Il nostro Comitato Direttivo si svolge con una certa tempestività rispetto
all’evoluzione della legge Finanziaria e rappresenta per tutti noi
un’occasione importante per costruire e consolidare un orientamento sui
contenuti della legge stessa, da far vivere nel dibattito con le
lavoratrici ed i lavoratori, con i nostri iscritti. Questo, anche per
evitare il rischio di essere travolti dalla campagna mediatica che in
queste ore si sta incentrando sulla questione fiscale, e che parte da un
punto vista che, ovviamente, differisce non poco dal nostro e che, in
qualche caso, addirittura vi si contrappone.
Il nostro sforzo in questa fase deve essere quello di aiutare le persone
che rappresentiamo a farsi una idea chiara e a costruirsi un giudizio
sereno sui contenuti della Finanziaria, valutando sia gli aspetti positivi
e innovativi che la contraddistinguono,sia quelli per noi giudichiamo
invece meno positivi.
Questo deve essere frutto di una nostra attenta lettura dei testi, senza
fare sconti , ma anche senza drammatizzare oltre misura questioni che
tradizionalmente emergono nel momento in cui si scrive una legge
Finanziaria.
Ora, bisognerà che noi, almeno come gruppo dirigente, teniamo conto che
questa legge è, ovviamente, il frutto delle dinamiche politiche esistenti
all’interno della coalizione di Governo, composta da forze contrassegnate
da una ispirazione politica, da una visione della società e , quindi,da
una rappresentanza di interessi, molto diverse e composite.
Del resto, basta pensare ai ministri. E’ del tutto evidente che la
rappresentanza di interessi che esprime Mastella è diversa da quella, per
esempio, di Ferrero piuttosto che di Damiano.
Questa dinamica esiste, non si può far finta che non abbia pesato nel
raggiungimento di un equilibrio, ovviamente temporaneo, che ha consentito
la definizione dei testi che sono sotto i nostri occhi e che continuerà a
pesare nel corso del dibattito parlamentare e sui voti che, di volta in
volta, verranno espressi sui singoli articoli. Dobbiamo sapere che questo
costituisce un elemento con il quale dovremo costantemente fare i conti e
che non faciliterà di certo il nostro lavoro, anzi, dal mio punto di
vista, lo complicherà ulteriormente .
Io credo che sarebbe un errore da parte nostra sottovalutare le condizioni
in cui versa la finanza pubblica, a partire dalla nota questione del
rapporto deficit/Pil, che di fatto collocava il nostro Paese fuori
dall’Europa e che, prima della manovrina di giugno e senza l’intervento
correttivo della legge Finanziaria, veniva stimato al 4,6-4,8%.
E’ poi noto a tutti che l’avanzo primario è scomparso e che
l’indebitamento del Paese è cresciuto.
Ora, il fatto che questi dati – a differenza di quanto è avvenuto durante
il Governo di Silvio Berlusconi – siano stati drammatizzati dalla
Commissione Europea e dai tecnici che vigilano sull’andamento della
finanzia italiana, non toglie nulla alla necessità oggettiva, che noi
condividiamo, di rispettare i vincoli.
Negli ultimi cinque anni abbiamo avuto un Governo del tutto estraneo alla
costruzione dell’Europa, che ha svolto un ruolo nella politica
internazionale del tutto schiacciato sulla politica dell’Amministrazione
repubblicana degli Stati Uniti d’America.
Se è vero ciò che ci siamo sempre detti, e cioè che stare nell’Unione
Europea ha messo i cittadini italiani e, in primo luogo, gli strati più
deboli, quelli che noi rappresentiamo, al riparo dai rischi di “sindrome
argentina”, lo è più che mai oggi. Non si può essere europeisti a giorni
alterni, e cioè essere europeisti quando si parla del multilateralismo in
politica estera, quando si riconosce lo straordinario lavoro fatto dal
governo italiano sulla vicenda della missione in Libano, quando si
apprezza il ritorno ad un ruolo centrale dell’Europa in tutta questa
ultima fase, almeno per quel che riguarda le zone del Medio Oriente che
tanti squilibri hanno determinato negli ultimi cinque anni nello scenario
internazionale; occorre esserlo anche quando si guarda all’Europa nella
sua dimensione sociale ed economica.
Aggiungo che io credo si debba riprendere con coraggio un cammino
interrotto dal referendum francese sul Trattato per la Costituzione
Europea. Da quel voto negativo è necessario trarne le conseguenze, dando
di nuovo fiato alla ricostruzione del processo di unificazione
dell’Europa, privilegiando le ragioni di un’Europa sociale un po’ meno
attenta alle ragioni della moneta e della internazionalizzazione
dell’economia.
