazione ed il proprio programma e mandi a casa, al più tardi alle elezioni, questo Governo, la cui permanenza costa ogni giorno un peggioramento ulteriore delle condizioni del Paese. Il peggioramento delle condizioni del Paese non è infatti frutto di un destino cinico e baro, ma il risultato di un’azione, di un progetto perseguito con determinazione dal Governo attuale, a partire dal 2001. Il 2001 va considerato nella nostra analisi un anno cruciale, perché prima ancora della vittoria alle elezioni politiche della coalizione della Casa delle Libertà, e subito dopo, irrompono nella percezione generale della opinione pubblica italiana due fatti emblematici: l’assemblea di Parma della Confindustria di D’Amato ed il Social Forum di Genova, in occasione del G8 lì previsto. Abbiamo cioè a distanza di pochi mesi l’uno dall’altro, da una parte la presentazione nella forma più compiuta e sistematica, all’attenzione dell’opinione generale, vorrei dire, di massa di un vero e proprio manifesto del pensiero liberista, tradotto in programma, e dall’altra l’emersione, la visibilità, di un’altra visione del mondo fondata sulla globalizzazione dei diritti, sulla pace ed il rifiuto della guerra e su un’dea di sviluppo sostenibile, equo ed eco-compatibile. Si contrappongono con evidenza due campi di forza, nei quali stanno idee totalmente alternative di società. Solo che quel che io chiamo il manifesto liberista vince le elezioni ed agli altri, a tutti noi, spetta opporsi e difendersi dalla più forte e generale offensiva che i diritti abbiano mai subito in questo Paese. Sia il manifesto liberista, che la formazione di un cosiddetto alter-pensiero, erano frutto di un percorso lungo e strutturato, la cui origine a mio modo di vedere si può collocare alla fine degli anni ’80, con la crisi ed il tramonto delle ideologie, verso le quali, voglio sottolinearlo, non provo alcun rimpianto. Trovo invece l’eclisse, l’oscuramento di buona parte del sistema valoriale proprio della sinistra sociale e politica, a cominciare da quello per noi centrale del lavoro, che da quegli anni inizia per arrivare ai giorni nostri, frutto di scelte sbagliate fatte in quel periodo e mai completamente ripensate. Se ci si riflette per un attimo cosa chiede il cosiddetto movimento dei movimenti affacciandosi nel 2001 alla ribalta internazionale e nazionale? Nulla per sé, chiede solo, e non è certo poco, alla politica che riassuma, a base della propria azione, valori forti come Pace, partecipazione, diritti, equità. Che questo movimento fosse in maturazione non era certamente stato colto né dalle politica, né dagli opinion makers, e rimane un grande merito della CGIL averlo saputo incrociare contaminandolo e contaminandosi. Il manifesto-programma liberista per “rivoltare la società italiana” -ricordate queste parole- “come un calzino” costituì invece la forza di penetrazione di un pensiero, come dire, naturale, una sorta di esposizione di ordine normale delle cose che si avvarrà appunto, fino all’apparire sulla scena di un pensiero alternativo, della assoluta debolezza del campo avverso. L’economia e più precisamente le dinamiche finanziarie risultano l’elemento dominante e primario cui devono sottostare tutti i fenomeni sociali. La politica, in questa visione, può tutt’al più regolare e temperare le conseguenze delle scelte che si compiono nel luogo privilegiato di questa nuova società: il mercato. Risale sempre alla fine degli anni ’80 la contrapposizione tra Stato e mercato nella quale anche la sinistra rimane rapidamente schiacciata, non sapendo proporre, nella buona sostanza almeno in Italia, altro che forme di liberismo più o meno temperato. Pensate per un attimo a come anche a sinistra si è ritenuto per anni giusto affidare allo Stato ed al pubblico un ruolo di regolazione, od al più di esclusiva programmazione e controllo. Oppure ricordate le decine di dibattiti nei quali ci è stato spiegato che il superamento del fordismo, imposto dalla globalizzazione dei mercati e dalla necessità di avere aziende più flessibili, avrebbe prodotto una liberazione dei tempi del lavoro ed una migliore ripartizione tra tempi di vita e tempi di lavoro. Basta vedere come è andata a finire: in Europa, non solo in Italia, con una apposita direttiva della commissione, si tenta di introdurre un orario annuale che renda i regimi di orario di ciascun lavoratore totalmente disponibili alle decisioni di chi governa le fabbriche ed i posti di lavoro, senza che la contrattazione aziendale nulla possa dire o fare sulle effettive condizioni di impiego di ciascun addetto. Mentre per ciò che riguarda il cosiddetto nuovo lavoro autonomo, quello che a sua volta avrebbe dovuto dare ad ogni persona maggiore libertà di scelta e di autorganizzazione, il risultato è stato una inverosimile dilatazione dell’orario di lavoro giornaliero, settimanale, mensile ed annuale. Per arrivare fino ai giorni nostri, nei quali Federmeccanica chiede alle OO.SS. dei lavoratori meccanici, per poter avvicinarsi alle richieste salariali del sindacato, una norma del CCNL esigibile nelle fabbriche che renda totalmente disponibile alla controparte l’orario individuale di ciascun lavoratore. Certo il centro sinistra vince, pur essendo una minoranza elettorale, nel 1996 e governa fino al 2001, compiendo il risanamento finanziario iniziato nel 1992/93, avvalendosi a questo scopo anche del nostro, tutt’altro che trascurabile, contributo. Ma qui sta il limite a mio modo di vedere di quell’ esperienza di Governo: non lascia nemmeno intravedere una ipotesi di sviluppo alternativo. Anzi, ma di questo parleremo più avanti, su alcuni terreni, penso ad esempio al cosiddetto pacchetto Treu, traccia inconsapevolmente i preliminari della precarizzazione del