INTERVENTO DI LAIMER
ARMUZZI
SEGRETARIO GENERALE FP CGIL
ALL’ASSEMBLEA NAZIONALE
DEI QUADRI E DEI DELEGATI
DEL 3 E 4 APRILE 2001
Martedì
scorso, mentre distribuivo volantini in un ospedale romano in preparazione
dello sciopero della sanità, il cui esito è a voi ormai noto, un lavoratore
che smontava dal turno di notte, si è trattenuto, mi ha rivolto alcune domande
e mi ha espresso le sue preoccupazioni ed inquietudini.
Ha
incominciato a parlarmi della sua stanchezza, in un turno di notte
sotto-organico, in un ambiente di lavoro da anni in ristrutturazione, in un
reparto sovra-affollato.
Mi
ha parlato del suo lavoro, della difficoltà di svolgerlo al meglio.
Mi
ha detto che sarebbe anche disposto a continuare a sopportare questa situazione,
se i sacrifici quotidianamente fatti fossero davvero utili per costruire un
futuro migliore per tutti e soprattutto per le nuove generazioni.
Mentre
parlavamo, intorno a noi si sono fermati altri lavoratori.
Difficile
non vedere come, dietro le cose che ascoltavo, vi fosse il disagio determinato
da una profonda modificazione intervenuta nella organizzazione del lavoro negli
ultimi anni.
Nella
sanità, come altrove, ci si trova di fronte ad una intensificazione della
prestazione ed ad una compressione delle mansioni, con un esproprio di quelle più
qualificate ed alla impossibilità di intervenire sul ciclo del lavoro, che
risulta scomposto ed incomprensibile al singolo lavoratore e a volte anche noi.
E’
difficile in questo quadro per noi, per le RSU, comprendere e governare un ciclo
i cui ritmi e contenuti, ad iniziare dagli orari di fatto, si stanno via via
divaricando dai contratti.
Ma
se questa può essere la situazione per i destinatari dei nostri contratti, se
non vince chi vuole destrutturate questo sistema di regole e diritti, quale può
essere la condizione di lavoro di quelle
migliaia di lavoratori, che anche nella sanità e negli enti locali, hanno un
rapporto di lavoro cosiddetto atipico o flessibile?
Si
tratta di quella flessibilità non regolata, da cui tanti
- alcuni forse anche in questa sala – sono sedotti e che sarebbe meglio
chiamare con il suo nome e cioè precarietà.
Questa
situazione determina per la CGIL un duplice problema.
Vi
è da un lato la necessità, il dovere di tutelare questi lavoratori, e
per questo abbiamo costruito Nidil, ma dall’altro vi è la necessità di
rimettere in un unico circuito di lavoro, conoscenza e rappresentanza questi
lavoratori.
A
quest’ultimo compito, per il quale è indispensabile
attrezzarsi, non siamo ancora pronti.
Forse
è anche per questi motivi che, nonostante gli inni che quasi quotidianamente si
elevano in favore dei giovani che preferiscono cambiare molti lavori nella vita,
continuano a manifestarsi fenomeni come quello avvenuto qualche settimana fa.
All’Hotel
Ergife per un concorso a 92 posti di avvocato presso un ente pubblico, si sono
presentati 12000 concorrenti, si badi bene, per una professione che dovrebbe
avere tra le proprie caratteristiche genetiche il fatto di essere libera ed
autonoma.
Si
pone per noi la necessità di rappresentare il lavoro nella sua interezza,
favorendo anche soluzioni organizzative adeguate.
Spetta
a noi affrontare questi temi in una fase in cui non sembrano esservi nella
società altri soggetti che hanno voglia di ascoltare e rappresentare coloro che
pongono queste domande.
Su
questa assenza di interlocutori nella società, si registra per me la distanza
maggiore tra il lavoro e la
politica dei nostri giorni, che non riesce ad ascoltare e, meno che mai, a
rispondere ad una straordinaria domanda di eguaglianza e giustizia sociale.
Forse
anche per queste ragioni Piazza San Giovanni, venerdì scorso era piena.
Così
come penso che, in questo quadro, non debba essere sottovalutato il peso che
va assumendo una crescente questione salariale, che è prima di tutto percepita
come una questione di equità distributiva, correlata al valore del lavoro che
ogni persona fa e che è spesso mortificato.
Risolto
il livello di sopravvivenza, il problema per ognuno diventa il rapporto tra il
lavoro che si fa ed il valore che vede riconosciuto nel salario che percepisce.
Se
questo nesso salta, si subisce un’ingiustizia e si genera un comprensibile
sentimento di ribellione.
Se
la questione viene assunta e ricondotta in una rivendicazione generale, la si
governa, altrimenti si producono frantumazioni e
spinte corporative e si innesca una spirale perversa per cui i più forti
diventano sempre più forti e i deboli più deboli.