Lo sforzo di risparmiare per rientrare in Europa non può essere
considerato, dal nostro punto di vista, un atteggiamento regressivo. Il
risparmio è la premessa per una crescita eco-compatibile che si faccia
carico dei limiti dello sviluppo di cui tante volte in questi anni abbiamo
parlato.
Una crescita che vada oltre il 2% in ragione d’anno, dal mio punto di
vista non è affatto auspicabile, se vogliamo essere coerenti con ciò che
abbiamo sostenuto nel corso di questi anni.
Contenere il deficit è, dunque, giusto, ed è giusto farlo a cominciare dal
taglio agli sprechi.
Non possiamo, infatti, accettare la versione caricaturale che, a volte, si
fa delle nostre posizioni, in particolare del lavoro pubblico, e cioè che
noi saremmo meno attenti alle questioni del rigore rispetto ad altri.
Anzi, io credo che il nostro sforzo debba essere quello di rivendicare
questa scelta e di indicare gli strumenti con i quali portarla avanti.
L’obiettivo può essere centrato se il contenimento della spesa si realizza
tenendo conto che vi sono interessi confliggenti dentro la composizione
della rappresentanza sociale e politica del Governo, che vi sono interessi
confliggenti nella società italiana e che, dunque, non è indifferente
scegliere uno strumento piuttosto che un altro.
In particolare ho avuto modo, anche nella discussione si è sviluppata
nella nostra Confederazione, di contestare che sia una politica
straordinariamente innovativa affrontare la questione del contenimento
della spesa nel nostro Paese, intervenendo per quattro grandi capitoli che
costituiscono la base della nostra spesa primaria: pubblico impiego, Enti
locali, sanità e previdenza.
E’ del tutto evidente che se per risparmiare occorre equi-ripartire i
tagli tra questi quattro grandi capitoli, non è necessario essere il
professor Tommaso Padoa Schioppa, ma basta un modesto funzionario della
Ragioneria Generale dello Stato per indicare una strada come questa.
Era ed è tuttora lecito, dal mio punto di vista, aspettarsi qualche sforzo
di fantasia in più, qualche capacità di elaborazione in più e,
soprattutto, una scelta dal sapore politico diverso.
Non è ancora chiaro nell’attuale stesura della Finanziaria, se prevale una
logica pura e semplice di taglio della spesa, se si passa con la falce e
si taglia tutto quello che c’è, quello che è giusto tagliare, ma anche
quello che, forse, sarebbe meno giusto tagliare, oppure se si mette in
campo una feroce politica di lotta agli sprechi. Ciò che ci pare positivo
è che l’aumento delle entrate, la lotta all’evasione, insieme ad una
manovra fiscale - che è la parte più convincente della Finanziaria –
rimettono in campo, finalmente, un’idea della redistribuzione del reddito
nel nostro Paese che va incontro a quelle ragioni dell’equità che abbiamo
più volte richiamato. Così come giudichiamo positivo che sia stata accolta
una richiesta, più volte avanzata da noi e dalla Confederazione, di
ricostruire un meccanismo di programmazione, monitoraggio, governo e
controllo delle spese per l’acquisizione di beni e servizi, almeno per le
Amministrazioni centrali.
Lo dico perché questa partita vale contabilmente, dentro le leggi di spesa
del nostro Paese, ben 7 miliardi di euro e se davvero questo meccanismo
dovesse essere rimesso in moto e cominciare a funzionare, si possono
drenare risorse consistenti per la lotta agli sprechi.
Tuttavia, insieme a tutto ciò,dentro la legge Finanziaria e il decreto
fiscale, vivono atti assolutamente contraddittori. Mentre si propone,
giustamente, di diminuire del 10% le posizioni dirigenziali, nello stesso
tempo il ministero dei Beni Culturali bandisce un concorso per dirigenti,
riservando il 50% dei posti per la stabilizzazione di quei dirigenti ai
quali è stato affidato privatamente un incarico in base al 6° comma
dell’articolo 19 del decreto 165.
Così come – e mi spiace citare un ministro, la cui opera abbiamo
apprezzato tante volte, compresa questa Finanziaria – il viceministro
Visco non può, da una parte, affermare che intende ridurre le consulenze e
dimezzare la spesa per la Scuola superiore dell’economia e delle Finanze,
e dall’altra proporsi di utilizzare il 50% delle risorse che si liberano
per le consulenze.