lavoro, che il centro destra porterà a compimento in questa legislatura. Così come non dimentico che il primo a parlare di una riforma fiscale fondata su due sole aliquote, fu, in quella disgraziatissima campagna elettorale, l’allora candidato premier del centro-sinistra. Con questo profilo la sinistra non convince e non vince, di questo si tratta ancora oggi di prendere atto. Ed io penso che le difficoltà dell’Unione ad abbandonare le dispute di schieramento, per aprire finalmente un confronto sul che fare, nascondano infine la difficoltà a scegliere tra una pallida, anche se più onesta ed efficace interpretazione del liberismo, magari in salsa riformista, e l’assunzione netta e consapevole di un altro punto di vista. Quello che noi vorremmo contribuire a costruire e che comunque costituirà il metro ed il merito con il quale ci confronteremo con l’azione del prossimo Governo. Per costruire e far rinascere questo Paese non sarà sufficiente, anche se ovviamente necessario, il buon governo, l’efficacia e l’ efficienza amministrativa. Bisogna ridare consistenza e legittimità ad un valore che dovrà permeare di sè la società che vogliamo costruire, che è la pietra angolare del nostro ragionamento: l’eguaglianza. Si tratta di sovvertire l’ordine attuale delle cose o, come si conviene ad un soggetto per sua natura graduale e riformista come il sindacato, di segnare almeno la necessità, la convinzione, di invertire una tendenza disastrosa. Nel documento che accompagna e sostiene la nostra riflessione, che si deve al lavoro del Dipartimento del Welfare, al contributo di esterni di valore, alcuni dei quali avrete modo di sentire dal vivo in questi giorni, ed al paziente lavoro di redazione di Corrado Oddi, trovate sufficiente documentazione della situazione in essere. Tuttavia voglio in proposito fare alcuni cenni. Non c’è studioso, osservatore, che non veda come le disuguaglianze sono aumentate nel mondo e come esse siano, non tanto lo sgradevole effetto collaterale di una globalizzazione mercantile senza regole, ma ne costituiscano invece il presupposto. Infatti solo il permanere nel mondo di così forti differenziali di benessere sociale ed economico consente ad una globalizzazione, che rimane improntata fortemente alla finanziarizzazione dell’economia, di rastrellare in tempi di ore e giorni, i profitti di cui la stessa globalizzazione si nutre. E se l’assenza di regole sul mercato non basta, si prosegue con il ricorso alla guerra. Molti, in questi ultimi, anni ci hanno parlato dei profitti che verranno dalla ricostruzione e all’acquisizione delle riserve petrolifere in Iraq, ma chi sa davvero gli ingenti guadagni che in Borsa le compagnie petrolifere, le industrie belliche e quelle della ricostruzione hanno già acquisito? Il peggioramento delle condizioni di vita nel continente Africano negli ultimi venti anni, sta lì a smentire ogni fiducia neopositivista sull’invincibilità del progresso, che da solo necessariamente migliorerà le sorti del mondo. Ma il mondo della disuguaglianza ha ormai aggredito la vecchia Europa, culla di questo diritto primario. E come potrebbe essere altrimenti, se la Commissione Europea presieduta da Romano Prodi in vista dell’allargamento dei confini della U.E., invece che preoccuparsi di promuovere una armonizzazione progressiva della legislazione sui diritti nei diversi stati membri, come pure il trattato per la Costituzione europea prevede, promuove una direttiva come quella Bolkestein? Voglio ribadirlo da qui con la fermezza necessaria: noi ci opporremo ad ogni tentativo di far passare in maniera più o meno pasticciata questa direttiva. Siamo contro questa direttiva, senza se e senza ma. Questa è del resto la posizione anche di recente ribadita dalla FSESP (sindacato dei servizi pubblici europei) e sarà bene che la CES ne prenda atto. Del resto, se questa direttiva dovesse essere approvata, servizi pubblici come la salute, l’istruzione, la cultura, l’acqua sarebbero sottoposti alle regole di mercato e gli operatori di questo settore non sarebbero più regolati da norme contrattuali e legislative che fanno capo, secondo un antichissimo principio di civiltà giuridica, al trattamento di miglior favore, ma a quello del paese d’origine della ditta erogatrice del servizio; in nome della libera concorrenza, avremo in un singolo paese operatori che prestano lo stesso servizio con costi ed, è evidente, qualità diverse. Non più servizi universali ma a ciascuno secondo il proprio censo. Non è questa l’Europa della quale abbiamo bisogno, ed è questa l’idea d’Europa che spaventa i cittadini, che induce persone anche di sinistra a mischiare il proprio voto, come accaduto in Francia, con la destra xenofoba nazionalista ed antieuropea. Bisogna meglio comprendere le ragioni, la fisionomia e la composizione di questo voto, che segue di qualche anno un voto, a mio avviso analogamente motivato, della Danimarca e della Svezia, almeno per impedire che anche in casa nostra la destra si impossessi di questi temi e li strumentalizzi a proprio uso e consumo, come pure sta già facendo. Vista alla luce delle disuguaglianze crescenti la situazione del nostro Paese fa davvero paura. Voglio, anche qui brevemente, prendere in considerazione quattro aspetti: distribuzione del reddito, mobilità sociale, disoccupazione, precarizzazione. Troverete in cartella un lavoro ed ascolterete nel corso di questi due giorni una comunicazione sull’andamento della distribuzione dei redditi, qui è sufficiente ricordare come l’Italia non sfugge agli andamenti più generali e cioè che il quinto più ricco della popolazione è diventato più ricco, a fronte di un decremento del quinto più povero e dei restanti 3/5 intermedi. In Italia però, più odiosamente che