Questo
senso di ribellione è destinato a crescere, se anche in settori non marginali
della sinistra, crescono coloro che ritengono che i valori dell’impresa, della
proprietà, del mercato, debbano
essere assunti come prevalenti rispetto al valore delle persone, del loro lavoro
e qualche volta della loro vita come dimostra l’elevato numero di morti
bianche che ancora affligge il nostro paese.
Nel
1993 abbiamo stipulato un grande patto sociale.
Questo
patto ci ha consentito di entrare in Europa garantendo il rinnovo dei contratti,
il mantenimento o l’introduzione di due livelli di contrattazione, anche
laddove non si praticava una sostanziale difesa del potere di acquisto delle
retribuzioni.
Si
tratta di risultati importanti e tuttavia non sfugge a nessuno che siamo in
presenza di una nuova fase.
Se
è vero che i profitti delle imprese sono cresciuti, che il risamento è in
buona parte compiuto, che l’incidenza della spesa per il personale nella P.A.
è diminuita, che la mobilità sociale nell’ultimo decennio si è bloccata, la
necessità di attuare una reale politica di tutti i redditi è, se possibile,
ancora più urgente.
Si
tratterebbe quindi di aggiornare positivamente
l’intesa del 23/7, adeguandola alla nuova fase dell’economia.
E’
evidente che una simile discussione è resa oggi impraticabile (se non vogliamo
assumere un ruolo di pura testimonianza) dalla strumentalità e dalla
irresponsabilità di Confindustria e del centrodestra, che arrivano a proporre
il superamento dei CCNL e la stipula di contratti individuali.
Il
quadro, poi, risulta ulteriormente complicato dalla divaricazione strategica con
le altre organizzazioni sindacali in particolar modo con la Cisl che è stata
qui esplicitata ieri dal suo segretario generale e da cui è difficile
prescindere, se si vuole portare al confronto con successo una qualsiasi
proposta di modello di relazioni sindacali.
Noi
siamo tra coloro che Pezzotta considera un’anomalia perché la legge sulla
rappresentanza nel P.I. obbliga tutti a misurarsi con il consenso elettorale dei
lavoratori.
Osservo
che, dove questa anomalia non agisce, e cioè, nella parte prevalente del lavoro
dipendente, è sufficiente il veto di un gruppo dirigente per negare ai
lavoratori il diritto di voto.
Le
nostre RSU sono in scadenza alla fine di quest’anno.
Immediatamente dopo le elezioni politiche noi apriremo la campagna elettorale per la rielezione delle RSU nel Pubblico Impiego con la precisa volontà di farci riconfermare, con il voto dei lavoratori e delle lavoratrici, come primo sindacato della Pubblica Amministrazione.
Penso
che, la questione della rappresentanza nei luoghi di lavoro attenga ad un
valore in sé: la democrazia nel nostro paese e non ad un fatto privato di
questa o quella organizzazione, per quanto grande quella organizzazione possa
essere.
Al
Parlamento che verrà eletto dovremo riproporre, quindi, attuando tutte le
iniziative necessarie, l’esigenza di estendere a tutto il mondo del lavoro il
diritto al voto.
La
legge sulla rappresentanza nel Pubblico Impiego è figlia del lavoro di Massimo D’Antona.
E’
per noi punto d’onore ricordare Massimo, lottando per estendere a tutti questo
diritto.
Noi
abbiamo recentemente fruito della tenuta di un tessuto unitario, di una
piattaforma e della sua gestione unitaria, in una fase di conflitto.
Questo
ha rappresentato un valore aggiunto per tutti i lavoratori e le lavoratrici.
Il
nostro prossimo dibattito congressuale non potrà non affrontare molti di questi
nodi.
Sarà
più facile risolverli, se ciascuno parteciperà alla discussione partendo dalla
propria esperienza, dal merito dei problemi, dalle soluzioni nel concreto
trovate, senza arroccarsi in posizioni precostituite e senza contrapporre a
queste feticci o intoccabili tabù.
Sono
molto contento di aver fatto quel volantinaggio, la soddisfazione che ho provato
è stata molto superiore alla fatica di alzarsi alle cinque.
Anche
noi che abitiamo nei palazzi romani, dovremmo ritrovare il gusto della
discussione all’ingresso di un posto di lavoro.
E’
sicuramente più alta la probabilità di imbattersi lì nei problemi concreti
delle persone, che non in un convegno con sociologo incorporato.
Le
domande e le preoccupazioni espresse da quel lavoratore, erano condivise anche
da coloro che si erano nel frattempo raccolti all’entrata dell’ospedale.
Queste
sono state le mie risposte.
Non
so se queste sono le risposte che la CGIL da ovunque.
In ogni caso noi siamo impegnati affinché in un prossimo futuro lo diventino.
Roma,
4 aprile 2001