Per questo insisto sul fatto che non è ancora chiara quale sia la strada
presa attualmente, se prevalga la logica dei tagli oppure quella virtuosa
del risparmio, alla quale anche noi diamo la nostra convinta adesione.
Nel frattempo è stata messa in campo la “balla” sul ceto medio. Come ci ha
recentemente segnalato l’IRES, i 2/3 delle persone hanno una pensione o un
salario sotto 1.200,00 Euro al mese; Vincenzo Di Biasi,sulla base di dati
dell’ARAN e della Ragioneria, ha rielaborato una tabella, che è stata
considerata convincente anche dal ministero dell’Economia, che stima che
l’84,37% delle persone che rappresentiamo è sotto i 27 mila Euro, ed il
50,46% è sotto i 25 mila Euro, che rappresentano la grandezza sulla quale
normalmente stimiamo i nostri aumenti contrattuali.
Per questo io penso che il primo giudizio vada speso con grande forza nei
confronti della manovra fiscale, riconoscendo che finalmente è stato
cancellato il secondo modulo della riforma Tremonti e la sua odiosa teoria
dello “sgocciolamento”; cioè la teoria per la quale aumentando i consumi
dei più ricchi, qualche cosa poi sgocciola anche a livello inferiore.
Quindi, noi dovremmo prendere le gocce che tracimano dal lusso dei piani
superiori e contribuire, così, a far crescere il livello dei nostri
consumi. Per fortuna, l’andamento dell’economia e la curva dei consumi si
sono incaricati di dimostrare che le cose non stanno tuttora così.E questo
sarà bene che lo ricordino anche quelli che ci governano ora, perché la
ripresa inaspettata del Pil e del gettito delle entrate, che sono andate
molto oltre quanto era stato preventivato dal Dpef, non hanno comportato
la risalita della curva dei consumi interni che, anzi, è in calo come
prima delle elezioni.
Più complesso è il discorso che riguarda specificamente noi. Il giudizio
complessivamente positivo che noi diamo nasce dal fatto che c’è una scelta
generale di redistribuzione del reddito nella società.
Si poteva, forse, fare di più? Io penso di sì, penso che sulla rendita si
poteva fare più, così come sulla patrimoniale. In questo modo si sarebbe
dato il segnale di un intervento che non riguardava solo il lavoro
dipendente ed autonomo, di una grande redistribuzione solo all’interno del
lavoro, prestando in questo caso il fianco a qualche critica che si è
sentita. Tuttavia, bisogna riconoscere che è la prima volta, da molti anni
a questa parte, che si prova ad invertire la tendenza.
La verità è che in passato si è tolto a chi aveva di meno per dare a chi
aveva di più, se sono vere tutte le elaborazioni sul primo e secondo
modulo della riforma Tremonti; se sono veri gli assegnini da 1 euro,
frutto del guadagno realizzato dal lavoro dipendente con l’ultima riforma
fiscale, che mi hanno rimandato affinché li restituissimo al Governo.
Questo vale per la gran parte delle persone che noi rappresentiamo, perché
ci sono anche quelli che qualche cosa hanno guadagnato.
C’è, dunque, il mantenimento di un impegno serio preso durante la campagna
elettorale, a gran voce richiesto e reclamato anche da noi.
Richiamerò spesso il dato della campagna elettorale e del programma
dell’Unione perché il problema del nostro rapporto con questo Governo non
può essere risolto con la classica coppia dicotomica amico/nemico; c’è
però un punto che riguarda le persone che noi rappresentiamo e, tra
queste, tutte quelle che hanno votato per questo Governo, affidandogli un
mandato. E’ chiaro che nel rapporto tra elettore ed eletto, il mandato che
viene conferito rappresenta la base di una qualsiasi democrazia; un
Governo che si appresta ad esercitare un mandato diverso da quello che ha
ricevuto, è un Governo che mette in discussione in radice il nucleo della
democrazia rappresentativa.
Questo è il punto per me fondamentale, e non quello di richiamare il
Governo ad un comportamento “amico” nei nostri confronti. Il governo deve
essere innazitutto fedele al mandato che ha chiesto e che ha ottenuto, e
poiché tante persone tra quelle che noi rappresentiamo – secondo gli
studiosi dei flussi elettorali, 2/3 dei pubblici dipendenti, una
percentuale che cresce tra gli insegnanati, ha votato per il Governo
dell’Unione, variamente inteso – occorre che questo Governo sia fedele a
ciò che ha promesso e noi saremo tra quelli che glielo ricorderanno in
tutti i modi in cui è necessario, possibile e consentito ad un sindacato.