altrove, l’arricchimento del quinto più ricco avviene soprattutto grazie ad un impoverimento del quinto più povero, che è più marcato dell’impoverimento dei 3/5 intermedi. Recenti articoli della grande stampa hanno evidenziato a tutti un dato che andiamo ripetendo da almeno un anno: la mobilità sociale, e cioè la possibilità che tuo figlio faccia un lavoro migliore del tuo, è, in questi anni nel nostro Paese, pari quasi a zero. Ed è così già da qualche anno, ricordo che un dato analogo era già stato da noi evidenziato nella conferenza del 1999. Certo il dato da allora, ma è così quasi per ogni cosa, è peggiorato. Il figlio dell’operaio farà l’operaio, però precario, il figlio dell’impiegato farà l’impiegato, però precario, mentre i figli di persone che fanno attività magari protette da legislazioni che ne mantengono in vita caratteristiche monopoliste, faranno quello stesso lavoro, accedendovi quasi per discendenza dinastica. Ma tuttavia la vera domanda di un genitore oggi è non cosa farà suo figlio da grande, ma se farà qualcosa da grande. Anche perché tra le altre manipolazioni mediatiche che il Governo ha fatto c’è senz’altro quella che riguarda i tassi di disoccupazione che sarebbero a suo dire in costante calo. Anzi il calo sarebbe così significativo da costituire un paradosso rispetto all’andamento recessivo della nostra economia. In realtà basta far riferimento alle ore lavorate per rendersi conto che non c’è stato nessun effettivo aumento dell’occupazione dovuto ad un incremento della produzione di beni o servizi. Abbiamo assistito più semplicemente alla ripartizione del lavoro che c’è. L’introduzione nel mercato del lavoro della normativa più flessibile che c’è in Europa, ha proposto una curiosa declinazione di quello slogan che sul finire degli anni ’70 ci faceva dire “lavorare meno lavorare tutti”. Di un posto di lavoro ne sono stati fatti due o tre. Ma tutto questo non è avvenuto come un po’ ingenuamente credevamo in quel periodo mantenendo inalterati salari e diritti, ma precarizzando il lavoro. Anche nel nostro Paese la globalizzazione ha fallito, così come falliscono, l’ultimo caso è la Germania, i tentativi di temperare da sinistra il liberismo. Dobbiamo promuovere una diversa idea dello sviluppo che non rimuova il vincolo del risanamento finanziario, ma si ponga il tema, per dirla con Paolo Leon, della sostenibilità economica in luogo dell’esclusiva sostenibilità finanziaria, e che promuova la costruzione di un nuovo blocco sociale incardinato sull’uguaglianza come valore fondante di un nuovo patto di cittadinanza. Bisogna esporre i fondamenti di una nuova idea di società fondata su un nuovo spazio pubblico, intendendo per questo il luogo nel quale si identificano e si acquisiscono i beni comuni, i beni sociali, i beni collettivi. In questo luogo si svolge a mio avviso l’azione dello Stato, per meglio dire, del pubblico in economia. Non si tratta solo di regolare il mercato e di sorvegliare che le regole dettate siano effettivamente rispettate. L’esperienza di questi anni sta lì a dimostrare infatti che, sia per ciò che riguarda le politiche attive di sviluppo, sia per ciò che riguarda il grande tema dell’emersione il cui valore è stimato ormai alcuni pari al 25% del PIL, c’è bisogno di un intervento diretto del pubblico, senza il quale le dinamiche di mercato non hanno risolto, ma anzi accentuato, gli squilibri in campo. Questa è, al dunque, il centro della nostra proposta: risolvere il rapporto tra Stato e mercato attraverso la definizione di un nuovo spazio pubblico, che abbia il fine di costruire una società che abbia al suo centro il valore dell’eguaglianza. Sarebbe per me una straordinaria prova di autonomia culturale, prima ancora che politica, riuscire a far vivere nella società un dibattito, sul tema dell’eguaglianza e sulle attuali disuguaglianze, che avesse un’ampiezza pari a quella che ha la discussione sul tema della competitività. Detta nella maniera più semplice possibile se, come penso, dovremo, per stipulare un nuovo patto di cittadinanza finalizzato alla ricostruzione del nostro Paese, acquisire il consenso di quelli che rappresentiamo, dovremo almeno essere in grado di indicare una prospettiva nella quale il Paese che ci proponiamo di riedificare, sia più competitivo, finanziariamente sano, ma, Vivaddio, meno diseguale e più giusto. Se questo è l’orizzonte verso il quale ci muoviamo, il lavoro pubblico, un nuovo lavoro pubblico, rappresenta l’architrave del nostro progetto. Una dimostrazione, sia pure al contrario di questa affermazione, è data dall’accanimento con il quale il Governo Berlusconi ha perseguitato il lavoro pubblico in questi anni. La demolizione tentata è stata per un verso strutturale: - riduzione dell’occupazione già attuata pari a 70.000 unità, mentre altrettante unità sono previste in meno per il prossimo anno; - aumento della precarizzazione costante che ha portato, secondo le stime contenute nel conto annuale del tesoro, i precari ad una cifra pari a 254.371 tra tempi determinati, contratti di formazione lavoro, LSU, interinali e co.co.co.. Va sottolineato come a queste stime sfuggano i lavori dati stabilmente in appalto a cooperative di servizio o sociali e quelli svolti stabilmente da figure ancora più precarie come quelle degli stagisti. Tutto ciò è avvenuto peraltro senza che la Legge 30 fosse applicata nel settore pubblico, risultato questo ottenuto nel rinnovo dei nostri CCNL, grazie ad una straordinaria tenuta unitaria. Questa enorme quantità di precariato è il frutto, forse non sufficientemente previsto né voluto del cosiddetto pacchetto Treu, le cui norme e la cui applicabilità andranno profondamente riconsiderate nella nuova normativa che dovrà essere fatta sul mercato del lavoro, alla luce dei risultati che si sono determinati; - rinnovo programmaticamente ritardato dei CCNL, che ha portato la stipula del quadriennio normativo con circa due anni di ritardo e che comporterà, se tutto andrà come deve, l’erogazione dei benefici del secondo biennio, quando già dovrebbe entrare in vigore il nuovo quadriennio. Per questa via non si sono solo privati 3,5 milioni di lavoratrici e lavoratori dei loro diritti, ma si è anche gravemente minata la credibilità stessa dell’istituto del CCNL; - riproposizione a più riprese del tentativo di decontrattualizzare i rapporti di lavoro attraverso interventi legislativi e lo spostamento di intere categorie dell’area della contrattazione alla legge, come è avvenuto per i Vigili del Fuoco e come si è tentato per i professori. D’altro canto la stessa L. 30 e i CCNL dei metalmeccanici non sottoscritti dalla FIOM, rappresentano questa volontà, invertendo il tradizionale rapporto tra legge e CCNL, laddove la legge è sempre stata di sostegno ed il contratto ha dettato le condizioni di miglior favore.
Per altro verso, invece, l’attacco portato al lavoro pubblico ha assunto le caratteristiche di una campagna culturale: dal disprezzo, non nuovo a partire dagli anni ’80 per il lavoro, si è passati all’invettiva nei confronti dei lavoratori. Come si può non ricordare la frase pronunciata da Washington dal Premier sui lavoratori pubblici pochi giorni prima della nostra ultima, ancora una volta straordinaria, manifestazione? Secondo questa frase i lavoratori pubblici la mattina guardandosi allo specchio, mentre si preparano per andare al lavoro, dovrebbero vergognarsi. E come ancora, se non in questo quadro, si può spiegare il grossolano tentativo di dividere i lavoratori pubblici da quelli privati nel corso della fase finale della vertenza per il rinnovo del CCNL, quando si è accennato al fatto che i lavoratori pubblici, pretendevano aumenti molto più alti di quelli che avrebbero avuto i loro “veri” padroni e cioè i lavoratori privati? Ed ancora una volta considero sorprendente ed incomprensibile la sottovalutazione di questo attacco al lavoro, delle sue radici e delle sue reali motivazioni, fatta dal centro sinistra, che ha affidato una qualche timida risposta solo agli specialisti, come se si trattasse di una questione settoriale e non generale per il Paese. E’ invece evidente per me come un progetto di trasformazione della società italiana non possa prescindere dal lavoro pubblico. Il lavoro pubblico, così come esso in parte è, ma come noi soprattutto dobbiamo riuscire a farlo diventare, ha in sé quattro grandi opportunità: 1. il lavoro pubblico garantisce i diritti fondamentali delle persone; 2. il lavoro pubblico produce sviluppo; 3. il lavoro pubblico è precondizione dell’insediamento economico produttivo e dello sviluppo; 4. il lavoro pubblico è frontiera e presidio della legalità
Al lavoro pubblico è affidata la buona sostanza delle politiche di Welfare del nostro Paese. Pubblica è l’istruzione, pubblica è la salute, pubblica è la previdenza. Pubblico ancora è il Welfare locale. Noi dobbiamo avere la consapevolezza che quando si affronta il tema del Welfare, delle sue politiche, e del suo funzionamento, noi ci troviamo nella necessità, non di aggiustare, ma di riprogettare. Si tratta di tornare alla etimologia esatta del termine Welfare, tradotto impropriamente in italiano in “stato sociale”. In realtà Welfare significa star bene, benessere. Dunque noi dobbiamo riaffermare che per i cittadini della nostra Repubblica il benessere è un diritto. Se si conviene su questo punto, tutte le ipotesi di Welfare caritatevole o della benevolenza, come si tende spesso ad interpretare lo stato sociale, vengono a cadere. Ed anche l’ipotesi a volte affacciata da sinistra di un Welfare delle opportunità appare per quella che è: un’idea frutto di un pensiero debole. Nel nostro Paese abbiamo ancora un Welfare di natura prettamente lavoristica, solo parzialmente integrato da misure, soprattutto a livello locale, di Welfare di cittadinanza. Il Welfare locale è però ineguale nel Paese e nel Sud è spesso improntato e costituito da politiche di benevolenza verso gli strati più poveri e marginali della società. D’altro canto se si accetta che il Welfare italiano è rimasto in buona misura lavoristico, si deve conseguentemente assumere che la precarizzazione crescente del lavoro, e la creazione di lavori istituzionalmente precari, hanno di fatto precarizzato i sistemi di Welfare. E’ stato ovviamente un processo lungo che ha la sua origine in Europa, nella cosiddetta crisi di sostenibilità finanziaria dei sistemi di Welfare, alla quale la sinistra ha opposto risposte deboli, come quella già citata di Welfare delle opportunità. A questo stato di crisi, accentuato da una malaccorta traduzione pratica dell’idea di sussidiarietà, si è sovrapposta negli ultimi anni la visione per la quale i bisogni della persona si risolvono attraverso l’arricchimento individuale. Ai pochi poveri che restano penserà uno stato compassionevole e la filantropia dei ricchi. Noi dobbiamo rovesciare questo punto di vista ed affermare il benessere come diritto a godere di quei beni comuni, come la salute, la cultura, l’istruzione, l’acqua, l’ambiente, che non possono essere acquistati, ma ai quali il cittadino in quanto tale deve poter accedere. L’accesso a questi beni può essere garantito solo dal soggetto pubblico che ne deve garantire, anche attraverso le modalità organizzative, caratteristiche universali. Ecco perché questi diritti possono essere garantiti solo dal lavoro pubblico. E’ chiaro però che si pone, a questo punto, una duplice questione: la prima: non tutto ciò che oggi è pubblico può essere definito bene comune e non tutto ciò