Per questo io penso che il discorso che ci riguarda direttamente sia un
po’ più complicato. La prima questione riguarda i contratti nazionali di
lavoro.
Abbiamo riconquistato il contratto nazionale di lavoro il 28 di settembre,
perché il 27 di settembre il contratto nazionale del lavoro pubblico non
c’era, in quanto il Governo, a quella data, considerava ancora scontato
che le risorse a disposizione fossero pari ai 300 milioni circa già
stanziati dal Governo Berlusconi, a cui si sarebbero aggiunti 800 milioni,
per un totale di un miliardo e 100 milioni, il che avrebbe comportato un
incremento dei salari delle lavoratrici e dei lavoratori pubblici di circa
20 euro medi pro-capite. Dico con buona approssimazione alla realtà che
solo 48 ore prima del varo della legge Finanziaria il Governo ha scoperto,
grazie all’iniziativa delle organizzazioni sindacali, in particolare della
nostra Confederazione, di Paolo Nerozzi e di Guglielmo Epifani e, per quel
poco che abbiamo potuto fare, anche grazie a noi, che il tema dei
contratti nazionali del pubblico impiego non poteva essere eluso.
A quel punto ed in quelle ore si è aperta una fattiva ed effettiva
discussione su come questo tema poteva essere affrontato. Come?
Innanzitutto trovando le risorse pari – secondo alcune stime addirittura
un po’ più “abbondanti” delle nostre richieste - a quelle che noi avevamo
individuato, che tenevano conto dell’inflazione programmata stabilita
dallo stesso Governo per il 2006-2007, più un recupero dello 0,5% per il
biennio precedente per lo scarto tra inflazione reale e programmata, più
una quota per la contrattazione integrativa.
Ma è giusto che sia così, perché questo avviene mantenendo formalmente il
biennio – e, io aggiungo, anche sostanzialmente dal punto di vista delle
risorse che vengono recuperate – e conferendo al 31 dicembre del 2007
l’intero ammontare del rinnovo contrattuale con decorrenza, però, gennaio
2007, cioè con decorrenza retroattiva. Quindi,non solo la decorrenza è
fatta salva, ma non si ripeterà la questione degli scaglionamenti, né
quella, odiosa, dei trascinamenti che abbiamo impiegato ben tre cicli
contrattuali per risolverla: dal primo Protocollo Ciampi del 1994 fino al
biennio 2000-2001, quando riuscimmo ad allineare il calendario sindacale e
contrattuale con quello reale, stabilendo cioè le decorrenze
gennaio/gennaio.
E’ un risultato importante per il contesto dentro al quale è maturato:
importante per l’entità delle risorse che mette a disposizione per i
contratti pubblici che sono, grosso modo, i 3,4/3,5 dei 33,5 miliardi
della manovra della Finanziaria. Quindi, un risultato da non
sottovalutare, considerate le condizioni generali di contesto in cui
questa discussione è avvenuta, il livello di confronto con il Governo e il
fatto che non tutti all’interno della delegazione sindacale hanno
sostenuto con la stessa forza lo stesso orientamento. Non parlo delle
categorie, ovviamente, ma delle Confederazioni, all’interno delle quali si
è manifestato qualche problema unitario.
Si tratta di un giudizio positivo determinato anche dalla forza con cui
sono state avanzate queste richieste, fino al punto che la CGIL ha
minacciato di cambiare il segno del giudizio complessivo sull’intera
manovra se questo problema non fosse stato affrontato e risolto. Questo ha
senza alcun dubbio aiutato tutti a mettersi al lavoro ed a trovare una
soluzione.
Il fatto di essere riusciti a passare per la cruna dell’ago, portando a
casa un risultato che sarà certamente complicato da spiegare, ma se
riusciremo a far comprendere in quale quadro, in quale modo questa
soluzione è stata costruita e qual è il risultato finale dal punto di
vista delle quantità, io penso che le lavoratrici e i lavoratori saranno
in grado di apprezzare il lavoro fatto.
Dove sta, secondo me, il punto che davvero non va? Nell’approccio
complessivo che il Governo mostra di avere nei confronti del lavoro
pubblico, un approccio orientato alla riduzione, al taglio
dell’occupazione, degli organici, dei finanziamenti.
Ma se si mette un monetarista a fare il ministro dell’Economia, alla fine
i risultati non possono che essere questi.
Da questo punto di vista, altro che valorizzazione del pubblico, altro che
“pubblico è meglio”, altro che “intervento del pubblico in economia”. Del
resto la stessa vicenda Telecom, con tutto quello che ha scatenato, con
gli insulti che si è preso un sociologo come De Rita, per aver
semplicemente detto che nello sviluppo ordinato di una società e delle sue
dinamiche economiche ci deve essere qualcuno che si candida a
rappresentare un interesse collettivo e che quel qualcuno non può che
essere lo Stato, e che, dunque, senza rimpiangere o riproporre carrozzoni
come l’IRI, soprattutto nella sua ultima fase, si deve pur pensare che lo
Stato abbia una modalità di intervento per governare l’economia, la dice
lunga.
Del resto, sempre il ministro dell’Economia ha scritto in un articolo su
“Repubblica” che lui sente come suo mandato il problema di ridurre il peso
delle strutture nello Stato, nei servizi e nell’economia.
Questo, dunque, è il livello vero delle difficoltà. La stessa cosa capita
con l’articolo 32 della legge Finanziaria che descrive come si
ristrutturano i ministeri: entro 60 giorni bisogna passare ad una
organizzazione su base regionale, se non lo si fa si fanno gli uffici
territoriali di Governo ed entro 30 giorni se non li si fa, lo fa con atto
sostitutivo la Presidenza del Consiglio.
Il sindacato dove sta in questa vicenda? Se si scorre l’articolo in
questione si scopre che quando si parla di riallocazione e di esuberi, a
quel punto il sindacato è chiamato a gestire le conseguenze - non il
fenomeno - ma in maniera anche abbastanza sbrigativa.
Lo stesso discorso vale a proposito dell’idea di ridurre il back office,
cioè tutto ciò che sta nelle funzioni di supporto, che deve essere
rapidamente ridotto al 15% del totale. Sarà interessante vedere come farà
la Guardia di Finanza, che ha il 75% del personale che fa back office.
Poiché si dice che questa nuova formula vale anche per le forze armate,
per i corpi di polizia, sarà altrettanto interessante vedere come sarà
applicata.
Tra l’altro, questo articolo è anche molto ambiguo perché, a un certo
punto, parla della necessità di fare i piani di riallocazione del
personale. Se i piani di riallocazione del personale servissero a
utilizzare più gente nel front office, sarebbe una cosa che vale la pena
di affrontare ; se invece non si chiarisce questo punto e i piani di
riallocazione vogliono dire processi di mobilità generale, io dico che il
problema è diverso. E mentre si dice questo,vengono rimessi in vita i
Provveditorati su base provinciale; anzi, il ministro Fioroni nel suo
disegno gli affida compiti, strutture ed importanza che i Provveditorati
non hanno mai avuto. Quindi, da una parte si afferma che lo Stato si
riorganizza su base regionale, dall’altra un singolo ministero procede in
maniera del tutto difforme dal disegno generale.
Ci sono poi due titoli specifici, uno sul ministero dell’Economia ed
un’altro sul ministero dell’Interno che sostanzialmente sono costruiti
nello stesso modo: bisogna ridurre non più a 30, come si era detto
all’inizio, ma a 50 le strutture territoriali del ministero dell’Economia,
anche in questo caso con problemi non semplici di riallocazione del
personale. Era stato stimato che con 30 sedi avremmo avuto circa 6000
esuberi, facendo una semplice proporzione con 50 se ne avranno un po’ meno
della metà, intorno a 3000, che noi dovremmo essere chiamati a gestire.
Sugli Enti locali e sulla sanità la situazione è addirittura peggiore, nel
senso che la manovra ha un impianto sufficientemente centralista e scarica
una gran parte dei costi su questo sistema.
Del resto, abbiamo tutti letto le posizioni espresse dal Presidente
dell’ANCI, le proteste delle Associazioni dei Comuni e delle Province nei
confronti della manovra; in ogni caso per quanto riguarda noi, si propone
ai Comuni di stare sotto un tetto di spesa e per poter stare sotto quel
tetto di spesa, di avvalersi delle norme che riguardano o la
riorganizzazione dei ministeri - e viene citato esplicitamente l’articolo
32 - oppure - facendo riferimento al 57 – la riduzione del personale. Ma
anche in questo caso dobbiamo essere precisi nel nostro giudizio , perché
veniamo da una situazione di totale blocco del turn over.