che è bene comune è oggi pubblico; la seconda: e ci riguarda in prima persona, è che oggi le caratteristiche, i contenuti, le modalità organizzative del lavoro pubblico, anziché garantire, ostacolano l’accesso a quel diritto del cittadino. Ne conseguono due scelte da compiere: la prima è la ridefinizione di una mappa, un catalogo dei beni comuni, la seconda è la presa in carico reale da parte nostra del tema della organizzazione del lavoro e dei sevizi. La prima scelta riguarda soprattutto la politica ed il centro sinistra è atteso su questo tema ad una delle prove più significative riguardo la sua concreta volontà di mettere in atto un reale processo di trasformazione della società. Ma la seconda è affare nostro. Voglio essere chiaro: nel triennio 2001/03 secondo la Ragioneria Generale dello Stato si sono verificati 501.724 passaggi verticali e 538.304 passaggi orizzontali. Certo, in questi numeri incide il passaggio nel 2001 di 249.490 addetti nel comparto sanità, certo hanno inciso nella richiesta delle progressioni orizzontali il blocco ventennale delle carriere, e il fatto che il CCNL ha risposto solo parzialemte alle aspettative di incremento salariale che i lavoratori avevano ed hanno. Tuttavia noi dobbiamo, se vogliamo provare a praticare ciò che predichiamo, provare a fare una contrattazione di qualità sull’ organizzazione del lavoro, accettando la sfida di confrontarci nelle sedi non negoziali, penso alle conferenze di servizio previste dai CCNL, con rappresentanze dei cittadini e per ciò che attiene ai servizi alle imprese, con le rappresentanze datoriali. Questo cambio di passo nella nostra contrattazione è presupposto per poter rivendicare protagonismo e ruolo in quella contrattazione territoriale e sociale di cui parla anche il documento base dei nostri lavori odierni. In particolare costituirebbe una vera innovazione costringere, o meglio indurre, la stessa Confindustria a superare la consueta, ed a dire il vero, un po’ liturgica e generica richiesta di un’amministrazione pubblica più efficiente, offrendole una sede nella quale qualificare meglio e dettagliatamente la propria domanda. Ne potrebbe scaturire un confronto significativo riguardo all’ innovazione da apportare nella organizzazione del lavoro. Va da sé che una contrattazione integrativa così orientata, potrebbe rendere le discussioni sulla produttività meno vaghe, e potrebbe avvalersi anche di risorse aggiuntive che questo terzo attore potrebbe mettere a disposizione come quota parte dei risparmi di cui si avvarrebbe il sistema delle imprese. Aggiungo infine, ma di questo dirò più avanti, che questo sistema sarebbe naturalmente da presupposto ad una maggiore trasparenza nella regolamentazione dei rapporti tra imprese e pubbliche amministrazioni. Ma il lavoro pubblico va utilizzato anche per un aspetto finora sottovalutato. La nostra, quella contemporanea, è considerata una economia dei servizi. E’ bene ricordare come, fatto pari a 100 il PIL del nostro Paese, il 30% sia costituito da attività manifatturiere, il 7% da pubblica amministrazione ed il restante 63% da servizi, terziario e comunicazione. Giova inoltre ricordare che le attività delle pubbliche amministrazioni e dei servizi sono sottratte ancora sostanzialmente alla competizione internazionale. E’ possibile per questi motivi far crescere la quota di PIL, e quindi di sviluppo, prodotta direttamente dal lavoro pubblico. Esiste la possibilità, sinora sottovalutata, di far crescere la quota di servizi economicamente remunerativi. Certo a condizione di investire in formazione, reclutamento di personale professionalizzato e nel quadro di una scelta, alla quale non possiamo sottrarci, di efficientamento della organizzazione del lavoro che riguardi in primo luogo i regimi di orario ed il pieno utilizzo delle strutture di servizio, di quelli insomma, che nell’ industria si chiamerebbero impianti. Ma il lavoro pubblico contiene in sé una ulteriore possibilità, che è quella di favorire lo sviluppo dei sistemi produttivi nazionali o territoriali. E’ ormai dimostrato come la storia che ci è stata raccontata per gli ultimi 15/20 anni, dell’esistenza di un nesso tra spesa pubblica e sviluppo, inteso come un rapporto tra minore spesa pubblica uguale maggiori risorse per lo sviluppo, è per l’appunto una storia. E’ vero, invece, secondo tutti i dati più recenti che riguardano sia i paesi cosiddetti in via di sviluppo, che quelli che si affacciano sul Mediterraneo, che ancora quelli del Nord Europa, esattamente il suo contrario. A più spesa corrisponde più sviluppo a minor spesa corrisponde un ritmo di crescita inferiore. Ma se vogliamo guardare in faccia la realtà basta osservare quella del nostro Paese. Risulta evidente ad un qualsiasi osservatore in buona fede che nelle Regioni in cui i sistemi imprenditoriali godono di maggiore salute, hanno cioè maggiori opportunità per competere, esiste una rete di servizi pubblici migliore e più sviluppata delle altre regioni, nelle quali, invece, più basso è il tasso di insediamento delle imprese, più grandi sono le loro difficoltà e minore è, per l’appunto, lo sviluppo dei servizi pubblici e più rarefatta la presenza delle pubbliche amministrazioni. Connessa ovviamente alle condizioni appena descritte, vi è la questione del ruolo che in materia di legalità “è chiamata” a svolgere la rete delle pubbliche amministrazioni. Credo sia manifesto a tutti come in questi ultimi anni si sia affievolita la capacità delle amministrazioni pubbliche di essere luogo di presidio della legalità. All’origine di questo affievolimento c’è la scelta compiuta dal Governo Berlusconi, ma a cui aveva contribuito in qualche misura anche il Governo precedente, di cancellare il principio di terzietà ed imparzialità della pubblica amministrazione. L’introduzione di uno spoil system, interpretato come strumento per asservire totalmente la struttura amministrativa e burocratica alla politica, ha provocato nei fatti la creazione di una catena gerarchica di comando che corre dal Ministro fino al vertice delle carriere del personale contrattualizzato, passando per tutti i livelli dirigenziali. Lo stesso è avvenuto negli enti pubblici, nelle Regioni e nelle autonomie locali. In questi ultimi anni si è nei fatti contraddetta la scelta operata, fin dalla prima legge di contrattualizzazione del lavoro pubblico, di separare l’amministrazione, cioè la gestione, dalla politica. Ricordo come nel 1992 all’indomani di “Tangentopoli” e della esplosione delle spese per appalti, servizi, acquisizione di beni e consulenze, che si era verificata nel decennio precedente, si decise che il mezzo principale per interrompere quella che appariva una crescita di spesa incontrollata, e che nascondeva spesso fenomeni di corruzione diffusa, fosse quella di separare drasticamente la politica dalla gestione, trasferendo all’amministrazione poteri e compiti gestionali impropriamente in capo alla politica. Aver scelto di introdurre un sistema come quello descritto, che rende i dirigenti del tutto subordinati al politico di turno, ha reso vana questa separazione e nei fatti ripropone la stessa situazione che c’era all’ inizio anni ’90. In particolare come avrete letto dal materiale predisposto dalla d.ssa Marcella Grana del C.R.S., secondo i dati raccolti dagli osservatori internazionali, il nostro Paese è precipitato nella graduatoria redatta da “Trasparency” circa la corruzione percepita dagli osservatori internazionali, dal 29° posto occupato nel 2001, al 42° nel 2004. Analogamente si muove l’indice di fiducia verso la trasparenza delle amministrazioni pubbliche da parte dei cittadini italiani. E’ inoltre del tutto evidente che un funzionamento così distorto delle amministrazioni, altera le condizioni di confronto e competizione delle imprese, sia nei sistemi locali che in quello nazionale. Del resto questa modalità di funzionamento delle pubbliche amministrazioni è funzionale, vorrei dire, è precondizione, della penetrazione della attività della malavita organizzata nell’ attività economica. Se vogliamo essere franchi, fino al limite della brutalità, si può affermare che, in particolare nel Sud del Paese, oggi l’amministrazione pubblica svolge la funzione di rendere formalmente legali attività sostanzialmente illegali. Le stesse scelte compiute dal Governo in materia di condoni fiscali, previdenziali, urbanistici, la progressiva riduzione fino alla mortificazione delle attività di prevenzione, monitoraggio e repressione del cosiddetto sommerso nonché le reiterate affermazioni del Presidente del Consiglio circa la liceità morale dell’evasione fiscale, hanno creato nel Paese un clima di sfiducia verso le istituzioni, grave e pericoloso per la stessa tenuta delle istituzioni democratiche. Dall’ alterazione della legalità nel funzionamento delle pubbliche amministrazioni, dipende la possibilità che si instaurino rapporti tra la malavita organizzata e la politica, come ben sanno le compagne ed i compagni delle nostre strutture meridionali. Mentre, al contrario, un’amministrazione autonoma ed efficiente può costruire un presidio di legalità ed un filtro efficiente alla pervasività della malavita. Molto prima di incrociare un organo inquirente o di magistratura, un’attività economica illegale incrocia un nostro ufficio, una nostra direzione amministrativa, un ufficio tecnico, un assessorato, una camera di commercio, un comando dei Vigili del Fuoco e via dicendo. Bisogna restituire certezza di regole al cittadino ed alle imprese riprendendo la pratica dello snellimento e della semplificazione delle leggi e delle procedure incautamente abbandonate dopo l’esperienza della Bassanini. Non si tratta di rinunciare ai controlli che un’amministrazione è chiamata a svolgere, esercitando positivamente la funzione di Governo dello sviluppo del territorio del quale l’ente locale, la regione e lo Stato sono responsabili. Vanno in questo senso respinte, e per questo le abbiamo negativamente valutate, misure come quelle del decreto sulle competitività che col pretesto di semplificare, abbandonino alle libere ed animali forze del mercato la regolazione dello sviluppo. Ma è necessario anche modificare il rapporto tra amministrazione e cittadini ed imprese. Si tratta di sostituire un approccio di tipo ispettivo sanzionatorio con un approccio amichevole, tramite il quale l’amministrazione indica preventivamente la strada della legalità e aiuta, sostiene, sorregge, lo sforzo dei soggetti che quella strada intendono intraprendere. Tutto ciò è in particolarmente vero se guardiamo al problema del lavoro sommerso. L’esperienza su questa questione ci dice che, oltre a formule contrattuali che facilitano l’emersione, ciò che è stato fatto non è sufficiente. Bisogna trovare strumenti che rendano economicamente conveniente per le imprese emergere. A questo scopo potrebbe essere utile costituire un fondo di emersione, finanziato dalla fiscalità generale, gestito dallo Stato e dalle Regioni, tenendo conto della diversa incidenza del fenomeno e delle sue diverse motivazioni sul territorio nazionale. Misure particolari credo infine, debbano essere rivolte ad affermare la legalità nei comportamenti delle amministrazioni che operano nel Mezzogiorno, sulle cui condizioni di disparità sociale tanto peso ha il funzionamento delle amministrazioni e dei servizi. In questo senso ho trovato particolarmente convincenti quelle indicate nel documento del convegno per l’iniziativa contro la mafia, fatta a Palermo il 15 e 