Questa situazione fa sì che le nostre difficoltà siano ancora maggiori. In
realtà noi avremmo bisogno di uno sblocco reale di questo sistema, perché
in taluni servizi e settori ha ulteriormente appesantito le carenze
occupazionali.
Qual è la proposta avanzata? Sostanzialmente che si prenda un lavoratore
ogni cinque che vanno in pensione, privilegiando i precari.
Ora, gli uffici dell’INPDAP stimano, nel 2007, un aumento non esponenziale
ma proporzionale rispetto al 2006, perché già nel 2006 c’è stato un picco,
dovuto ai grandi annunci sulla riforma del sistema pensionistico, grosso
modo di 105 mila pensionamenti nell’intero settore pubblico.
Se le sostituzioni avvenissero nell’arco dello stesso anno in ragione di
una su cinque, noi avremmo una diminuzione dell’occupazione nel settore
pari ad 80 mila unità, un conto banalissimo.
La norma è scritta in maniera ancora più stringente per quello che
riguarda il servizio sanitario nazionale, dove si fa riferimento alla
necessità di riportare la spesa a quella del 2004. Vale la pena di
ricordare che si tratta della stessa norma prevista dalla Finanziaria
Berlusconi/Tremonti, ma leggermente peggiorata, perché invece della
riduzione dell’1% sul 2004, si chiede una riduzione dell’1,4%. Inoltre,
per la contrattazione integrativa si aggiunge una formula che prevede per
i compagni della sanità, ma che vale anche per tutti gli altri, perché il
sistema del fondo unico è uguale in tutta la contrattazione integrativa,
che in caso di cessazioni del rapporto di lavoro, la quota di produttività
del lavoratore che se ne va e che prima tornava nel fondo e veniva
ridistribuita tra quelli che restavano, non torna più nel fondo, se ne va
insieme a quel lavoratore, cioè in realtà va all’azienda, con un effetto –
tutto sommato – abbastanza deprimente sulle eventuali ipotesi di
incremento di produttività. E’ infatti evidente che a quel punto non ci
sono più soldi da dare a chi, in numero ridotto rispetto a prima, fa lo
stesso lavoro. In realtà si porrebbe un problema serio per lo svolgimento
di talune funzioni dentro al sistema perché, come sappiamo, se si
diminuiscono le quantità – cosa che l’anno scorso non è successa perché
abbiamo avuto la forza di non far applicare la norma di Berlusconi, anche
perché è arrivata in concomitanza con un incremento dei contratti –
vengono messe in discussione molte delle indennità che vengono utilizzate
nell’organizzazione del lavoro quotidiano nelle nostre aziende.
E’ il segno di una manovra un po’ troppo centralista che scarica, dal
punto di vista del contenimento dei costi e dei tagli, gran parte del peso
sulle strutture degli Enti locali e del servizio sanitario nazionale.
E’ una ipotesi che noi contestiamo, come contestiamo la scelta dei tickets
che consideriamo pesante, in particolare per quello che riguarda il ticket
sulla ricetta.
Come sappiamo il ticket sul pronto soccorso ha dato sempre risultati assai
discutibili perché nella gran parte dei casi sono gli addetti che lo
rendono nullo, in quanto si crea uno strano rapporto di solidarietà tra
l’addetto ed il paziente per cui un codice bianco viene trasformato in
automatico in codice giallo. E a questo proposito ricordo come Ghigo,
all’epoca Presidente della Regione Piemonte, aderì con grande rapidità
alla nostra proposta di abolire quel ticket perché da un conto che i suoi
tecnici avevano fatto, risultava che il rapporto tra ciò che guadagnavi e
ciò che spendevi per tenere in piedi quel sistema era assolutamente
sfavorevole.
Una misura inefficace, un po’ odiosa è quella sui certificati, totalmente
sbagliata da questo punto di vista, semplicemente perché è foriera di una
serie di inasprimenti che cadranno sulle spalle dei cittadini perché la
conseguenza reale di tutto questo è una sola: aumenteranno le
esternalizzazioni e le privatizzazioni. E’ infatti del tutto evidente che
i Comuni che non vorranno ridurre la gamma dei servizi per questa via, li
appalteranno , li daranno alle cooperative, o costituiranno apposite
società – come già in gran parte d’Italia avviene – magari utilizzando la
leva della stabilizzazione del precariato.
Se io creo una società privata, invece che fare i concorsi, o andare a
verificare se quel lavoratore ha fatto la prova selettiva, utilizzo il
contratto di natura privata, lo stabilizzo e non se ne parla più.