16 marzo 2005 che voglio qui sinteticamente riportare: - piena attuazione dei principi del decreto legislativo n. 29 e delle Bassanini, raggiungendo la separazione dei ruoli burocratici dalla politica; - istituzione, sul modello francese, di un autonomo sistema di valutazione, con piena responsabilità degli atti e con funzione di contrappeso del potere politico; - introduzione dei vincoli della normativa pubblica nella gestione delle aziende di utility in presenza di capitale o di mono committenza pubblica; - introduzione del principio di sussidiarietà e di solidarietà nel rapporto tra stato e regioni autonome; - testo unico delle normative di contrasto delle illegalità nel lavoro; - introdurre negli Statuti delle Regioni e degli Enti Locali espliciti principi che improntino l’azione legislativa ed amministrativa alla lotta contro della mafia ed al contrasto ad ogni forma di infiltrazione malavitosa; - obbligatorietà della presenza di codici etici negli statuti delle associazioni, aventi finalità politiche in senso lato, convalidati da autority specifiche; - rapida attivazione e reale funzionamento delle stazioni uniche appaltanti, prevista dalle normative regionali sui lavori pubblici; - introduzione di un sistema volontario ed incentivato di certificazione di legalità delle imprese, sul modello della certificazione di qualità ambientale, dando vita ad un apposita autority di controllo e ad un sistema di sanzioni per le dichiarazioni non veritiere ; - politiche sociali di sostegno al reddito e alla formazione, con l’uso dei patrimoni mafiosi confiscati e sequestrati; - controlli sulla filiera dei grandi appalti, non solo alla testa e alla coda, ma anche attraverso un sistema di controlli sistematici a campione nelle opere pubbliche; - estensione della clausola sociale a tutti gli appalti; - controllo del protocollo di appalto; - applicazione generalizzata del codice etico dei pubblici dipendenti; - obbligatorietà del codice etico per le aziende che interagiscono a qualunque titolo con le risorse pubbliche o che erogano servizi di interesse pubblico; - estensione dei protocolli di legalità , con particolare riferimento alle attività di maggior rilievo in campo economico e nei servizi; - aggiornamento delle normative penali per combattere le ecomafie e la gestione criminale dello smaltimento dei rifiuti urbani ed industriali.
Come avete avuto modo di ascoltare, non avete trovato traccia in questa relazione della più o meno consueta proposta di riforme legislative tese a cambiare il lavoro pubblico. Penso al riguardo esattamente l’opposto, e cioè che noi abbiamo in questo settore bisogno, se posso chiamarla così, di una vera e propria tregua legislativa. Questa tregua serve agli amministratori, ai cittadini ed alle imprese, anche al fine di ristabilire un quadro certo di regole alle quali attenersi. Si tratterà invece in qualche caso, ad esempio sullo spoil-system, di intervenire per sottrazione, abrogando norme sbagliate. Ma soprattutto si tratta di indurre modifiche nei comportamenti organizzativi della dirigenza e delle stesse OO.SS.. Bisognerà convincersi e convincerci che l’assoluzione di tutti i nostri peccati non può venire dall’invocare l’ennesima mancanza di questa o quella norma. La sola introduzione nei contratti e negli incarichi dirigenziali di parametri qualitativi nella organizzazione dei servizi, in luogo di quelli esclusivamente quantitativi, sarebbe una rivoluzione. Così come un profondo cambiamento può derivare da una contrattazione integrativa imperniata sulle modifiche da apportare alle organizzazione del lavoro. Ho già detto e voglio qui ribadirlo, lo sentiremo dire domani anche da Stiglitz, che il vero principio di regolazione dei servizi non è la concorrenza. In un mercato che non può essere tale, se vale la nostra idea di considerare i servizi pubblici beni comuni, non c’è per definizione concorrenza. Ciò che diventa determinante è il giudizio dei cittadini. Questo giudizio può essere sollecitato sulla base del raggiungimento di standards, la cui costruzione può essere condivisa in sedi, - anche questo l’ho già detto, ma voglio sottolinearlo - non negoziali, ma di concertazione territoriale già previste da nostri attuali CCNL. Questa svolta, ove praticata, avrebbe comunque un primo risultato: quello di rendere almeno comprensibili ai destinatari del nostro lavoro, le ragioni del modo di funzionare dei servizi ed in ogni caso metterebbe in contatto la domanda con l’offerta dei servizi stessi. Credo, infine sul tema della contrattazione integrativa che abbiamo bisogno di più coerenze. Non possiamo avere ad esempio le liste di attesa che abbiamo in sanità e non chiedere mai che venga applicata la norma che prevede la sospensione delle attività libero professionali intramurarie quando l’attesa supera i limiti previsti dai protocolli regionali. E’ difficile fare questo quando sulla contrattazione integrativa gravano oneri impropri. Oneri che derivano da problemi non risolti. Il CCNL ha svolto, e deve continuare a svolgere, il ruolo di garanzia dei diritti fondamentali, non minimi, uguali per tutte e tutti sul territorio nazionale. Ma il livello nazionale ha fatto fatica a svolgere il ruolo di autorità salariale. Né io penso che questo ruolo possa essergli pienamente restituito da un negoziato sul nuovo modello di cui non capisco l’utilità e le finalità in questa fase. Lo dico ai miei amici della CISL e della UIL presenti qui oggi e che, non solo ringrazio, ma invito a dire la loro su ciò che hanno ascoltato, nel loro gradito e per me tutt’altro che rituale intervento. Proviamo a ragionare di merito, come noi categorie pubbliche in questi anni abbiamo fatto e, penso, trovandoci bene. Il potere d’acquisto delle retribuzioni non ha più molto a che fare con gli indici Istat. Ciò avviene in parte per la scarsa verosimiglianza tra ciò che questi indici segnalano, ed il reale andamento del costo della vita agli occhi nostri e di quelli che rappresentiamo, ma è determinato anche dalla farraginosità, lentezza ed anche univoca interpretazione, delle modalità e dei tempi di adeguamento delle retribuzioni. Questo punto è del resto al centro della proposta che unitariamente avanzata circa un anno fa alle segreterie confederali e che per quanto mi riguarda penso ancora valida. Ma se si vuole affrontare davvero il tema del potere d’acquisto non si può prescindere dalla leva fiscale e da politiche coraggiosamente innovative sul costo dei servizi e sul terreno dei prezzi e delle tariffe. E’ di qualche giorno fa la notizia del calo del gettito da riduzione dell’evasione fiscale pari al 60%, ed è ancora di questi giorni il rapporto del CENSIS che segnala lo stato di patrimonializzazione dell’economia italiana. Basti pensare che nell’ultimo quadriennio il reddito da lavoro dipendente è cresciuto per unità di lavoro del 1,6% mentre il reddito immobiliare è cresciuto del 28.4%. Bastano questi due dati, uniti al disastro prodotto dai due moduli di riforma fiscale approvati, ad indicare come reperire le risorse che servono. Ma bisogna prima di tutto che ci sia la volontà politica di fare questo e poi si può porre il problema di sostenere il potere d’acquisto con la leva fiscale e rendendo i servizi pubblici cosiddetti alla persona, come quelli della prima infanzia o per le persone non autosufficienti, veri servizi pubblici: quindi diffusi e non onerosi per i cittadini. Voglio qui evidenziare un dato per sottolineare la fattibilità di ciò che affermiamo. Secondo l’Istat l’ intera compartecipazione alla spesa da parte dei cittadino alle spese sostenute dai Comuni per i servizi sociali ed assistenziali è stata nel 2002 pari ad 1,2 miliardi di euro, un quinto, cioè, dell’ultima riduzione fiscale. Ciò che in definitiva voglio sottolineare è che, se vogliamo affrontare dal nostro punto di vista la verifica del modello contrattuale, non possiamo che farlo a partire dalla tutela del potere d’acquisto. Ma un conto è affrontare il tema sapendo di poter ripartire questo compito su tre leve: salari, fisco e servizi, un conto è affidarsi solo ai salari contrattuali. Si tratterebbe di un’impresa impossibile, che rischierebbe del tutto oggettivamente, di aumentare le disuguaglianze. Non devo qui spiegare i diversi risultati cui si giungerebbe, in ragione dei rapporti di forza diversi, tra settore e settore, tra categoria e categoria. Il tema del nuovo modello può dunque essere affrontato nel quadro di una nuova politica economica e sociale nel nostro Paese. Quella che serve per una vera e propria ricostruzione economica sociale e vorrei dire anche morale. Si può fare questo in fine legislatura? Si può ricostruire con chi ha devastato? Architrave di questa ricostruzione è una svolta da compiersi, ad iniziare dal nostro lavoro, scegliendo una politica che fermi la precarizzazione ed investa in una buona e stabile occupazione. Voglio dirlo chiaramente: penso ad un atto normativo nazionale che stabilizzi, nella pubblica amministrazione e nei servizi, tutto il lavoro che è parte del ciclo ordinario e stabile della organizzazione dei nostri servizi e delle funzioni pubbliche. Stabilizzare il lavoro e le funzioni, e con essi le persone che oggi lo fanno, ponendo fine a vite da precario che durano, per alcuni, davvero da una vita. Ne avrà giovamento l’economia, miglioreranno redditi familiari e la capacità di spendere, ma, soprattutto, daremo un futuro alle persone e la possibilità di costruire un loro progetto di vita, Bisogna finire questo scandalo di persone per formare le quali spendiamo denaro pubblico, penso alla ricerca, (ma si potrebbero fare decine di esempi), che poi finiscono a fare altro o a produrre innovazione e reddito per altri Paesi. So che molte delle richieste avanzate in questa relazione sembrano onerose e non sostenibili finanziariamente. Il mio parere è che nella riduzione dell’evasione e nella tassazione delle rendite patrimoniali, vi siano risorse sufficienti. Aggiungo infine che, se ci convinciamo che gli interventi ipotizzati servono a rilanciare lo sviluppo, va considerata attentamente l’ipotesi che questi interventi siano sostenuti attenuando un atteggiamento ossessivo nei confronti del deficit. L’Italia è un grande Paese, lo sentirete dire con chiarezza ancora da Stiglitz domani, ha capacità e forza sua propria. Deve smetterla di scimmiottare modelli altrui e scommettere su di sè e sul proprio futuro. Investire sul Welfare dei diritti aiuta ad uscire dalle crisi, su questo noi ci impegniamo e chiediamo alla CGIL, e a chi si candida a governare il Paese, di impegnarsi. Per costruire un progetto di trasformazione della società italiana nella quale la parola eguaglianza abbia un senso. Questa al fine è la nostra proposta: far diventare il lavoro pubblico motore di un viaggio verso una società diversa, più giusta, più equa, più libera dal bisogno, dalle mafie, libera infine dal mal di vivere di questi anni, libera di crescere, di tornare a sperare e credere in un futuro migliore di oggi. In uno degli ultimi attivi ai quali ho partecipato, a Catania, ho sentito un compagno, che parlava con evidente rammarico del risultato delle elezioni del sindaco di quella città, dire che non può fare più scuro che a mezzanotte. Questa notte, nella quale il Paese è stato immerso e nella quale la CGIL, noi, ognuno di noi nel suo piccolo, ha cercato di essere di aiuto a non perdersi, è già dietro di noi. Ma il giorno che deve ancora nascere, e soprattutto, che giorno sarà, dipende da noi. |