A quel punto diventa una bella responsabilità per ciascuno di noi
stabilire se si può dire di no ad una cosa del genere e consigliare a quel
lavoratore precario che è meglio seguire la strada della stabilizzazione
nel lavoro pubblico.
A me pare che sostanzialmente questa impostazione sia frutto di una logica
che va in direzione di una riduzione delle strutture pubbliche, del loro
peso nella società, quindi molto distante dalla nostra impostazione di
valorizzazione del lavoro pubblico.
Mentre diciamo tutto questo, alla domanda di quanti siano i precari che
verranno assunti con questa Finanziaria, nessuno di noi è in grado di dare
una risposta verosimile se non per quelli delle Amministrazioni centrali
che sono gli stessi della norma Baccini, sia pure riformulata in modo
diverso, più i mille contratti di formazione lavoro, che riguardano in
particolare alcuni Enti pubblici. E qui ci fermiamo.
Questo è un problema serio tanto che abbiamo deciso di prendere in carico
questa vicenda e stiamo cercando ancora in queste ore di proporre alla
CISL ed alla UIL almeno uno sciopero dei precari con una manifestazione
nazionale a Roma, insieme a quelli della scuola, dell’università e della
ricerca per riportare all’attenzione del dibattito parlamentare sulla
legge Finanziaria questa vicenda.
Che cosa dobbiamo fare noi a questo punto? Ovviamente incassare ciò che
consideriamo un risultato positivo, aprendo però contestualmente – come
peraltro stiamo cercando da giugno - una vertenza con il Governo sulla
riorganizzazione del lavoro, quello che abbiamo chiamato con uno slogan
“un patto per il lavoro pubblico”.
I problemi di riefficientamento, di rimessa in moto della macchina della
riforma esistono, perché non sono trascorsi invano cinque anni di governo
Berlusconi, che ha bloccato qualsiasi ipotesi di riforma, ha bloccato
quelle che erano in corso, ha invertito la direzione dei processi che si
erano messi in moto. La riforma della Pubblica Amministrazione è come un
motore acceso; se tu lo fermi, e lo fermi per molto tempo, è complicato
rimetterlo in moto e il motore non è più nelle stesse condizioni.
Noi abbiamo fatto – e ne dobbiamo essere consapevoli - dei passi indietro
da questo punto di vista nel lavoro pubblico; è nostro interesse rimettere
in moto questo processo.
E’ per questo che da giugno abbiamo cercato di cambiare segno al dibattito
sui fannulloni, chiedendo di riaprire questa discussione, e questo è
esattamente quello che dobbiamo fare in queste ore: chiedere al Governo
che si apra una discussione sulle cose che non condividiamo. Intanto,
vogliamo discutere su come gestire le risorse per i contratti, perché se
non si fa una modifica dell’ordinamento contrattuale, cioè su come rendere
esigibili i nostri contratti, non potremo fare un accordo prima di gennaio
del 2008; invece noi abbiamo assolutamente bisogno che gli accordi vengano
fatti subito.
E’del tutto evidente che per il biennio 2008-2009 non c’è un euro perché
le risorse che indicate dalla Finanziaria si riferiscono al biennio
2006-2007.
Se noi, però, quel biennio non lo abbiamo chiuso prima che inizi la
discussione sulla prossima legge Finanziaria è del tutto evidente che lo
slittamento che abbiamo cercato in tutti i modi di evitare, sarà nei
fatti.
Noi, quindi, abbiamo bisogno di sottoscrivere i contratti nei primi mesi
del 2007 e per farlo è necessario che venga modificata la normativa che li
rende esigibili. Abbiamo bisogno di dare stabilità con un protocollo a
quelle cifre ed alla loro distribuzione.
Occorrerà che con quel protocollo si fissino i cardini,o almeno i titoli,
della nostra idea di riorganizzazione del lavoro, quello che abbiamo
chiamato, appunto, “il patto per il lavoro pubblico”, sia riguardo ai
problemi della produttività, dell’efficienza, della contrattazione
integrativa, al cui blocco abbiamo resistito con successo, ma alla cui
riqualificazione e finalizzazione non possiamo e non vogliamo
sottrarci,perché abbiamo bisogno - per dimostrare che il nostro è un
lavoro che serve ai cittadini – di utilizzare questo strumento per fare
azioni che migliorino la qualità dei servizi.
Senza andare tanto lontano, dobbiamo fare un po’ di accordi , decidendo
già nel contratto nazionale di destinare alcune somme , ad esempio, in
sanità, alla riduzione delle liste di attesa, e negli altri servizi,
quelli erogati dagli Enti locali, ad un allargamento, prima di tutto
quantitativo ma anche qualitativo, della possibilità di accesso.
Sono cose che non si sono fatte non per nostra volontà, ma perché i
dirigenti non ce le hanno richieste e perché con CISL ed UIL non siamo
riusciti a metterci d’accordo, trovandoci spesso in solitudine.
Queste cose vanno chiarite e di questa nostra discussione io credo si
possa trovare traccia nella costruzione di questo accordo, che dovremo
sottoporre all’attenzione ed alla validazione dei lavoratori, quando
andremo a spiegare loro quello che stiamo facendo, e sulla base di quale
mandato lo stiamo facendo, per registrare il loro consenso o - ma mi
auguro, come tutti voi, di no – il loro dissenso.
Per questo abbiamo bisogno - oltre all’incontro con il Governo sul
protocollo per il contratto - di incontrare, sempre insieme al Governo,
anche una rappresentanza istituzionale delle Autonomie locali e delle
Regioni. Questo, perché è evidente che questa vicenda non la possiamo
risolvere con uno solo di questi interlocutori. Un po’ diverso è il
discorso sulle Regioni, perché - onestà vuole che lo si dica – la loro
responsabilità nella vicenda della sanità è un po’ più grande di quanto
non sia quella degli Enti locali, perché la parte che riguarda il
personale che sta dentro la legge Finanziaria è stata lungamente oggetto
di confronto tra il ministro della Salute e la rappresentanza delle
Regioni, in particolare con il Presidente della Conferenza Stato/Regioni,
in parte anche anticipato nella discussione sul patto per la salute, dove
queste intenzioni erano già state largamente rappresentate e rispetto alle
quali noi avevamo espresso e continuiamo ad esprimere la nostra
contrarietà ora che sono diventate decisioni.
Fatto questo abbiamo davanti a noi la manifestazione con 5000 delegati,
quadri, RSU già convocata al Palazzo dei Congressi per il 23 di ottobre,
per la riuscita della quale dobbiamo lavorare. Dovremo intanto fare una
campagna di informazione dei nostri Comitati degli iscritti, delle
lavoratrici e dei lavoratori, e so che in qualche Regione abbiamo già
raggiunto accordi unitari in questo senso. Il 23 ottobre sarà l’occasione
per assumere una valutazione sullo stato dell’arte del confronto: se
questi tavoli sono stati attivati, che tipo di risultati hanno già
raggiunto, oppure se si vanno profilando, oppure se questo non è avvenuto.
Sulla base di questa valutazione, decideremo il da fare, utilizzando tutti
gli strumenti a disposizione del sindacato quando ci sono risultati che
non lo convincono, senza precipitare, senza confonderci con gli ordini
professionali che in sanità faranno la manifestazione nazionale contro il
Governo, contro le liberalizzazioni, contro il decreto Bersani. Sarà bene
spiegare ai nostri compagni che stanno in quegli ordini che quella
manifestazione e quel tipo di parole d’ordine sono incompatibile con le
ragioni della nostra organizzazione, perché noi siamo sindacato generale.
C’è un momento in cui si può stare insieme, e finché è stato possibile lo
abbiamo fatto, ma c’è un punto di non ritorno che è quello della
corporativizzazione del sistema, che è esattamente il rischio che stiamo
correndo in questa fase, in cui le persone – di fronte ad una posizione
come quella che il governo ha assunto sul lavoro pubblico - hanno paura e
magari pensano di potersi difendere rinchiudendosi in sé stessi, nel
proprio piccolo gruppo, tutelando le ragioni corporative, magari da
posizioni professionalmente di forza: penso ad alcune professioni
specifiche in sanità, ma non solo.
Noi questo non lo possiamo fare; per questo è importante che si spieghi
con chiarezza il nostro punto di vista e che si spieghi con altrettanta
chiarezza che la CGIL è in grado di discernere, senza timidezze, ciò che
va bene da ciò che va decisamente male, e il lavoro che siamo in grado e
che abbiamo voglia di mettere in campo per correggere le cose che non ci
convincono.
Abbiamo poi necessità di recuperare la nostra elaborazione politica,
perché a novembre del 2007 votiamo e so che le persone ci misureranno per
quello che noi avremo fatto in questo anno e per come avremo declinato
l’autonomia della CGIL nella stagione del Governo dell’Ulivo.
Roma, 3-4 ottobre 2006 |